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Soggettività femminili e lotta armata

«Le donne non devono essere in un certo modo per essere soggetti; l’unico criterio è quello dell’individuazione di ciascuna, della soggettivazione della singola donna. Questo mette in moto una dialettica di uguaglianza e differenza con le altre, in cui ognuno dei due termini è indispensabile a produrre, con avvicendamenti e alternanze, il processo di autoriconoscimento»

(Passerini, 1988)

«Lì ha incontrato donne che giocavano la loro femminilità in deformante competizione con uno stereotipo maschile in armi. Le peggiori. Altre che riuscivano a trovare tempo ed energia perché tutti mangiassero e si coprissero a sufficienza. A sempiterna presenza di colei che ne fa le veci. Altre che avevano più carisma e autorevolezza dei corrispettivi al maschile» (Balzerani, 2013)

Al centro dell’analisi, in questo quarto e ultimo capitolo, vi è il processo di soggettivazione delle donne che hanno militato all’interno delle Brigate Rosse.

Partendo proprio dalla concezione della soggettivazione come percorso in continuo divenire, la traccia per realizzare le interviste non strutturate è stata costruita al fine di considerare l’intera esistenza delle nostre protagoniste. Punto di partenza di ciascun “racconto di vita” è stata la famiglia d’origine,

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allo scopo di cogliere la componente ideologica dell’ambiente familiare di provenienza. Si è cercato poi di esplorare il vissuto soggettivo nel corso della socializzazione primaria, considerando le scuole frequentate, i rapporti esterni alla famiglia, gli interessi, le aspirazioni e gli eventuali gruppi sociali di appartenenza. In seguito, l’attenzione si è spostata sul vissuto soggettivo nel corso della socializzazione politica. A questo punto dell’intervista si è cercato di comprendere la loro percezione del clima storico culturale, di scoprire “i luoghi della politica”, ovvero, i contesti nei quali è avvenuta “l’iniziazione” alla militanza (scuola, università, fabbriche, movimenti, circoli, associazioni); il tutto, allo scopo di comprendere se e quanto l’inserimento in determinate reti sociali abbia rappresentato una condizione rilevante per l’avvicinamento a una determinata ideologia e quanto quest’ultima sia stata decisiva nel favorire la scelta della lotta armata. La parte centrale della traccia, invece, si è soffermata sulla fase della militanza armata all’interno dell’organizzazione o dei nuclei clandestini rivoluzionari. Oltre a indagare sul perché la lotta armata sia diventata una via possibile se non addirittura necessaria, si è cercato di far luce sulle caratteristiche interne del gruppo, sul percorso che le ha poi condotte a scegliere di entrare in clandestinità, sul loro livello di impegno e coinvolgimento, sulle attività, i compiti e i ruoli ricoperti; principalmente al fine di stabilire se il sesso di appartenenza sia stato motivo di eventuali discriminazioni o se abbia innescato o meno dei meccanismi di esclusione rispetto alla piena partecipazione alle attività dell’organizzazione. Inoltre, si è cercato di comprendere l’impatto della clandestinità sulle militanti e di vedere se nei rapporti quotidiani con i compagni queste donne abbiamo sperimentato un clima tendenzialmente maschilista oppure una situazione di concreta parità.

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Successivamente, la traccia si è concentrata sulla fase di conclusione della militanza, quindi, sugli anni del carcere e sulla vita quotidiana di queste donne all’interno di una istituzione totale in cui, in quegli anni, i “prigionieri politici” venivano sottoposti ad una serie di misure molto severe «con le quali lo Stato mira[va] a reprimere il fenomeno terroristico. Le cosiddette “carceri speciali” e l’applicazione dell’art. 90 dell’Ordinamento Penitenziario, per esigenze di «ordine e sicurezza», attribuiva al ministero di grazia e giustizia la facoltà di sospendere le «regole di trattamento» dei detenuti. Il che significava riduzione delle ore d’aria, riduzione delle visite, limitazione dei pacchi di cibo e vestiario inviati dai familiari, isolamento» (Guidetti Serra 1988).

La parte finale della traccia si è concentrata sull’uscita dal carcere e su quelli che potremmo definire “luoghi della libertà”, cercando di sapere se e in che modo donne con alle spalle un’esperienza così particolare e dura siano riuscite a costruire o ricostruire i rapporti con la famiglia di origine nonché i rapporti amicali e sentimentali. Si è cercato di capire, in pratica, quanto il fatto di essere, riproponendo la definizione di una delle donne intervistate, una «ex rivoluzionaria di professione» – e anche una ex detenuta – abbia influito sulla loro realizzazione professionale e sull’inserimento nell’attuale contesto socio-culturale.

Prima di passare alle dimensioni d’analisi, è necessario un ulteriore chiarimento. L’obiettivo di questa ricerca – e quindi anche delle interpretazioni fornite in questo capitolo – non è quello di utilizzare le testimonianze delle ex brigatiste per ricostruire un quadro autentico del periodo storico e del contesto socio-culturale nel quale hanno vissuto. Lo scopo, piuttosto, è quello di far emergere, di “tirare fuori” dalle singole storie la soggettività di donne che hanno vissuto in prima persona

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l’esperienza della lotta armata; un’esperienza che ha inevitabilmente caratterizzato e condizionato il loro percorso di vita.

