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Per far comprendere in maniera più efficace ancora quali siano le peculiarità dell’ira, Seneca, dopo avere speso i primi tre capitoli nel definire l’adfectus e le sue caratteristiche, analizza ora le differenze con l’iracundia, termine che oltre nel dialogo sarà invece usato -come riscontra FILLION-LAHILLE (1984, p. 97), almeno a partire dalla fine del I libro- in maniera quasi sempre complementare ad ira, senza

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particolari distinzioni semantiche. Tuttavia, malgrado la lingua latina non vanti la varietà del lessico greco, i diversi termini sinonimici latini che definiscono la passione dimostrano come non esista una sola tipologia di ira, ma numerose sue

species.

Paragrafo 1

quid esset ira satis explicitum est

Con questa espressione Seneca dichiara l’esistenza di un preciso disegno strutturale dell’opera, chiudendo a questo punto una prima sezione relativa alla definizione dell’adfectus per aprirne un’altra, quella sulla definizione dell’iracundia.

quo distet ab iracundia apparet

La distinzione tra le nozioni di ira e iracundia era un concetto già diffuso a Roma: si legge infatti in Cic., Tusc. 4, 27 (…iracundia… ab ira differt, estque aliud

iracundum esse). Si ritrova poi in Victor., rhet. 2, 17 (inter iracundiam et iram hoc interest, quod iracundia perpetua est, ira ad tempus suscipitur); in Donato nel comm. ad Ter. Phorm. 189 (non ‘iram’ sed ‘iracundiam’ dicturus erat, nam ira de causa est, iracundia de moribus). Anche il princeps Claudio, come si legge in Suet., Claud.

38, aveva sostenuto, a seguito di un editto da lui emanato per scusarsi di un suo eccesso di stizza, una differenza tra ira, sentimento di breve durata e privo di conseguenze, e l’iracundia. L’emanazione dell’editto è un fatto di non secondaria importanza per ricostruire la cronologia del dialogo: per maggiori informazioni sulla cronologia dell’opera, cfr. introduzione.

iracundia

Il termine ricorre 32 volte nel dialogo, il più delle volte in senso sinonimico rispetto al termine ira, come appare evidente, ad esempio, in 2, 31, 1 in cui il filosofo fornisce come cause dell'iracundia le stesse espresse nei primi capitoli del dialogo per l'ira: duo sunt […] quae iracundiam concitent: primum si iniuriam videmur

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2; 6, 3-4; 19-21; 2, 8-9). In questo passo il tremine viene invece connotato da Seneca di un significato specifico. L'iracundia sembra differire dall'adfectus in quanto rappresenterebbe una disposizione naturale dell'animo umano che può, ma non necessariamente, causare lo scoppio della passione: sostiene infatti MALCHOW (1986, p. 81) che l'ira è una perturbatio, un'agitazione transitoria, mentre l'iracundia è un vitium, una passione sempre presente. Chi è soggetto all'ira non è detto che sia irascibile di carattere, mentre chi è irascibile non è detto che si adiri più frequentemente e con maggiore veemenza di un irato. Che l'iracundia sia una disposizione innata sembra essere confermato in 1, 11, 4 a proposito dei Germani che, in quanto popolo barbaro, appaiono tutti dotati di questo carattere; ancora in 2, 19, 1 in cui Seneca opera un collegamento tra un fervidus animus e la sua inclinazione all'iracondia. Sulla distinzione tra ira e iracondia vedi anche Plut., de

choib. ira 474.

ebrius … ebrioso … timens … timido … iratus … iracundus

Le tre coppie di termini costituiscono figure etimologiche, ma il fatto che Seneca adotti parole simili in riferimento a realtà diverse le assimila a delle paronomasie.

quo ebrius ab ebrioso

La distinzione tra chi è incline all’ubriachezza e chi è ubriaco, in connessione proprio con la distinzione tra ira e iracondia, si legge nel già citato luogo delle

Tusculanae disputationes di Cicerone 4, 27 [Quae ab ira differt, estque aliud iracundum esse, aliud iratum, ut differt anxietas ab angore (neque enim omnes anxii, qui anguntur aliquando, nec, qui anxii, semper anguntur), ut inter ebrietatem <et ebriositatem> interest, aliudque est amatorem esse aliud amantem]; torna poi in

