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In questo secondo capitolo Seneca continua ad analizzare l’ira in quanto peggiore adfectus paragonabile addirittura ad una pestis: l’autore descrive qui i suoi effetti e danni devastanti sulle città (1), sui singoli individui (2), e su intere masse di persone (3). Come spesso nel suo corpus (cfr. ad esempio ep. 7, 2-5 e ep. 8, 3) condanna il volgo e la sua passione per i ludi (4); conclude infine con la distinzione tra ira e quasi ira (5).

Paragrafo 1

iam vero

L’espressione segna uno sviluppo contenutistico rispetto al capitolo precedente: l’autore continua a rivolgere dure critiche all’ira, ma, mentre nel primo capitolo la descrizione si concentra sulle conseguenze prodotte sull’aspetto degli uomini, qui analizza le ripercussioni della passione non solo sulle persone, ma anche su intere città.

effectus eius damnaque

Seguendo CASTIGLIONI (1959, p. 88) traduco la iunctura come endiadi: rispetto all’aggettivo damnosus la coordinazione dei due sostantivi conferisce maggiore enfasi e rilievo al concetto. Inoltre, in tutto il corpus senecano l’aggettivo trova solo due occorrenze: in ep. 7, 2 in merito al pericolo in cui si incorre nell’assistere agli spettacoli cari al volgo (nihil vero tam damnosum bonis moribus

quam in aliquo spectaculo desidere) e in ep. 76, 18 in merito al comportamento di un

uomo onesto (vir bonus quod honeste se facturum putaverit faciet etiam [sine

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intueri

Intueor è il più usato composto di tueor, verbo di etimologia incerta. Rispetto

agli altri verbi di ‘vedere’ indica una visione particolarmente attenta che porta alla considerazione e all’esame. Trova frequenti occorrenze in età arcaica (ad esempio cinque in Plauto e due in Terenzio) e numerose in Cicerone. Seneca ne fa un largo uso, più del semplice tueor: nel De ira si contano nove delle circa cento occorrenze del verbo nel corpus senecano (sull’etimologia, il significato e l’uso de verbo tueor e dei suoi composti cfr. GUIRAUD 1964, pp. 35-39).

pestis

Il paragone dell’ira con la pestilenza ricorre anche altrove nell’opera: in 1, 20, 1 si legge non est enim illa magnitudo, tumor est; nec corporibus copia vitiosi umoris

intentis morbus incrementum est sed pestilens abundantia. In 3, 3, 1 Seneca la

definisce invece pestifera vis. Tale iunctura ricorre inoltre anche in clem. 1, 3, 3 in contrapposizione alla salutaris potentia che è di giovamento al re. Il paragone ricorre ancora in 3, 5, 1: come contro una pestilenza nei confronti della quale non bastano

firmitas corporis et diligens valetudinis cura, così anche contro l’ira nessuno deve

sentirsi al sicuro dal momento che anche i più miti possono essere costretti da questo

adfectus a compiere crudeltà. Come sottolinea RAMONDETTI (1999, p. 374) la

ripresa del paragone in 3, 3, 1 conferma che l’ultimo libro dell’opera è un continuo o anzi un complemento del II libro: la profilassi espressa infatti nel secondo libro non basta ad aiutare l’uomo contro improvvisi attacchi d’ira. Per questo (ut nemo se

iudicet tutum ab illa, 3, 3, 1) l’autore dedica alla terapia un’ulteriore dissertazione, se

pure con molte ripetizioni e contraddizioni. Sul paragone tra ira e pestilenza vedi anche RAMONDETTI 1996a, pp. 223-225. PISI (1989, p. 71 ss.) distingue inoltre il termine pestis da pestilentia (tre occorrenze nel De ira in 2, 9, 3; 3, 5, 1 e 26, 4) indicando nel primo un campo semantico più generale: si tratta infatti di un danno o di una rovina che può essere fisica, psicologica, etc.; il secondo termine invece esprime un significato più ristretto e sottolinea la contagiosità e quindi la pericolosità del morbo. È anche vero però che in Seneca pestilentia può assumere un significato morale: in 3, 26, 4 infatti l’autore ritiene epidemico tutto il male morale.

