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Dopo aver definito i caratteri dell’ira e discusso dell’innaturalità sua e delle reazioni che provoca, Seneca, riprendendo il discorso iniziato nel precedente capitolo, sferra ora un attacco diretto contro quanti erroneamente ritengono che sia possibile contenerla; al contrario, è necessario sradicarla subito dal proprio animo prima che i suoi germi, come una cattiva pianta, mettano radici e lo invadano soffocandolo con passioni nuove e diverse. L’azione dell’uomo deve volgersi perciò su due fronti contrapposti: fortificarsi chiudendo gli accessi verso l’esterno; combattere la passione come un nemico che attacca e si deve annientare. A questo duplice intento sono finalizzati da un lato l’uso di un lessico che valorizza l’interiorità dell’individuo e la necessità del suo distacco dall’esterno, dall’altro il ricorso alla metafora della guerra.

Paragrafo 1

optimum est

Il capitolo si apre con una nota di apparente ottimismo: il superlativo esprime infatti l’esistenza di uno strumento sicuro di salvezza nella completa estirpazione dell’ira indicandolo però come l’unico possibile in assoluto e escludendo ogni altra

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soluzione individuale o dottrinaria. Subito dopo cominciano a chiarirsi anche le condizioni necessarie al buon esito dell’azione salvifica. Non è escluso che l’espressione rimandi a quella di 7, 1 (optimum … quidam putant temperare iram) ribaltando, non senza ironia, l’opinione di chi ritiene utile un esercizio moderato dell’ira.

primum.... protinus

La prima condizione è la prontezza: lo indicano l’aggettivo -ancora un superlativo- e subito dopo l’avverbio che anche altrove Seneca mostra di prediligere per l’idea di retta e sicura direzione che contiene (cfr. ep. 124, 7: quid autem

secundum naturam sit, palam et protinus apparet, sicut quid sit integrum). Esso è

adoperato perciò a esprimere l’urgenza dell’esortazione filosofica (cfr. otio 3, 4: ...

protinus commendare se bonis artibus; e soprattutto brev. 9, 1: protinus vive) e la

rapidità dell’azione risanatrice della filosofia: protinus enim delectat, dum sanat (ep. 50, 9). In rapporto alla terapia delle passioni, in particolare del dolore che colpisce chi ha subito un lutto familiare, l’avverbio ricorre anche in ep. 9, 2: hi, qui sibi lugere

sumpserunt, protinus castigentur et discant quasdam etiam lacrimarum ineptias esse

(ep. 99, 2).

inritamentum

Il termine, usuale nel lessico morale a indicare la prima origine dei vizi già a partire da Ovidio (cfr. met. 1, 140: effodiuntur opes, inritamenta malorum, a proposito della nascita dell’attività mineraria), presenta, nel De ira, 3 delle 7 occorrenze senecane. In questo, come in altri casi, il filosofo lo carica di una connotazione di vanità e infondatezza: come a suscitare l’ira può essere sufficiente il primo irritamento e perfino una falsa opinio iniuriae (ira 2, 22, 2) così per lo più la frequentazione e la vana ammirazione altrui è sufficiente a provocare ogni nostra follia: ita est: inritamentum est omnium, in quae insanimus, admirator et conscius (ep. 94, 71)

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repugnare

È il primo segnale di quella metafora bellica che attraversa gran parte del capitolo, accentuandosi soprattutto nel secondo paragrafo. L’idea di risposta a un attacco o a una provocazione che il verbo esprime sottolinea la necessità che l’individuo stia sempre attento e pronto a resistere all’aggressione dei vizi e delle passioni che, d’altronde, anche altrove Seneca immagina in continuo e spietato assalto dell’uomo incurante del vero bene e attento piuttosto ad attività vane: urgent

et circumstant vitia undique (brev. 2, 3).

seminibus

Il termine, guadagnato al lessico morale già da Cicerone come prima origine di virtù (cfr. fin. 4, 7, 18; 5, 7, 18; 5, 15, 43 e soprattutto Tusc. 3, 2: sunt enim ingeniis

nostris semina innata virtutum) e di possibili mali (cfr. nat. 3, 71), riacquista qui in

qualche misura il suo valore scientifico: indivisibili e impercettibili come gli atomi, densi della capacità di produrre e riprodursi come veri corpora prima, anche i germi delle passioni sono però individuabili e conoscibili grazie all’uso della ragione.

