Il capitolo riprende la definizione della passione, fornita nel precedente capitolo, in base alla quale l'ira scaturisce negli uomini in risposta ad un torto subìto, o anche solo presunto. Ora il filosofo ripropone la questione, nel primo e nel secondo paragrafo, in un confronto con un presunto interlocutore portavoce di idee e posizioni diverse. A Seneca vengono mosse due obiezioni -rispettivamente nel primo (inquit) e nel secondo paragrafo (ut scias)- che riguardano la natura stessa della passione: l’argomento d’indagine è infatti quando si scateni nell’uomo l’adfectus. La posizione senecana, secondo la quale l’ira scaturisce nell’uomo in risposta ad un torto subìto, viene difesa ancora nel terzo paragrafo in cui il filosofo cita per la prima volta Aristotele di cui riporta una finitio della passione non molto lontana dalla sua di matrice stoica. Seneca ripropone tuttavia la propria definizione e, a partire dal paragrafo quarto, ricorda che, dal momento che gli adfectus sono propri solo di un essere dotato di ratio, l’ira è caratteristica solo degli uomini e assente quindi nelle fiere. Nel capitolo il Cordovese opera una scelta attenta di termini, alcuni rari o le cui occorrenze in Seneca si riscontrano solo in questo dialogo (vedi ad esempio simultas,
dissensio o procursus), che lasciano intendere l’importanza data dal filosofo a una
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Paragrafo 1
irascimur … nasci
Seneca si riferisce qui alla definizione data nel precedente paragrafo (quidam …
voluit) e attribuita dagli studiosi a Posidonio o a Sozione (vedi comm. a 1, 2, 3b)
secondo la quale l’ira è un impulso che nasce non solo in risposta ad un torto commesso, ma anche solo pensato. Ciò che rende colpevoli è infatti non tanto l’atto materiale, ma l’animo che si è macchiato di un pensiero vizioso (cfr. const. 7, 4:
potest aliquis nocens fieri, quamvis non nocuerit). Il tema della necessità di valutare
l’intenzione al di là del fatto concreto aveva investito fin dal II-I sec. a. C. anche l’oratoria giudiziaria configurandosi come uno scontro tra oratori di simpatie grecizzanti, più sensibili a dar valore allo spirito della legge, e antiellenizzanti, più orientati alla difesa della tradizione e della lettera della legge (cfr. CALBOLI 1982, p. 71 e n. 1). Il motivo, che Seneca tratta più volte, in una prospettiva naturalmente morale, torna in questo dialogo anche a 1, 19, 6 a proposito della possibilità che vengano comminate pene non commisurate alla gravità della colpa, ma all’intenzione e alla capacità di pentimento di chi l’ha commessa (cfr. anche 2, 28 e 30; 3, 11, 3 e 12, 1; in ben. 5, 14, 2 Seneca sostiene che assassino è anche chi non si è ancora macchiato le mani di sangue, ma si è armato per farlo). Sull’argomento cfr. RIST (1969, p. 220) e POHLENZ (20122, pp. 260 e 659).
inquit
Come già precedentemente ricordato, il De ira, come anche gli altri scritti senecani, è un dialogo anomalo (cfr. sulla questione, oltre il già citato CUPAIUOLO 1975, p. 53 ss., MAZZOLI 2004, pp. 267-268) privo delle caratteristiche fondanti del genere. L’utilizzo di questo verbo è però frequente nel genere diatribico che, con il suo susseguirsi di esempi, interrogazioni, obiezioni e paragoni, offre a Seneca efficaci strumenti argomentativi (sulla questione vedi CUPAIUOLO 1975, pp. 53- 60). Il verbo inoltre introduce la prima delle due obiezioni (la seconda ricorre al paragrafo successivo) mosse a Seneca da un interlocutore immaginario al quale il filosofo risponde poco oltre con una parziale ammissione (verum est…) intesa tuttavia a confutarne subito dopo l’argomentazione.