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pluris stetit

Unica occorrenza in Seneca del verbo sto con genitivo di prezzo. Il verbo significa letteralmente e più comunemente “stare saldo”, “trovarsi”, ma ricorre qui con il significato di “costare” rispetto al più comune consto (nota BOUILLET 1972, p. 6: hoc est, pluris constitit). Sull’uso della metafora in Seneca cfr. STEYNS 1970; sulle metafore commerciali (qui utilizzata per enfatizzare i terribili effetti della passione, più spesso a indicare il possesso di beni immateriali) cfr. in particolare pp. 71-86. Cfr. anche ARMISEN - MARCHETTI 1989, in particolare il cap. 2,

Catalogue des images, pp. 69-201. Infine per l’utilizzo di un lessico più

specificamente finanziario cfr. ALLEN - BERNARD 1966, pp. 347-349.

videbis

L’uso del verbo rientra qui in una prassi tipica senecana in cui un elemento -in questo caso il verbo- regge una serie molto ampia di elementi coordinati che realizzano insieme un’enumerazione: dal verbo dipendono infatti sei complementi, i primi due collegati tra loro da ac e i successivi da et. Per un elenco di casi simili vedi COCCIA (1957, pp. 42-43).

venena

Sta per veneficia. Una delle conseguenze devastanti dell’adfectus, scrive Seneca, sono i venefici, comuni in età arcaica (cfr. Livio 8, 18 che riporta il primo processo, come egli stesso dichiara, contro il veneficio commesso da alcune matrone ai danni di molti cittadini), frequenti nella tarda età repubblicana (Cicerone ne ricorda molti; si pensi alla Pro Cluentio, scritta per difendere Aulo Cluenzio accusato di aver avvelenato il patrigno) e nella prima età augustea anche nelle famiglie imperiali (si pensi all’avvelenamento di Claudio ad opera di Agrippina che si servì di un

praegustator, uno schiavo addetto ad assaggiare i pasti prima del padrone). Il

vocabolo venenum, vox media indicante nel mondo romano tanto un farmaco quanto un veleno (cfr. ERNOUT-MEILLET 1951, p. 719) presenta dunque un rilievo importante in questa lista senecana di conseguenze dell’ira: caricato di forte valenza ideologica, rimanda ad uno dei più scellerati delitti, il veneficium appunto, che già Livio, come Seneca, con un chiaro intento moralistico condanna come tentativo di

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rottura dell’ordine sociale. Cfr. sulla tematica del veneficio nel mondo antico LAUDIZI 1986, pp. 65-112.

mutuas sordes

Letteralmente sordes è “sudiciume”, “sporcizia”, ma può riferirsi anche alla trasandatezza negli abiti, specialmente quelli usati nel periodo di lutto. Per slittamento semantico può anche indicare proprio il lutto: cfr. ad esempio in Seneca,

ben. 6, 30, 1: propone animo tuo carcerem, vincula, sordes, servitutem, bellum, egestatem, o Tacito, ann. 4, 52, 2 dove l’espressione suscipere sordes significa

“prendere il lutto”. Qui Seneca allude in particolare agli effetti delle reciproche accuse dei cittadini: l’espressione assume perciò una coloritura morale: RUHKOPF (1828, p. 7) - BOUILLET (1972, p. 6), CASTIGLIONI (1959, p. 88) e intendono il termine come criminationes.

urbium clades

RUHKOPF (1828, p. 7) - BOUILLET (1972, p. 7), BASORE (1928, p. 110), riscontrano in questa espressione un ricordo dei fatti storici che videro protagonisti Mario, Silla e i triunviri, delle leggi di proscrizione e della distruzione di Cartagine e in Numanzia. Il sostantivo clades riferito ad urbs ricorre in Seneca un’unica altra volta in nat. 6, 32, 5 in riferimento alle distruzioni di città causate da incendi: anima

in expedito est habenda: […] sive vasta vis ignum urbes agrosque pari clade complexa.