incidamus in iram

WATT (1994, p. 232) considera sospetto il sostantivo che si ripete a breve distanza dopo il genitivo e soprattutto perché si produce un ritmo esametrico. Propone perciò di leggere eam.

transversos

L’aggettivo allude alla perversione dell’ὀρθὸς λόγος dottrinario ma riprende anche, rovesciandolo, il senso dell’invito espresso da protinus a servirsi di una retta prontezza allontanando da sé le prime cause delle passioni: quando invece si cede al primo impulso l’adfectus corrompe l’uomo facendolo deviare dalla diritta via. Per l’immagine cfr. già Sallustio, Iug. 6, 3: 3: terrebat eum natura mortalium avida

imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem ... quae etiam mediocris viros spe praedae transvorsos agit.

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salutem

Si tratta naturalmente della sanità morale secondo quel doppio registro già osservato (cfr. 6, 2: s. v. medicus), reale e metaforico, che investe spesso l’uso senecano della sfera e del lessico della medicina. Il concetto è ribadito al paragrafo successivo dall’aggettivo salutaris.

ius

L’assenso della volontà alla passione, centrale in questo segmento di testo, sembra in qualche modo conferirle un tacito ‘diritto’ a spadroneggiare nella mente e nella vita della vittima e a concedersi ogni eccesso. Per un uso simile cfr. ep. 18, 1 -

ius luxuriae publicae datum est- a proposito del “diritto alla lussuria” alla quale gli

uomini si sentono autorizzati durante i Saturnali.

voluntate nostra

Se il primo accesso della passione è inevitabile ed è poi l’assenso umano a concederle la possibilità e quasi il “diritto” di prendere possesso dell’individuo, la volontà assume nella teoria morale senecana un ruolo nuovo e centrale come primo motore del cammino verso la virtù, ma anche verso il vizio (cfr. POHLENZ20122,p. 643 ss.; REALE 2005, pp. 142 ss.): su di essa il filosofo si soffermerà più diffusamente all’inizio del secondo libro di questo dialogo e poi, con interesse crescente, fino alle epistole dove rectus animus, recta actio e recta voluntas finiscono per identificarsi (cfr. ep. 16, 1: perseverandum est et adsiduo studio robur

addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est; e soprattutto 95, 57: Actio recta non erit, nisi recta fuerit voluntas, ab hac enim est actio. Rursus voluntas non erit recta, nisi habitus animi rectus fuerit, ab hoc enim est voluntas). Sul primus motus cfr. commento a in impetu est, doloris armorum, sanguinis suppliciorum (1,

1). Sul rapporto tra coscienza individuale e volontà in Seneca, anche in rapporto alla nozione greca di προαίρεσις, cfr. HADOT 1969, p. 162 ss.

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Paragrafo 2

in primis

Contro quanti sostengono la possibilità di un intervento lieve e differito per reprimere l’ira Seneca ribadisce (inquam) l’invito, col quale aveva aperto il capitolo, ad agire subito adottando adeguate e consapevoli misure di difesa.

hostis

Il termine apre la densa metafora bellica che si estende da questo paragrafo (intravit et portis se intulit; a captivis; vim ... proditam iam infirmatamque) al successivo (ratio occupata et oppressa vitiis) equiparando la lotta tra l’uomo e le passioni a quella tra la vittima di un assedio e un aggressivo nemico invasore. Hostis infatti indica il nemico straniero operante in un bellum externum; è inoltre ideologicamente connotato dai caratteri dell’audacia e della provocazione (cfr. JAL 1963). Il termine anticipa così il secondo motivo del brano: la necessità per l’uomo di automunirsi per trovare nella propria interiorità la difesa contro le irruzioni esterne.

modum

Il termine, alla base di un’ampia sfera lessicale che investe tanto l’area dell’interiorità (modestia-modestus), quanto quella dei rapporti interpersonali (moderatio) e perfino dell’attività politica (moderator, soprattutto in Cicerone), è volutamente adoperato all’interno della metafora in due direzioni contrapposte: in rapporto al nemico vincitore, che può operare su se stesso una salutare forma di contenimento della sua furia guerresca, e al vinto che, proprio in virtù del suo statuto di prigioniero, impone una sorta di ‘misura’ morale della quale in prima persona gode poi gli effetti concreti. Sull’area lessicale nel suo insieme cfr. BORGO 1998, pp. 130-134; sull’uso ciceroniano MILITERNI DELLA MORTE 1980.