Nel fare ciò, bisognerà tener presente, innanzitutto, che esiste un notevole scarto temporale tra il momento in cui hanno vissuto questa esperienza e il momento in cui l’hanno raccontata. Ci troviamo, quindi, di fronte a una soggettività “filtrata”; una soggettività che ci viene restituita attraverso un racconto nel quale, inevitabilmente, la memoria gioca un ruolo determinante. Le parole di una ex militante descrivono alla perfezione le difficoltà del dover tradurre la rievocazione in racconto:

«è difficile in quattro e quattr’otto, mi sembra di buttare giù un libro, no? nel senso che viene difficile; è difficile perché è un gioco di sensazioni e di razionalizzazione di certe sensazioni; è il cercare di tramutare le sensazioni in parole ed è difficile, è difficile allora trovare il momento in cui sono successe perché ti rendi conto che in fondo hai poi una confusione […] hai la sensazione che certe cose le hai vissute e sapevi bene in quel momento che cosa stavi vivendo però adesso c’è la sensazione che a volte ti rendi conto che stai confondendo gli anni, no? se quello è successo prima o è successo dopo» (“Maria”, archivio DOTE, P. 44)14.

Oltre a trovarci di fronte a una soggettività “filtrata” e a un racconto nel quale la memoria gioca un ruolo determinante, occorre anche tener presente il fatto che le narrazioni delle ex militanti si configurano come una sorta di “teatro” di una autorappresentazione «in cui si combinano strategia e spontaneità» (Passerini 1991, p. 50) e che sembra assolvere diverse funzioni: «accentua[re] gli aspetti dell’azione»; esprimere una rivendicazione di scelte «che non sono state dettate da condizionamenti o

14 Intervista di Domenico Nigro alla militante chiamata “Maria” nella trascrizione

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motivazioni ricevute, ma da un moto personale di ribellione» (Passerini 1991, pp.52-53); sottolineare un protagonismo attivo nella propria storia personale e in quella dell’organizzazione.

Alcune parti delle storie di vita raccolte sono paradigmatiche di queste forme di autorappresentazione. Una delle ex brigatiste, per esempio, pensando all’inizio della sua militanza, racconta di aver condiviso «per la storia formale» e «pienamente, come militanza piena, la parte delle Brigate Rosse della Unione dei Comunisti Combattenti» (Intervista a G.) di cui «ovviamente» è stata una delle fondatrici. L’altra donna intervistata dichiara di essere entrata a tutti gli effetti nelle Brigate Rosse «diciamo fine ’77, inizio ‘78» e spiega che il tutto è avvenuto per un susseguirsi di situazioni «tutte abbastanza decise e scelte!» (Intervista a C).

Emerge, da queste testimonianze, la volontà di rivendicare la propria agency rispetto a questa esperienza; consapevoli, forse loro per prime, del fatto che uno dei più tenaci cliché sulle motivazioni del coinvolgimento femminile in forme estreme di impegno politico – soprattutto quando si tratta della partecipazione alla lotta armata – è quello che spiega l’ingresso delle donne nelle organizzazioni politiche clandestine adducendo non motivazioni politiche, bensì motivazioni scaturenti da un coinvolgimento affettivo. Le narrazioni di molte ex militanti, tuttavia, dimostrano che questa loro scelta radicale non è stata dettata da bisogni affettivi o da legami sentimentali – «sicuramente non l’ho considerata una famiglia, non ero una senza famiglia, senza rapporti, che aveva bisogno di cercare dentro a un gruppo questi rapporti» (Mantovani, documentario Bianconi 1997) – ma da motivazioni squisitamente politiche:

«io lì dentro non cercavo certo né amicizie, né affetti particolari, né un modo di vivere alternativo alla mia vita. Cercavo la politica! E quello era per me più

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importante. Quello che va detto è che lì dentro non c’ho trovato solo la politica! Lì dentro ho trovato delle persone eccezionali che forse proprio in virtù di una scelta così radicale avevano una capacità poi di rapporti con gli altri compagni che era sicuramente…che viveva sicuramente a una cifra superiore rispetto a quello che normalmente avviene, e questo credo che, a una riflessione a posteriori, sia anche capibile, cioè quando tu affidi all’altro addirittura la tua incolumità è evidente che quell’atto diventa una cosa estremamente preziosa. L’altro di fronte a te è una persona con cui ti giochi la vita, ma non solo; riesci anche a superare, o per lo meno a controllare, quelle settecento milioni di piccole meschinità che normalmente esistono in tutti i rapporti, in tutte le relazioni in cui c’è…in cui bene o male c’è un tornaconto. Ecco, lì questa cosa sfumava abbastanza perché c’era un problema di vita, di morte; è una condizione eccezionale, per cui molte cose, appunto, vengono vissute in maniera completamente diversa» (Balzerani, documentario Bianconi 1997).

In virtù di tutte queste considerazioni e del campione numericamente limitato, ne consegue che i risultati ottenuti dalle interpretazioni contenute nelle otto dimensioni d’analisi non sono generalizzabili ma, semplicemente, riportano – e ci aiutano a cogliere nuovi aspetti di – un’esperienza che è già stata affrontata e in cui la rappresentazione di sé offerta è assolutamente soggettiva e nasce da un’autoriflessione.

4.1 «Quel formidabile ciclo di lotte…»: La rivoluzione e la