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laeserunt
Il verbo è in quadruplice poliptoto nel paragrafo (laeserunt … laesuri … laesuris
… laedunt): i due indicativi, espressione del dato effettuale, incorniciano
l’intenzionalità espressa dalla perifrastica e dal più conciso participio futuro, un modo verbale, quest’ultimo, particolarmente caro a Seneca, che lo usa più spesso del latino classico senza la voce di sum forzandone “i confini sintattici” (TRAINA 19843, p. 28) e sfruttandone al massimo “l’ambiguità e la conseguente tensione tra oggettività e soggettività, tra predestinazione e un’intenzionaltà spesso immediatamente denunciata come fittizia” (BORGO 2000, p. 86). Laedo ricorre in connessione a iniuria anche in const. 5, 1, nella distinzione che il filosofo traccia tra
iniuria e contumelia: la prima rappresenta per Seneca un’offesa più grave rispetto
alla seconda dalla quale non laeduntur homines sed offenduntur. Il nesso ricorre inoltre anche in Cic., Tusc. 4, 21 proprio nella descrizione dell’ira: quae autem
libidini subiecta sunt, ea sic definiuntur, ut ira sit libido poeniendi eius qui videatur laesissime iniuria […].
ut scias
Anche questa iunctura è tipica del genere dialogico e appartiene allo stile familiare; si ripete inoltre, insieme a inquit, ad inizio del successivo paragrafo. Delle 32 occorrenze della perifrasi nel corpus senecano, tuttavia, essa ricorre solo 9 volte nei dialogi (sei volte nel De ira, una nel De otio e due nella Consolatio ad Marciam). Compare infatti, per lo più con accentuato valore esortativo-didascalico, 11 volte nelle Epistole, ma ciò non stupisce dal momento che l’opera presenta un carattere essenzialmente didattico e un tono discorsivo; 6 nel De beneficiis (con la stessa funzione in 4, 11, 3 e 18, 1); 5 nelle Naturales Quaestiones in cui l’autore ha bisogno di assicurarsi, tramite l’impiego di formule di questo tipo, la costante attenzione di Lucilio di fronte un argomento che, per stessa ammissione di Seneca, è ostico e complesso.
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et … facit
Ancora il poliptoto di un verbo (facturus … facit) per sottolineare, nuovamente, che non c’è differenza tra il pensare ad un torto e il compierlo dal momento che in entrambi i casi si cede alla passione e si commette un’iniuria, non una semplice offesa, ma, come traduce e spiega RAMONDETTI (1999, pp. 229-230 n. 1), un torto che produce come conseguenza il desiderio di vendicarsi. BORTONE-POLI (1977, p. 291) inoltre, a proposito di questa offesa non reale, capace tuttavia di scatenare la passione, sottolinea come per il filosofo i limiti dell’etica non coincidano con quelli del diritto dal momento che non si può prendere in considerazione per una eventuale pena l’intenzionalità di una azione.
Paragrafo 2
ut scias
La iunctura apre la seconda obiezione mossa dal fittizio interlocutore senecano.
poenae cupiditatem
L’intero paragrafo è dedicato al piacere che un irato prova nel pensare -e anche nell’infliggere materialmente- un castigo a chi ha causato lo scatenarsi dell’affezione. Il termine poena ricorre nel paragrafo quattro volte in poliptoto mentre cupiditas trova nel paragrafo due occorrenze; ad enfatizzare il discorso, Seneca ricorre inoltre ai verbi concupisco, ripetuto sempre due volte, e spero: ne emerge un’idea di vanità e inconsistenza di questo desiderio, prodotto da una passione altrettanto falsa e ingannevole.
infirmissimi … sperant
Che l’ira non sia desiderio di contraccambiare un torto ricevuto, come sostiene invece la scuola aristotelica, è dimostrato dal fatto che essa è provata anche da chi, consapevole di non poter punire chi è molto più potente e forte di lui, non può concepirne neanche il desiderio: essa quindi colpisce ogni uomo, potente e debole, e
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non trova la sua ragion d’essere nella sola vendetta che per molti, per debolezza ad esempio, sarebbe impossibile da mettere in atto, ma rappresenta un impulso immediato che nasce nel momento in cui si subisce una iniuria.