sepositus est

Sepono è considerato da MAZZOLI (2006, p. 461) «verbo specifico per indicare la rimozione di quanto si frappone sulla strada del ripiegamento in se stessi:

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anzitutto gli adfectus» in forza della radice indoeuropea *sw-, *s- che esprime le nozioni di separazione e autonomia insieme a quella di ritiro in sé. Dalla consapevolezza del filosofo che l’animo umano non è dotato di questa forma di distacco ed è perciò pericolosamente esposto al rischio di aggressione da parte dei

vitia derivano «la dinamica dell’orgoglioso arroccamento difensivo» (MAZZOLI,

2006 p. 459), che da Seneca si trasmette fino a Marco Aurelio, e la necessità della

cura sui che è attenzione per l’animo ma anche per il corpo che va tutelato dalle

rovinose conseguenze delle passioni come l’ira. Sull’argomento cfr. CITTI 2012, pp. 11-24. Più in generale, sui moduli descrittivi della riflessione nella letteratura antica cfr. FASCE 2002, pp. 87-113.

in adfectum ipse mutatur

Se la passione attecchisce grazie all’assenso del logos che vi si è piegato è lo stesso animo razionale a subire una trasformazione divenendo, in qualche modo, irrazionale. Il concetto viene ripreso e spiegato con maggiore ampiezza nel paragrafo successivo.

Paragrafo 3

separatas

Secondo il pensiero stoico virtù e ragione non sono di per sé scindibili e una distinzione tra di essi «assolve anzitutto per il filosofo una primaria funzione intellettuale, in sede logico-critica» (cfr. MAZZOLI 2006, p. 460). Ne consegue l’intrinseca impossibilità di una loro separazione di origine naturale.

ista

Si tratta appunto dell’ adfectus e della ratio che vengono nominati subito dopo con ricercato effetto ritardante. Ratio varia animus del paragrafo precedente al quale Seneca allude con esplicito rimando (ut dixi) per chiarire il concetto.

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diductas

Non si tratta di un sinonimo del precedente separatas giacché, rispetto alla nozione di un intenzionale distacco dall’altro e del conseguente ripiegamento in se stesso espresso dal preverbio se-, diductas sembra sottolineare l’azione di una separazione indotta dall’esterno e, soprattutto, di una dispersione violenta (dis-) simile a uno smembramento (cfr. ira 3, 14, 3: pectus ...in duas partes diductum, esito di un odioso delitto del re Cambise): un effetto simile a quello prodotto dall’aria che, insinuatasi nelle cavità della terra, può essere causa di terremoti: ... quidquid intravit

vi sua diducat ac dissipet (nat. 6, 14, 4). Per l’uso metaforico del verbo con valore

morale cfr. soprattutto ep. 32, 2 (Diducimus illam in particulas ac lancinamus, della vita che la nostra inconstantia dilacera); per il cumulo della stessa coppia verbale cfr. ben. 6, 5, 2 (Itaque non separo illa nec diduco).

adfectus et ratio in melius peiusque mutatio animi est

Seneca riprende la teoria monistica di Crisippo (vedi SVF 3, 459) secondo la quale -in antitesi con la scuola accademico-peripatetica- le affezioni hanno sede proprio dove si trova la ragione. Esse infatti sono perturbazioni del logos verso il male (sull’argomento vedi POHLENZ 20122, p. 289 ss. e 641 ss.). Solo in ep. 71, 72 e e 92, 1 si contraddice parlando di due elementi distinti, uno razionale e uno irrazionale (sul motivo vedi SPANNEUT 1973, p. 4679 ss.). Il termine mutatio inoltre rispetto a metamorphosis, che esprime la nozione di un cambiamento d’aspetto, indica un vero e proprio mutamento di genere, una commutazione che implica una sorta di movimento (cfr. ERNOUT-MEILLET 1951, pp. 755 s.) dell’animo verso l’alto (ratio) o il basso (adfectus).