sub civili hasta

L’asta è il simbolo della proprietà statale; si piantava per indicare il luogo del pubblico incanto e come segno di autorità pubblica. Qui Seneca elenca le varie conseguenze negative dell’adfectus e tra lo sterminio di popolazioni, le distruzioni di città e altre stragi pone anche la vendita pubblica: il mercato è infatti sentito come turpe, come sottolinea anche l’utilizzo dell’aggettivo venalis che, oltre indicare ciò che si può vendere, come sostantivo rappresenta lo schiavo messo in vendita (così in Hor., sat. 1, 1, 45). All’asta infatti si vendevano spesso il bottino di guerra, una parte

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del quale era rappresentato da schiavi (vedi ad esempio Livio 4, 29, 4), o i beni dei proscritti (cfr. Cic., Phil. 2, 26, 64 a proposito dei beni di Gneo Pompeo Magno). LIPSIO (1652, p. 63), seguito da CASTIGLIONI (1959, p. 89), vede in questa espressione un accenno all’azione di Mario dopo la sua vittoria.

subiectas tectis faces

Un’espressione simile si ritrova in Cicerone, parad. 4, 28 in merito alla furia di Catilina: cum tectis sceleratas faces inferebas. Fax è inoltre termine poetico e più raro rispetto a taeda che in Seneca ricorre però solo in ambito poetico e il più delle volte ad indicare l’istituto matrimoniale (cfr. ad esempio Agam. 259: nec regna

socium ferre nec taedae sciunt) o direttamente il matrimonio (cfr. le parole di Lico

rivolte ad Anfitrione in Herc. f., 493, a proposito di Megara: sin copulari pertinax

taedis negat.

nec … sed

L’enumerazione si conclude con una coordinazione tra gli ultimi due complementi retti dal verbo videbis. La struttura è attentamente studiata in maniera tale che si realizzi una variatio dal positivo al negativo: l’espediente enfatizza l’ultima coordinata in cui Seneca, tramite la forze delle immagini, descrive la vis distruttrice della passione.

Paragrafo 2

Il paragrafo è sapientemente organizzato a livello retorico: protagonista dell’intero brano è l’anafora, figura retorica che serve a favorire una maggiore attenzione del lettore e trova larghissimo impiego nell’opera: COCCIA (1957, p. 44) conta almeno un centinaio di esempi. La prima anafora riguarda l’imperativo didascalico aspice ripetuto tre volte ad enfatizzare le ripercussione dell’adfectus sui luoghi e le persone (i bersagli dell’ira vengono ancora ricordati in 3, 5, 6). L’anafora del verbo, soprattutto al modo imperativo, è di uso frequente in Seneca: cfr. anche

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Contemnite dolorem: aut solvetur aut solvet. Contemnite mortem: quae vos aut finit aut trasfert. Contemnite fortunam: nullum illi telum quo feriret animum dedit) o

ancora ep. 10, 1 (Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem,

fuge etiam unum). Questa tecnica serve, scrive TRAINA (19843, p. 32), a provocare “uno scontro frontale tra il dinamismo degli imperativi – la tensione morale dell’uomo - e la staticità degli indicativi – la verità delle cose”. A ripetersi poi in questo paragrafo del De ira in un’anafora bimembre, resa ancora più enfatica dall’isosillabismo, è la iunctura has ira e infine alium che ricorre sei volte in altrettante coordinate, le ultime tre delle quali collegate anche dal verbo all’infinito retto da iussit. Sulle anafore nel dialogo e in generale in Seneca cfr. CUPAIUOLO (1975, p. 126 e p. 147 n. 18) e TRAINA (19843, pp. 32-33 e 98-101).

nobilissimarum … vix notabilia

Forte antitesi tra i due aggettivi, della stessa radice, posizionati anche in forma chiastica: la struttura conferisce vivacità allo stile. L’antitesi è una delle figure retoriche più ricorrenti nel corpus senecano e concorre alla forma di alcune delle sue più celebri sententiae: hoc est, quo deum antecedatis: ille extra patientiam malorum

est, vos supra patientiam (prov. 6, 6); non vitae, sed scholae discimus (ep. 106, 12).

