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4.5 «Ho scelto di fare la rivoluzionaria, quindi come avrei potuto avere un figlio?»: Maternità e militanza

Il tema dei figli all’interno delle Brigate Rosse – dichiara Renato Curcio – «è stato molto presente e anche molto discusso. Ci furono degli aborti che suscitarono parecchio dolore. Soprattutto le compagne si ponevano un problema di non poco conto: se la lotta armata clandestina dovesse durare molti anni – come sembrava possibile – ciò significa che la nostra militanza ci impedirà di avere dei figli? Era difficile trovare una risposta soddisfacente» (Curcio in Scialoja 1995, pp.44-45).

La scelta di non avere figli da parte degli ex militanti era strettamente legata alla loro consapevolezza di condurre un’esistenza piena di incertezza e rischio. A tal proposito, Curcio, ricordando i primi anni di matrimonio con Margherita Cagol e il loro iniziale desiderio di avere un figlio, racconta: «parlammo a lungo di quello che per noi rappresentava un problema personale importante, ma decidemmo che, con il tipo di vita che ormai facevamo, avere un figlio sarebbe stato un azzardo troppo grosso» (Curcio in Scialoja 1995, p.44). È alla medesima conclusione che giungono Adriana Faranda e Valerio Morucci. Si legge nella biografia della Faranda scritta da Silvana Mazzochi: «nel luglio del ’74, Adriana si era trovata di nuovo incinta. Ed era stata travolta dai sentimenti. Era visceralmente contraria all’aborto e per di più non riusciva ad accettare che la prospettiva insurrezionale cancellasse automaticamente la vita, i rapporti d’amore, la possibilità di avere figli. Ma Valerio era stato irremovibile: avevano accettato la necessità della lotta armata. E con quell’esistenza tessuta di rischio e di sangue, un altro bambino sarebbe stato davvero un’avventura» (Faranda in Mazzocchi 1997, pp. 55-56).

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La questione della difficile, se non addirittura impossibile, conciliazione tra la scelta della rivoluzione e quella della maternità è stata sviluppata lungo due direttrici fondamentali: quella delle militanti che hanno vissuto «la scelta di avere figli come scelta di vita» (Russo, archivio DOTE, p.75) e quella di coloro che, al contrario, hanno deciso di non avere figli né durante la militanza né dopo semplicemente perché «se tu fai la guerriglia non fai figli!» (Intervista a G., p.22).

Punto di partenza dell’analisi di questa dimensione sarà proprio quest’ultima considerazione, contenuta nella significativa testimonianza di una delle ex brigatiste che ho intervistato: «io ho scelto di non fare figli perché ho scelto la lotta partigiana; ho scelto di fare la rivoluzionaria di professione, quindi, come avrei potuto avere un figlio?» (Intervista a G.) e prosegue:

«oltretutto io penso che è persino una mostruosità imporre a un essere che non ha scelto di vivere, di farlo vivere senza genitori, di abbandonarlo dopo che l’hai fatto…e poi sennò come, cosa fai? Ti porti il bambino che può essere ammazzato dalla polizia? Ma, siamo matti!? […] Le regole si danno da sé! Perché se tu fai la guerriglia non fai figli! È ovvio, è ovvio! Tu metteresti in pericolo una donna incinta? Tu metteresti in pericolo tuo figlio neonato col fatto che fa irruzione la polizia, comincia a sparare? […] Perché, è logico, tu stavi in una base con delle armi; e se non stavi con delle armi, stavi con dei documenti che ti facevano comunque prendere l’ergastolo, tuo figlio ti sarebbe stato tolto (Intervista a G.).

Alcune ex militanti hanno individuato nella maternità «il veicolo di una rilettura critica della propria esperienza» (Galfrè 2014, p. 161) e un nuovo modo per esprimere la propria femminilità; per altre, invece, «l’orgoglio femminile» è rimasto «riposto nell’intellettualità e nella politica» (Passerini

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1988, p.204), al punto da interpretare la rinuncia alla maternità come un sacrificio necessario per preservare la propria libertà decisionale:

«io ho scelto di non farlo [il figlio] anche perché volevo continuare a far politica, volevo continuare ad essere una donna libera, a poter decidere senza costringere nessuno; certamente è stato un peso, anche un’amputazione, se vogliamo, però alla fine, però…come tutte le rinunce, quando sono scelte, le metti nel posto che speri che possono mantenere, poi queste sono faccende intime, però, io ho sempre pensato che quando tu fai determinate scelte d’avanguardia rivoluzionaria – è sempre successo così – scegli anche fino al sacrificio di dover togliere la vita al tuo nemico […] eh beh devi mettere su un piatto l’intera tua rinuncia, l’intero tuo sacrificio, cioè…fa parte del gioco!» (Intervista a G.).

In circostanze come quelle determinate dalla lotta armata clandestina, in cui era richiesto un impegno totalizzante, il progetto politico collettivo non lasciava spazio alla realizzazione delle singole progettualità individuali: «nella lotta armata […] non potevamo avere figli, perché, era ovvio, anche pur desiderandoli, non avremmo saputo dove metterli…» (Russo, archivio DOTE, p.41). In alcune situazioni, talvolta, poteva accadere che la dedizione totale alla lotta – anziché essere la causa – fosse la conseguenza della rinuncia alla maternità, come dimostra la storia di Grazia Grena, ex militante di Prima Linea, che spiega:

«avevo deciso poi a quel punto, ormai era il quinto aborto, che non avrei più…che la mia vita doveva cambiare, comunque il discorso del figlio non potevo più porlo come se addirittura stesse diventando una parte di identità di cui non potevo farne a meno quando non era vero, perché poi di fatto non era vero, però sicuramente [...]

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quelle che per me erano già scelte di dedizione totale rispetto alla lotta eccetera, lo sono diventate ancora di più» (Grena, archivio DOTE, p. 25)16.

Come testimonia G.:

«tante compagne che avevano forte questo desiderio, che non avevano mai potuto realizzare per via del fatto che avevano fatto una vita diversa, che erano state arrestate da giovani eccetera; durante i primi permessi, la semilibertà, diverse compagne hanno avuto figli, anche più di uno, anche in tarda età, però, l’hanno voluto avere» (Intervista a G.).

Si tratta, naturalmente, di scelte individuali, però, forse – come osserva la stessa ex brigatista – «lì puoi vedere una diversificazione». In effetti, è proprio a partire dalla scelta o meno della maternità che è possibile avviare un discorso sui diversi modi di ripercorrere la propria storia e sulle diverse consapevolezze di essere soggetti femminili.

È qui che il discorso sulla maternità si aggancia a quello avviato dalle prigioniere politiche durante gli anni di detenzione e ai dibattiti e riflessioni sul significato dell’essere donne, sull’identità di genere e sul corpo, come testimonia Silveria Russo: «Tutta la riflessione sul corpo per noi è stata fondamentale, per decidere di abbandonare questa dimensione che ormai era una dimensione totalmente di morte e scegliere una dimensione di vita» (Russo, archivio DOTE, p. 52)17.

16 Intervista di Donatella della Porta a Grazia Grena, 1986

17 Per approfondimenti, si veda: “Qualche occasione in più”, di Susanna Ronconi, 8 maggio

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