quomodo ... praevaluit

Il relativo ottimismo col quale si era aperto il capitolo cede qui alla pessimistica ammissione che al cedimento al vizio non c’è rimedio: come una città invasa viene abbandonata alla razzia della soldataglia e rasa al suolo, così all’animo che si è piegato all’ira senza opporre resistenza sarà impossibile rialzarsi ed evitare di essere straziata dai suoi più abbietti e pericolosi nemici, i vizi. Fuori della metafora bellica, si esprime la consapevolezza dello stoico che il cedimento anche a una sola passione

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comporta il rischio sicuro di soccombere a tutte perché, come non è possibile operare distinzioni tra i nemici, allo stesso modo è impossibile farlo tra i vizi che sono tutti equiparati nella loro colpevole genesi. Il sintagma d’apertura del capitolo optimum

est si dimostra perciò più come uno strumento di difesa e una via di fuga che come

l’indicazione di una via certa di salvezza.

ex confusione

Immagine del caos che potrebbe seguire alla rottura dell’armonia celeste (cfr.

Pol. 1, 2; ben. 6, 22, 1; 7, 31, 3), confusio indica qui il disordine morale e

comportamentale che tiene dietro alla perdita dell’armonia interiore. In altri casi, come nella polemica antiepicurea di ben. 4, 2, 3, essa è effetto invece di un’errata valutazione della priorità dei valori necessari al progresso verso la virtù. Guadagnato già da Cicerone al lessico morale a esprimere l’armonica congruenza delle virtù (fin. 5, 67: coniunctio confusioque virtutum) ma anche la conseguenza della perdita dei valori morali (fin. 2, 35: nonne videmus quanta perturbatio rerum omnium

consequatur, quanta confusio?) e religiosi (nat. d. 1, 3: ... quibus sublatis perturbatio vitae sequitur et magna confusio), il termine acquista ancora nuove connotazioni in

Seneca caricandosi di un valore ideologico-politico in rapporto ai compiti, anche morali, del governante (clem. 1, 2, 1: ubi discrimen inter malos bonosque sublatum

est, confusio sequitur et vitiorum eruptio; itaque adhibenda moderatio est, quae sanabilia ingenia distinguere a deploratis sciat) e soprattutto di un valore

psicologico in un luogo delle epistole che collega la polemica morale contro i falsi beni a quella lucreziana contro la religio: talis est animorum nostrorum confusio,

qualis Lucretio visa est: ' nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis in tenebris metuunt, ita nos in luce timemus' (ep. 110, 6).

mixtura

Il termine, di uso concreto e scientifico a indicare la struttura atomistica delle cose (cfr. Lucr. 2. 978, mixtura rerum), la composizione di sostanze diverse in ambito medico (7 occorrenze in Cornelio Celso; 1 in Scribonio Largo), e in genere la fusione di elementi ad opera della natura o nei prodotti dell’uomo (frequente in Columella e soprattutto in Plinio il Vecchio), passa con Seneca al lessico morale

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sulla scia di una tradizione filosofica già greca e anteriore all’area stoica. Il filosofo ce ne dà ragione nel secondo libro del De ira spiegando come la diversità dei caratteri e la propensione stessa ai vizi poggi sulla disuguale commistione dei quattro elementi basilari, aria, acqua, terra e fuoco, negli uomini come nelle cose: Nam cum

elementa sint quattuor, ignis, aquae, aeris, terrae, potestates pares his sunt, fervida, frigida, arida atque umida: et locorum itaque et animalium et corporum et morum varietates mixtura elementorum facit, et proinde, in aliquo magis incumbunt ingenia, prout alicuius elementi maior vis abundavit (19, 1).

Paragrafo 4

sed ... inquit

L’avversativa apre la prima delle due obiezioni che, ricorrendo a uno strumento usuale nella sua argomentazione filosofica (cfr., a proposito dell’antitesi e, nello specifico, di quella avversativa TRAINA 19843, p. 32), Seneca mette in bocca a un ignoto interlocutore al quale offre inaspettatamente la parola (la seconda, al § 6, è aperta dal più forte at). Il suo ragionamento diventa così uno stringente contraddittorio al quale le ripetute domande del filosofo conferiscono un ritmo serrato e incalzante.

se continent

Ripetuto a § 6, sempre dall’interlocutore che tenta la difesa di un uso misurato dell’ira, il verbo indica lo sforzo soprattutto fisico di trattenere mani e gesti violenti dettati dalla passione all’interno di confini spaziali e comportamentali limitati alla propria persona.

ergo

Costituito dalla preposizione e e dall’ablativo di un sostantivo verbale di rego l’avverbio, che esprime la nozione di ‘a partire da’ (cfr. ERNOUT-MEILLET, p. 358), segna l’inizio del contraddittorio non senza una linea di impazienza per l’interruzione provocata dal primo intervento dell’interlocutore.