Secondo POHLENZ (20122, p. 633) la predilezione del filosofo nei confronti di questa figura retorica nasce al fatto che egli stesso pensa per antitesi: la contradditorietà della sua natura ha come conseguenza la contradditorietà del suo pensiero scritto. Sull’antitesi in Seneca cfr. TRAINA 19843, pp. 31-32.

notabilis

L’aggettivo notabilis è un neologismo nel significato di “ciò che si può conoscere”. Come tutti gli aggettivi in –bilis, assume secondo DE MEO un valore strumentale “dal quale poi, in situazioni particolari, sarebbero affiorate sfumature di significato, destinate ad evolversi, precisarsi e affermarsi con maggiore o minore fortuna” (DE MEO 1972, in particolare pp. 23-24).

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solitudines … sine habitatore desertas

Pleonasmo: se i luoghi sono deserti sono ovviamente privi di abitanti. Sovrabbondanza frequente in Seneca nelle descrizioni: cfr. nat. 6, 7, 5 in merito alla rappresentazione degli abissi marini definiti sine possessore deserta.

has ira exhausit

Ripresa della precedente espressione sempre trimembre has ira deiecit. Inoltre il verbo exhaurio rientra tra quegli esempi di termini in accezioni non comuni che CUPAIUOLO (1975, pp. 139-140) elenca: il verbo rappresenta una forma semplificata dell’espressione exhauriendo desertas effecit.

mali exempla fati

Iperbato. RUHKOPF (1828 p. 8) - BOUILLET (1972, p. 7) inseriscono la

iunctura tra virgolette: vede infatti qui la ripresa di una parte di un verso giambico,

peraltro non segnalato da MAZZOLI 1970.

alium

CASTIGLIONI (1959, p. 90) tenta di ricostruire l’identità dei personaggi a cui Seneca farebbe riferimento: si tratterebbe di Scipione Emiliano, Clito, Sempronio Asellione e Cesare. Con la prima espressione (in cubiculi suo confodit) è infatti probabile che Seneca ricordi la morte di Scipione che fu trovato cadavere nel suo letto, forse ucciso da uno dei sostenitori dei Gracchi. L’elenco di questi alii richiama il topos diatribico, di origine greca, delle scelta dei βίοι, tema caro ad esempio ad Orazio che se ne serve in apertura del primo libro sia delle satire che delle odi per condannare nel primo caso l’incapacità dell’uomo di sentirsi soddisfatto della propria attività (cfr. MINARINI 1977, p. 43 e FRAENKEL 1993, pp. 127-136), nel secondo per introdurre tra le diverse attività umane quella del poeta lirico. In Seneca alla condanna oraziana per i mestieri si aggiunge un più duro e costante biasimo dei vizi e delle passioni: cfr. brev. 2, 1-4 in cui il filosofo accusa con la stessa modalità coloro che eccedono nel bere, gli avidi e in generale tutti coloro che cedono ai piaceri. In

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questo passo del De ira invece l’esemplificazione risulta rovesciata dal momento che si tratta di βίοι negativi. Cfr. sull’argomento BORGO 2006.

alium … percussit

È probabile (RUHKOPF 1828, p. 8 - BOUILLET 1972, p. 10 ritengono come certo) che Seneca faccia qui riferimento all’uccisione di Clito ad opera di Alessandro Magno sia perché effettivamente Clito era stato ucciso durante un banchetto in onore di Dioniso a Samarcanda (per la descrizione di banchetti nell’opera cfr. 2, 33, 6-3 e 3, 14-15; 17, 1), sia perché Seneca, secondo una prassi tipica di esemplificazione di fatti e personaggi storici, si serve spesso di Alessandro come esempio massimo di uomo soggetto ad attacchi d’ira (l’uccisione di Clito viene descritta anche in ep. 83, 19): questo spiega anche perché il filosofo lo ricordi ben venticinque volte nel suo

corpus (per un’analisi puntuale delle occorrenze del nome di Alessandro nell’opera

senecana cfr. LASSANDRO 1984). Da ricordare inoltre che a partire dalla fine del I secolo a.C. si era sviluppata a Roma l’imitatio Alexandri nella casa giulio-claudia e il coraggio e il valore del sovrano erano diventati modelli ai quali i principi romani intendevano ispirarsi. Ma già in età repubblicana, e soprattutto per i duces orientali, Alessandro era diventato modello di trionfi, capacità belliche e sete di conquista. Il Macedone rappresenta quindi un exemplum facile da comprendere e utile nel processo educativo senecano, per questo spesso citato nominalmente nell’opera o altre volte solo ricordato tramite riferimenti più o meno espliciti come forse in questo caso. Per uno studio più approfondito sulla figura di Alessandro Magno in Seneca cfr. TREVES 1953; COCCIA 1984; GRILLI 1984; MAYER 1991; CRESCI MARRONE 1998; DOGNINI 1998. Per l’uso della storia in Seneca cfr. PRÈCHAC 1935; CASTAGNA 1991; ANDRÉ 1995; ARMISEN-MARCHETTI, 1995.

intra sacra mensae iura

Intra, che sta per inter, compare nell’Ambrosianus C 85 inf. e nel Florentinus pl.