concupiscunt
La scelta del verbo concupisco, rispetto al più comune cupio, non è casuale: come evidenziato da ERNOUT-MEILLET (1951 p. 283), il verbo “est remarquable par le préfixe et par le suffixe qui concourent à en marquer l’aspect ˂determiné˃”. La differenza tra il verbo da cui deriva, cupio, e il derivato in -sco, qui usato da Seneca con precisa volontà enfatica, riguarda il carattere dinamico del secondo: come sostiene infatti HAVERLING (2000, p. 4), il verbo cupio esprime il semplice atto, più o meno recente e continuato nel tempo, di provare un desiderio; concupisco invece, come tutti i verbi in sco-, è incoativo e, dotato quindi di maggiore carattere dinamico, indica il momento in cui si sviluppa nell’uomo “a strong desire for”. Inoltre il rapporto tra ira e desiderio è ricordato con evidenza da Cic., Tusc. 3, 19: si (sapiens) irascitur, etiam concupiscit; proprium est enim irati concupere. Sull’uso dei verbi in -sco vedi anche BERRETTONI (1971, pp. 89-169).
primum diximus
Fin dal primo paragrafo del primo capitolo Seneca ricorda infatti il sentimento di vendetta che scaturisce subito dopo essere stati offesi e dopo che si è scatenata l’ira nell’uomo.
cupiditatem esse … facultatem
Antitesi in omoteleuto. L’assunto riguarda la contrappozione tra desiderio e capacità: desiderare infatti di comportarsi in un determinato modo, in questo caso di infliggere una punizione, e di rispondere al torto subìto, non significa necessariamente compiere l’atto. In un contesto diverso, il contrasto tra cupiditas e
facultas ricorre anche in brev. 20, 4, tra l’insano desiderio del nonagenario Sesto
Turranio, messo a riposo dalla sua carica di prefetto all’annona, di continuare la sua vita di occupatus e l’incapacità fisica di metterla in atto. Si tratta inoltre di un
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concetto tipicamente stoico che ricorre anche in Cic., nel già citato passo in Tusc. 4, 21 (cfr. anche SVF 3, 396; 397 e 416).
concupiscunt autem homines et quae non possunt
Sentenza che spiega perché anche gli uomini deboli, consapevoli di non poter rispondere al torto subìto, provino ira. CASTIGLIONI (1959, p. 101) evidenzia il valore parattatico di autem, tipico nel sillogismo per l’assunzione del termine minore.
et quae
L’utilizzo di et -definito da CASTIGLIONI (1959, p. 101) “cumulativo”- è frequente in Seneca. Ricorre con il significato di “anche” soprattutto insieme ai pronomi e in particolar modo ad ipse: il fenomento dimostra un impoverimento del pronome che in verità non necessiterebbe di rafforzativo.
deinde … possit
L’avverbio deinde con sfumatura conclusiva chiarisce quindi lo scarto esistente tra volontà e facoltà: è vero che la passione è desiderio di ricambiare un torto dal momento che anche i deboli, impossibilitati a rispondere, provano l’adfectus, ma è anche vero che il loro è solo un desiderio, una speranza -o meglio un’utopia- di punire i potentes.
ad nocendum <omnes> potentes sumus
Omnes è integrazione di VIANSINO (1963, p. 7), accolta da REYNOLDS
(1977, p. 43) che la inserisce tra le parentesi uncinate. La sentenza chiude il paragrafo sulla possibilità di ogni uomo, dal più potente al più debole, di fare del male. La potenza dell’affermazione sembra però mancare dell’oggetto a CASTIGLIONI (1959, p. 101) che, anche sulla base di ep. 198, 8 (omnes ad omnia
ista nati sumus), propone di integrare un secondo omnes tra potentes e sumus per
accentuare l’universalità dell’assunto. La frase richiama inoltre un’altra sentenza senecana: nulli non ad nocendum satis virium est (ep. 105, 4).