Seneca anche in ep. 83, 11, in un’epistola in gran parte dedicata all’ebbrezza, a proposito della distinzione tracciata da Zenone tra l’ubriaco e l’uomo virtuoso e della difficile questione semantica che investe i due termini: plurimum enim interesse

concedes et inter ebrium et ebriosum: potest et qui ebrius et tunc primum esse nec habere hoc vitium, et qui ebriosus est saepe extra ebrietatem esse; itaque id intellego quod significari verbo isto solet, praesertim cum ab homine diligentiam professo ponatur et verba examinante. Il timore che il vino, protagonista di banchetti e

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simposi, assunto in eccesso e non mescolato ad acqua potesse costituire un pericolo era diffuso presso gli antichi che, da Omero (Od. 21, 293 ss.) in poi, proprio all’assunzione di merum, il vino puro, da parte dei Lapiti e dei Centauri addebitavano l’origine stessa della violenza umana (DELLA BIANCA - BETA 2002, p. 21 ss.). Per questo motivo durante il simposio veniva mischiato all’acqua; inoltre erano previste delle regole delle quali era garante un simposiarca: chi beveva troppo era quindi ritenuto moralmente abietto. Sull’argomento cfr. CANTARELLA (2012, pp. V-VIII). Come vi è distinzione tra chi prova ira e chi è incline, per natura, all’iracondia, così similmente avviene nel bere: chi è ubriaco non è detto che sia incline all’ebbrezza, ma può cedere a una circostanza isolata o comunque rara.

timens a timido

Utilizzo, frequente in Seneca, del participio presente in funzione di sostantivo a indicare individui determinati o intere categorie di persone (cfr. BOURGERY 1922, pp. 359 s.). Quanto a timidus, delle 40 occorrenze nel corpus senecano, l’aggettivo ricorre nel De ira solo 3 volte: oltre questa occorrenza, Seneca descrive in 2, 19, 2 come paurosi coloro che hanno una natura fredda in contrasto con gli irati ai quali il fuoco fa invece ribollire il sangue; mentre in 3, 24, 4, a proposito della possibilità che anche i sapienti possano commettere colpe, si legge: […] neminem tam timidum

offensarum qui non in illas dum vitat incidat. La contrapposizione tra timens e timidus richiama la precedente tra ebrius e ebriosus: entrambe servono a Seneca a

spiegare la differenza tra ira e iracundia. Il timens è colui che soffre di una paura solo temporanea, mentre il timidus ne soffre abitualmente. La condizione di chi è

timidus è quindi similare a chi è soggetto all’iracundia: in entrambi i casi si tratta

infatti di condizioni innate e costanti.

iratus potest non esse iracundus

HAASE (1902, p. 38) pone tra parentesi quadre il non: MICHAЁLIS (1857, p. 59) crede invece che, sia per il senso che per il rispetto dei codici, debba essere mantenuto: la presenza della negazione infatti è necessaria nella distinzione, oggetto dell’intero paragrafo, tra ira e iracundia e inoltre simmetria tra i due cola nei quali si articola la spiegazione senecana.

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Paragrafo 2

cetera … distinguunt

BOURGERY (1951, p. 7) crede che qui Seneca si riferisca a quanto afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea 4, 5 e anche CUPAIUOLO (1975, p. 96) riscontra, nel testo aristotelico e in quello senecano, termini simili dal punto di vista semantico: ma in questa lunga sezione sulla bonarietà lo Stagirita, più che descrivere le varie possibili tipologie della passione, ne indaga le molteplici cause. Come riscontra BORTONE POLI (1977, p. 294) la tematica è ad ogni modo documentata ampiamente anche in ambito stoico: viene analizzata ad esempio da Cicerone in

Tusc. 4, 21 a proposito della differenza tra ira e excandescentia. Ma lo schema forse

più dettagliato delle varie tipologie d’ira si legge nel Περὶ παθῶν di Andronico da Rodi -anche se la paternità di quest’opera è incerta- che, nel lungo elenco delle 27 specie di desiderio, distingue ὀργὴ, θυμὁς, χόλος, πικρία, μῆνις e κότος (cfr. SVF 3, 397). Cfr. anche SVF 3, 395; 416; 420.