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eorum quae

Si tratta di due pronomi neutri, secondo un uso già osservato in Seneca (cfr. 1, 7, 3).

dictat

Il frequentativo di dico esprime l’atto di ripetere più volte e ad alta voce, con intento prescrittivo e imperativo: l’ira si presenta così non solo come consigliera ma addirittura come ferma propugnatrice di azioni irrazionali e scellerate.

actiones rerum

Si tratta del comune agire quotidiano, come sottolinea l’uso del generico res, nel quale tuttavia si manifestano la capacità e la volontà individuale di autogoverno, dunque l’habitus e l’essenza stessa dell’animo (cfr. ep. 95, 57 già cit.): l’errore dello

stultus consiste nel pensare che l’ira abbia capacità maggiori e più potenti di guidare

il comportamento umano, ciò che non è possibile se l’animus non abbia imparato a reggere se stesso diventando a sua volta rectus.

quasi ... haberet

La comparativa ipotetica, come spesso in Seneca, assolve la duplice funzione di dichiarare la falsità dell’assunto e insieme la pretestuosità se non la mala fede di chi lo sostiene: in questo caso sembra prevalere soprattutto l’ironia per la stolta credulità dell’interlocutore che pensava di poter contare sull’aiuto di forze che, diverse e contrapposte alla ragione, sono destinate invece a portarlo alla rovina.

advocabitis

È verbo di uso giuridico, relativo alla chiamata di un esperto che consigli il giudice in una causa oppure di un giureconsulto o di un avvocato che assista una delle parti coinvolte in un processo. L’attesa di aiuto e di conforto ne giustifica l’uso in campo anche religioso (cfr. Catullo 40, 3, ma in tono ironico): in questo caso il verbo conferma e anzi accentua il sarcasmo del filosofo per l’errore di tanti e

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soprattutto di chi giustifica il ricorso all’ira sul piano dottrinario. È il momento perciò di contrattaccare su questo punto.

Paragrafo 5

interrogo

Segna l’inizio e la modalità dell’attacco che il filosofo sferra negli ultimi tre paragrafi del capitolo: un serrato susseguirsi di quattro interrogative (due in questo paragrafo) stringono d’assedio l’interlocutore che, costretto a uscire allo scoperto, ribatte con due risposte (al § 6 e al § 7, quest’ultima a sua volta in forma di doppia domanda) la cui affinità e mancanza di argomentazione ne denunciano la sostanziale debolezza. Seneca ribatte in entrambi i casi con un’unica parola (quando?) per poi procedere a una dimostrazione che, trascendendo i casi singoli, si solleva al più vasto campo del dibattito morale: al suo interno una serie di accorgimenti retorici prepara la sconfitta del contendente. Il primo punto oggetto di discussione è se l’ira sia più forte o più debole della ragione.

valentior...infirmior

Le nozioni di forza e debolezza, preannunciate dall’iniziale ricorso alla metafora bellica, diventano da questo momento martellanti in riferimento alle due parti in contesa: la ratio e l’ira. Le occorrenze dei 6 comparativi, intenzionalmente ravvicinati e non variati (valentior; infirmior; valentior; imbecilliora; infirmior;

imbecillioris), tutti, ad eccezione di imbecilliora, riferiti all’ira, ne segnano già

linguisticamente la sconfitta col maggiore numero di aggettivi usati a denunciarne l’evidente debolezza rispetto alla ragione.

ratio

Nel contrasto tra i due contendenti il termine ira scompare, sostituito in questo paragrafo da due pronomi (illi; sine hac). Al contrario, ratio presenta ben tre occorrenze in questo stesso paragrafo, a fronte delle 6 presenti nell’intero capitolo.

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