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Paragrafo 3
Aristotelis
Si tratta della prima delle cinque citazioni di Aristotele presenti nel dialogo. Come si è già precedentemente ricordato, soprattutto il primo libro del De ira sembra essere nato in risposta alla teoria aristotelica sulle passioni. Lo Stagirita, e in generale la scuola peripatetica in netta opposizione a quella stoica, è seguace della teoria della
metropatheia secondo la quale le passioni non devono essere estirpate dall’animo
umano, ma, se frenate e moderate, possono risultare un pungolo per gli uomini e soprattutto essere utili in determinati contesti, in particolar modo quelli bellici.
finitio non multum a nostra abest
Rispetto agli altri casi in cui Seneca cita Aristotele per confutarne teorie e assunti, in questo caso sembra che le posizioni siano riconosciute non del tutto opposte. La finitio aristotelica dell’ira che subito dopo Seneca ricorda è infatti molto vicina a quella senecana, per stessa ammissione del filosofo stoico.
ait enim … reponendi
Dello Stagirita viene qui ricordata la definizione della passione che, sicuramente presente nella non pervenuta monografia sull’ira (sulla questione cfr. comm. a 1, 1, 1
s. v. adfectus), ricorre in de anim. 1 1, 403 a 31 in cui si legge: διαφερόντως δ’ἂν
ὁρίσαιντο ὁ φυσικὸς τε καὶ ὁ διαλεκτικὸς ἕκαστον αὐτῶν, οἷον ὀργὴ τί ἐστιν· ὁ μὲν γὰρ ὄρεξιν ἀντιλυπήσεως ἤ τι τοιοῦτον, ὁ δὲ ζέσιν τοῦ περὶ καρδίαν αἵματος καὶ θερμοῦ. Il passo aristotelico fornisce in effetti una doppia definizione: a livello fisiologico l’ira è ζέσις, ebollizione nell’area del cuore in cui, secondo Aristotele, risiedono l’intelligenza, le sensazioni e le emozioni. Questo tipo di definizione sembra risalire addirittura ad Omero: in eth. Nic. 3 8, 1116 b 29 Aristotele ricorda del poeta greco l’espressione ἔζεσεν αἷμα che però non appare nei poemi, ma solo in ps. Teocrito 20, 15. Si potrebbe trattare, ricorda FILLION-LAHILLE (1970a, p. 57), di un riferimento all’ ἔμφυτος, l’innato calore che assicura alcuni processi vitali e la cui origine risiede proprio nel cuore. Quella che può invece dirsi definizione morale, la
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seconda menzionata nel passo del de anima, intende l’ira come passione che si scatena nel cuore nel momento in cui si subisce un torto e quindi ci si sente offesi. Una definizione quindi molto simile a quella senecana: la cupiditas doloris
reponendi è infatti l’equivalente del ὄρεξις ἀντιλυπήσεως. Tuttavia, mentre per
Seneca l’ira, in quanto passione, deve essere vinta dall’uomo che ambisce al perfezionamento interiore, per lo Stagirita ad essa si può invece addirittura accompagnare un sentimento di piacere (cfr. eth. Eud. 2 2, 1220 b 12). Ma la definizione a cui qui Seneca allude ricorre anche in rhet. 2 2, 1378 a 31: ἔστω δὴ ὁργὴ ὄρεξις μετὰ λύπης τιμωρίας φαινομένης διὰ φαινομένην ὀλιγωρίαν εἰς αὐτὸν ἤ τι τῶν αὐτοῦ, τοῦ ὀλιγωρεῖν μὴ προσήκοντος. Le parole senecane inoltre ricorrono in Lattanzio (ira 17) seppur con qualche differenza che viene riportata in nota anche da LIPSIO (1963, p. 64): la finitio diventa definitio e al gerundivo reponendi Lattanzio preferisce rependendi. La lezione reponendi è però quella comunemente accolta, come già annotato da BOUILLET (1972, p. 10). Sull’argomento vedi anche il commento a effervescit (1, 1, 5).
quid … est
Il filosofo rinuncia improvvisamente a spiegare le differenze tra la definizione sua e quella aristotelica: ciò si può spiegare alla luce del fatto che per sua stessa ammissione le posizioni sono simili oppure, come crede CASTIGLIONI (1959, p. 102), dal momento che una delle modalità con le quali Seneca affronta i problemi teoretici è quella di sorvolare sulle differenze. Con l’aggettivo possessivo nostram, ripetuto due volte nel paragrafo, Seneca mostra la sua totale adesione alla definizione di matrice stoica. D’altra parte, come ricorda CUPAIUOLO (1975, p. 91), la formazione stoica si deduce non solo dall’uso di un lessico specifico, come in questo caso, ma anche e soprattutto dallo scopo principale dell’opera: alleviare le sofferenze generate dalle passioni ed essere d’aiuto agli uomini.