quia apud nos vocabula sua non habent

Per evitare di riportare le numerose definizioni greche dell’ira, Seneca si giustifica menzionando l’assenza di termini appropriati, corrispondenti a quelli greci, nella lingua latina. Come giustamente ricorda CASTIGLIONI (1959, p. 111) però, Seneca si sarebbe potuto servire, come d’altra parte avevano già fatto i filosofici stoici, di termini sinonimici. L’assenza di un vocabolario filosofico adeguato nella lingua latina, rilevata da Seneca anche in ep. 58, 8 ss. a proposito della difficoltà di rendere concetti della dottrina platonica, era comunque già stata lamentata da Lucrezio in 1, 139 (egestas linguae). Cicerone, in Tusc. 2, 35, sottolinea al contrario la superiorità del latino sul greco nella terminologia relativa al dolore (dolor) e alla sofferenza (labor). Il Cordovese riesce ad ogni modo a rendere con aggettivi latini la corrispondenza con la nozione contenuta in alcuni termini greci: amarum (πικρία),

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etiam si … asperum

Lunga serie di complementi retti dallo stesso predicato: cfr. anche ira 2, 3, 2 e 9, 5 (vedi per altri esempi di questo tipo COCCIA 1957, p. 42). Si tratta dei vari termini usati dai latini per definire una persona in preda ad un attacco di ira: Seneca - soprattutto con l’utilizzo della prima persona plurale dicimus- lascia pensare che essi siano di uso comune, ma invece si tratta di termini quasi tutti rari non solo nel suo

corpus, ma in generale nel mondo latino.

amarum … acerbum

I due aggettivi, che raramente nella lingua latina vengono impiegati in riferimento agli uomini, ricorrono entrambi un’unica volta nel dialogo. Amarus, raro nell’intero corpus senecano, ricorre nella letteratura latina più di frequente in riferimento al sapore (inger mi calices amariores, Catullo 27, 2) e all’odore (forte

sacer Fauno foliis oleaster amaris / his steterat, Verg., Aen. 12, 766). Acerbus trova

invece un più largo uso nelle opere senecane ma, come anche amarus, quasi sempre in riferimento a situazioni e stati d’animo: viene riferito a persone solo in clem. 1, 13, 1, a esemplificazione della figura di un rex crudele (significativo l’accostamento all’agg. sanguinarius) e subito dopo, al paragrafo 4, di quella positiva di un sovrano che, amato dalla collettività, non si dimostra aspro neanche con i malvagi (etiam

iniquis <non> acerbus); infine in ben. 7, 14, 5 è riferito al creditor che attende il

risarcimento dal debitore.

stomachosum

Si tratta di un unicum in tutta la produzione senecana e in genere di un aggettivo di uso molto raro nella letteratura latina. Connotato per lo più negativamente in quanto espressione di un’irritabilità prodotta da un malessere fisico (Darete Frigio 13, 16 lo riferisce a Neottolemo; nel carm. 1, 6, 5, la famosa recusatio in cui Orazio si rivolge ad Agrippa, il poeta si dichiara incapace di cantare l’ira del padre, Achille,

gravem / Pelidae stomachum), ricorre solo quattro volte in Cicerone, due delle quali

nelle opere retoriche, Brutus 236 a proposito della natura sottile, ingegnosa, ma a volte collerica di Marco Pisone, e De oratore 2, 279 in cui stomachosa sono definiti quei motti di spirito che, seppure stizzosi, possono riuscire divertenti (e infatti in Att.