76, 35. L’espressione sostituisce una più semplice inter epulas che ricorre in Seneca in ira 3, 17, 1 e in ep. 83, 19. Per quanto riguarda iura invece nella sua edizione KOCH (1879, p. 38) lo lascia nel testo, ma in apparato ne propone l’espunzione sulla

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base di Tac., Ann. 1, 42, 2 (sacra legationis); 2, 65 (sacra regni); 13, 16 (inter sacra

mensae) e di Val. Max. 5, 3, 3 (a sacris perfidae mensae). La necessità di lasciare iura è spiegata da CASTIGLIONI (1959, p. 91) sulla base della clausola cretico-

trocaica in sanguinem iussit che richiederebbe, anche per motivi stilistico-ritmici, quella di iura percussit. In quattro (a, S, P3 e P5) dei codici che riportano il dialogo in luogo di iura si legge ira: anche MURETUS (1605, p. 201) adotta inter facta

mensa ira. Ma la variante ira non è inverosimile considerando da una parte che la iunctura ius mensae trova un’unica altra occorrenza in pseud. Quint., decl. minor.

301, 11 (si qui me detulisset reum, defenderes, si quam iniuriam timerem, rogassim

te per ius mensae communis), dall’altra che nella precedente proposizione (alium ira in cubili suo confodit) il soggetto – l’ira appunto – viene specificato. È anche vero

però che nelle successive quattro proposizioni il soggetto è sottinteso: è probabile che Seneca abbia potuto scegliere di inserirlo solo una volta, all’inizio di questa lunga enumerazione.

alium … lancinavit

CASTIGLIONI (1959, p. 90), sulla scia dei commentatori antichi, ritiene che dietro l’espressione alium inter leges celebrisque spectaculum fori lancinavit vi sia il ricordo dell’assassinio di Sempronio Asellione, ucciso nel foro dagli usurai. Tra i commentatori RUHKOPF (1828, p. 8) - BOUILLET (1972, p. 7) credono che alium faccia proprio riferimento ad Asellione e a sostegno menzionano Valerio Massimo (9, 7). Risulta però difficile l’identificazione di questo στρατηγός: non può trattarsi infatti dell’omonimo storico, tribuno della plebe nel 134 a.C (cfr. Gell. 2, 13, 3). I dati offerti dallo storico non combaciano pienamente con quelli senecani: il filosofo infatti parla di un omicidio avvenuto dinanzi agli occhi di tutti e nel foro (così anche in perioch. 74: A. Sempronius Asellio … in foro occisus est). In Valerio Massimo si legge invece: Creditorum quoque consternatio aduersus Semproni Asellionis

praetoris urbani caput intolerabili modo exarsit. quem, quia causam debitorum susceperat, concitati a L. Cassio tribuno pl. pro aede Concordiae sacrificium facientem ab ipsis altaribus fugere extra forum coactum inque tabernula latitantem praetextatum discerpserunt (9, 7). Appiano offre un racconto molto dettagliato che

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che ha punti di contatto con quello di Valerio Massimo: in un contenzioso tra creditori e debitori, il pretore prese una decisione dannosa per i primi che decisero di vendicarsi uccidendolo nel foro, precisamente dinanzi al tempio dei Dioscuri, mentre cercava di fuggire in una taverna (bell. civ. 1, 54, 232-238). BASORE (1928, p. 110) invece pensa che vi possa essere in questa espressione un’eco dell’assassinio di Tiberio Gracco, ucciso a bastonate presso il Campidoglio (anche BOUILLET 1972, pp. 7-8 considera verosimili entrambe le interpretazioni). Sicuramente la sua uccisione, come racconta Velleio Patercolo (2, 2), avvenne dinanzi alla folla (questo spiegherebbe la iunctura senecana celebrisque spectaculum fori) durante l’assemblea popolare: la folla, spinta dal pontefice Scipione Nasica, come riporta anche Cic. Phil. 8, 13, si scagliò contro la fazione del tribuno della plebe uccidendolo e gettando il suo corpo nel Tevere.