contra … causa
Come già notato in precedenza, Seneca ricorre non di rado all’immagine delle belve. In questo caso il loro esempio ricorre nelle parole di chi intende confutare tanto la definitio aristotelica dell’ira quanto quella stoica: non sempre -si sostiene- si
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prova ira in risposta ad un torto subìto. Lo proverebbero appunto gli animali che, anche senza motivo o senza esserselo prefissati, diventano aggressivi e arrecano dolore.
nec iniuria… nec poenae dolorisve alieni causa
COCCIA (1957, p. 70) vede in questa affermazione una variatio. In effetti i due ablativi, iniuria e causa, indicando l’uno il motivo scatenante dell’ira, l’altro lo scopo del comportamento aggressivo che ne scaturisce, sebbene negati, presupporrebbero una capacità raziocinante e un’intenzionalità negli animali che lo stoico Seneca non può accettare e che infatti confuta subito dopo. Sulle variationes in Seneca vedi TRAINA (19843, p. 195 ss.).
si … petunt
L’anafora del pronome e la costruzione simmetrica delle due proposizioni, a conclusione dell’argomentazione addotta da chi intende confutare la teoria aristotelica e quella senecana sull’ira, ne sottolineano per converso la falsità: subito dopo Seneca dimostrerà come essa sia inficiata da un errore all’origine.
Paragrafo 4
omnia
VAHLEN (1884, p. VII) ritiene opportuna l’aggiunta di animalia dopo omnia che non può né essere eliminato né accettato così come è: come sottolinea anche CASTIGLIONI (1959, pp. 102-103) il solo neutro è troppo generale, pur essendo qualificato da feras che lo precede, e rende l’integrazione necessaria (viene accolta nel testo da VIANSINO 1963, p. 9). Qui la contrapposizione è giocata tra le bestie e gli uomini e omnia si riferisce agli esseri animati tutti che, fatta eccezione per gli uomini, sono privi di ratio.
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nam … est
Seneca spiega ora, nonostante in precedenza abbia ricordato gli animali come bestie soggette a passioni sfrenate, che l’ira -e in generale ogni passio- è condanna solo degli esseri dotati di ratio. La natura dell’ira come carattere contrario alla ragione era già stata sostenuta da Cicerone in Tusc. 4, 10 in cui, riprendendo una distinzione di Pitagora poi accolta da Platone, ricorda come l’animo si componga di due sezioni: una, razionale, da cui dipendono sentimenti e stati d’animo positivi, l’altra, irrazionale, a cui fanno capo le passioni. L’affezione infatti rappresenta ciò che inibisce la ragione e determina comportamenti sfrenati e senza senso: essendo gli animali privi di ragione, così come tutti gli esseri animati fatta eccezione per l’uomo, essi non possono provare né ira né alcuna altra passione, ma cedono ai loro più bassi istinti senza che ve ne sia un concreto motivo. Vedi SVF 3, 459 e 462.
impetus
Rispetto all’ira, la rabbia, la ferocia e l’assalto delle fiere rappresentano istinti differenti dagli adfectus, come l’ira o la lussuria, che non sono impetus, ma nascono
in impetu (cfr. 1, 1, 1). Vedi MALCHOW 1986, p. 28.
rabiem
Il termine, in genere utilizzato in riferimento alla furia degli uomini e dei venti, qui ricorre a proposito della violenza animale. Essa contraddistingue però anche i gladiatori che, proprio per la loro rabbiosa aggressività, si collocano addirittura al di sotto del livello delle bestie che sono in grado, a differenza degli uomini, di calmarsi con maggiore facilità (ira 2, 8, 3). Come ricorda RAMONDETTI (1999, p. 296 n. 7), il motivo dell’inferiorità dell’uomo rispetto alle belve è frequente negli autori latini soprattutto in collegamento all’orrore delle guerre civili. La rabbia è, insieme con l’ira (a cui è collegata già in 1, 1, 1), la crudeltà e la pazzia, da rifuggire perché l’uomo possa ottenere un grande premio, la tranquillità immota di un animo felice (ira 2, 12, 6). Al contrario, se effrenata et attonita, mostra subito la pericolosità di un
adfectus che in nessun caso può apportare, come ha teorizzato quidam de inlustribus philosophis (2, 3, 4), cioè Aristotele, una qualche utilità.