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10, 5, 3 Cicerone ammette di aver risposto a Vottieno, a proposito della compravendita di un piccolo alloggio, stomachosius, cum ioco tamen familiari, mentre in fam. 3, 11, 5 tende a difendersi dall’accusa che le sue lettere ad Appio Pulcro possano essere giudicate stomachosiores, un po’ stizzose). Non senza ironia Orazio, che anche in altre circostanze si descrive facile agli scoppi d’ira, costretto ad abbandonare per motivi di salute le terme di Baia, riferisce in ep. 1, 15, 12 l’aggettivo alla sua stessa persona.

rabiosum, clamosum

L’aggettivo rabiosus ricorre il più delle volte nella lingua latina in riferimento agli animali, tra i quali soprattutto le cagne (cfr. Plauto, men. 837 rabiosa femina …

canis; Hor., ep. 2, 2, 72 hac rabiosa fugit canis; Columella, 6, 13 … remedio curatur rabiosae canis; etc.). In Seneca, oltre questa occorrenza, si legge in Herc. f. 172,

ancora in unione all’aggettivo clamosus (hic clamosi rabiosa fori / iurgia vendens /

improbus iras et verba locat), in rapporto alla frenetica attività degli avvocati a

Roma. Sia rabiosus che clamosus, in posizione enfatica in omoteleuto tra di loro e insieme con il precedente stomachosus, trovano solo queste due occorrenze in Seneca.

morosum

La morositas appare come una specie diversa di ira, forse meno grave in quanto di minore intensità e durata, rispetto alle altre precedentemente elencate: Seneca pone infatti il morosus in una posizione diversa nell’elenco e ne definisce la passione un delicatum iracundiae genus. In effetti però il termine. non compare mai nel

corpus delle sue opere mentre l’aggettivo morosus, oltre questa occorrenza, ricorre

altre otto volte, in riferimento a individui o animali, che però non aiutano a comprendere il motivo per cui Seneca ha dato un rilievo diverso a questo termine rispetto agli altri (tra questi meritano attenzione tranq. 1, 2, in cui querulus e

morosus è lo status di Sereno, ed ep. 92, 33 in cui l’aggettivo si riferisce al dominio

intollerabile del corpo sull’individuo: morosum imperium delicatumque). Nel De ira l’aggettivo ricorre ancora in 3, 8, 1 in cui Seneca spiega che, quando non si è capaci di sopportare un’iniuria, è meglio frequentare persone di indole tranquilla (cum

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placidissimo et facillimo et minime anxio morosoque vivendum est); e in 3, 35, 5 in

cui morosa, incoerente ed esigente, è l’opinio che induce nell’uomo giudizi falsi e contraddittori.

Paragrafo 3

intra clamorem considant

Anche altrove nel dialogo il filosofo ricorda le grida che spesso contraddistinguono un irato: in 1, 19, 1 il clamor si aggiunge al tumultus e alla

iactatio del corpo di chi è in preda all’impetus, mentre in 2, 36, 4 il troppo gridare di

un irato, per la sua violenza, può addirittura causare un vomito di sangue insieme ad altri terribili effetti sul corpo, come la rottura delle vene o la cecità.

quaedam … quaedam …

L’anafora rappresenta senza dubbio una delle figure retoriche più care a Seneca. COCCIA (1957, p. 44) conta un centinaio di esempi. Qui l’anafora di quaedam, ripetuto sei volte nel paragrafo, enfatizza il concetto che esistono numerose species di ira seguendo una tipizzazione che, come la differenza tra ira e iracundia, è di matrice storica (cfr. SVF 3, 395; 397; 396).

considant

Lezione dell’Ambrosiano preferita da tutti gli editori a concidant di alcuni codici minori tra cui il Laurenziano.

quaedam non minus pertinaces quam frequentes

Il motivo della persistenza e della frequenza dell’adfectus torna anche in ira 2, 6, 3 a proposito della possibilità che anche il sapiens sia soggetto alle affezioni.

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quaedam ultra querellas et aversationes non exeunt

Come ricordano già i commentatori antichi (LIPSIO 1652, p. 64 n. 39; RUHKOPF 1828, p. 14 - BOUILLET 1972, p. 13) invece di adversationes, scelti da tutti gli editori, in alcuni codici -VIANSINO (1963, p. 9) informa che sono ΑBCF2ΣP2P4W- si legge adversationes. Secondo MICHAЁLIS (1857, p. 59)

aversationes è preferibile anche sulla base dell’uso di verto nel corpus senecano: cfr.

ad esempio ira 2, 24, 1 (illius voltus aversior visus est).

millae … mali multiplicis

L’abbondanza di tipologie di ira è enfatizzata dal filosofo con l’allitterazione

mali multiplicis e con l’iperbato a proposito del numero.

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