intra leges

Intra è più che ad o coram e indica forse, non senza una punta di ironia, gli

effetti deleteri della passione nel corso della stessa amministrazione della giustizia.

spectaculum fori

La perifrasi è costruita in maniera brachilogica in luogo di forum, in quo

frequens spectaculorum multitudo aderat (CUPAIUOLO 1959, p. 133).

lancinavit

Il verbo significa letteralmente “fare a pezzi”, “dilaniare”. In Seneca conta cinque occorrenze di cui tre nel De ira (1, 2, 2; 3, 19, 5 e 40, 4). In Catullo in senso traslato assume il significato di “sciupare”, “dissipare”: paterna prima lancinata sunt

bona (29, 18). Così in Seneca, ep. 32, 2: diducimus illam (vitam) in particulas ac lancinamus. Da notare infine che il corrispettivo verbo usato da Appiano nella sua

descrizione dell’omicidio di Sempronio Asellione è σφάζω che, oltre ad esprimere un’immagine particolarmente cruenta, viene spesso usato in contesti sacrificali (cfr. ad esempio Xen., Cyr. 8, 3, 24) e Seneca, così come Valerio Massimo e Appiano, ricorda che l’uccisione del pretore avvenne proprio nel luogo prescelto per i sacrifici,

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dinanzi al tempio dei Dioscuri, situato nel foro e nelle vicinanze di quello delle Vestali.

parricidio

Termine giuridico specifico a indicare l’assassinio del padre o di un parente. In ambito politico passa a indicare la nozione di alto tradimento (cfr. Cic., off. 3, 21, 83:

Potest enim, di immortales, cuiquam esse utile foedissimum et taeterrimum parricidium patriae, quamvis is, qui se eo obstrinxerit, ab oppressis civibus parens nominetur?) e perfino l’uccisione di un capo di stato, come in Svetonio (Caes. 88), in

riferimento a Cesare.

dare sanguinem

Espressione rara che ricorre altre due volte in Seneca e una in Plinio. Nel Tieste, vv. 339-341 (Quis vos exagitat furor, / alternis dare sanguinem / et sceptrum scelere

aggredi?) è impiegata nel discorso del coro sulla violenza inutile che sta straziando

la dinastia argiva. In nat. 3, 15, 5 invece, in un paragone tra terra e corpo, la iunctura non caratterizza una scena di violenza, ma indica il deflusso sanguigno nel caso di una lacerazione della vena. Infine in Plinio (nat. 24, 70), in un contesto medico, significa “sputare sangue”, disturbo contro il quale lo scienziato propone l’assunzione di sphragis, terra di Lemno sigillata.

alium servili manu regalem aperire iugulum

Se Seneca qui si stia riferendo ad un “fatto di cronaca” non è chiaro: certo è che l’uccisione di un re ad opera di un servo è azione più che spregevole e conferma la gravità dell’ira e delle sue conseguenze. L’immagine della gola aperta ricorre anche in Cic., ep. ad Att. 1, 16, 4 e in pseud. Quint., decl. maior. 16, 9, ma Seneca è il primo ad utilizzare la perifrasi verbale aperire iugulum. Per quanto riguarda il sostantivo manu, CASTIGLIONI (1959, p. 91) crede che si tratti di una forma di dativo in –u pittosto che di un ablativo strumentale.

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diffindere

Lezione controversa. REYNOLDS (1977, p. 41) la adotta insieme con HAASE (1902, p. 36), BOURGERY (1951, p. 4) e ROSENBACH (1999, p.100) anche perché è la più presente nella tradizione manoscritta. LIPSIO (1652, p. 63) preferiva

dividere, ma già in apparato ricorda che alcuni adottavano diffindere e altri ancora distendere. Quest’ultima lezione viene adottata da BASORE (1928, p.110) e

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