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incursum
Termine anch’esso impiegato in contesti diversi, ricorre in Seneca in riferimento a fenomeni naturali (fluctus non desinunt, undecumque moti sunt, verberare, nec ideo
aut loco eam movent aut per tot aetates crebro incursu suo consumunt in vit. 27, 3; incursum procellae in ben. 6, 15, 6; incursum maris in nat. 3, 29, 4 e ep. 76, 13; incursu solis in nat. 7, 12, 6), a malattie (morborum incursus in brev. 10, 4). Qui si
riferisce agli attacchi improvvisi delle belve: cfr. prov. 2, 8 (leonis incursum) e ep. 103, 2 (a proposito del primus incursus delle fiere). Nel De ira il termine ricorre solo un’altra volta, in 1, 11, 3, a proposito della capacità militare dei Germani.
luxuriam
Derivato da luxus, il termine ne conserva il senso di “spinta verso un eccesso”. Con questo significato si applica bene al processo di sviluppo della vegetazione della quale indica una positiva sovrabbondanza (cfr. GOWERS 1996, p. 14); mentre in rapporto al comportamento animale può presentare una sfumatura negativa, come di uno scarto rispetto al passo o alla condotta attesi dall’uomo (cfr., ad es., Verg. Aen. 11, 497 ed ERNOUT-MEILLET, 1951 p. 666). Per Seneca costituisce una grave bassezza morale, seconda solo alla peggiore delle affezioni, l’ira: peior est (ira)
quam luxuria (ira 3, 5, 5; cfr. anche 1, 3, 4 e 21, 1). Tuttavia è proprio la luxuria ad
alimentarla indicandole la strada dell’eccesso e dell’arbitrio (nulla ... res magis
iracundiam alit quam luxuria intemperans et inpatiens: 2, 25, 4), mentre l’animo
umano necessita di essere trattato con rigore in maniera tale che non senta l’ictus, cioè il primus motus dell’adfectus. Radice dei mali, luxuria va considerata dunque un vizio di particolare gravità per l’individuo e per l’intera società civile –come quella di Roma- se è vero che quei popoli che non hanno potuto godere degli agi del benessere non ne sono affetti: quaedam gentes beneficio egestatis non novere
luxuriam (ira 3, 2, 1). Per quest’ultimo concetto si veda anche Seneca padre, contr.
2, 1, 11 e 12. Cfr. per il termine luxuria BORGO 1998, pp. 119-120; per l’influenza esercitata sul filosofo da Seneca padre cfr. ROLLAND 1906; CUPAIUOLO 1975, p. 156 n. 69 e FILLION-LAHILLE 1984, p. 250; per l’uso del termine all’interno dell’indagine storica a Roma cfr. il comm. a 1, 21, 1.
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et in quasdam … sunt
Secondo MICHAËLIS (1857, p. 58) la frase è una interpolazione: si evincerebbe dal fatto che non sembra un buon latino e perché diluisce il senso di quanto affermato in precedenza di cui i versi ovidiani -che seguono subito dopo al paragrafo cinque- sono una sorta di esemplificazione.
voluptates
La lezione è comunemente accolta dagli editori rispetto a voluntates presente, come annota VIANSINO (1963, p. 8), in un numero abbastanza ampio di codici (AF2P2W). Concetto chiave nella speculazione stoica (SVF 3, 37; 95-96), si presenta in forte contrasto con la virtus (non indignor, quod post voluptatem ponitur virtus,
sed quod omnino cum voluptate, contemptrix eius et hostis, ben. 4, 2, 4): si spiega
così la condanna senecana della dottrina di Epicuro che aveva teorizzato un legame inscindibile tra piacere e virtù (ben. 4, 2, 1; 4). Il termine ricorre più di trecento volte nel corpus senecano, la maggior parte dei casi in relazione alla malvagità degli