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Il capitolo è dedicato a scardinare l’assunto aristotelico che l’ira sia un adfectus naturale. Lo proverebbe l’uomo stesso che proprio per natura tende al bene e al reciproco aiuto: questa teoria, come ammette Cicerone in off. 1, 22, è prettamente stoica (ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari,

homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societate) e si pone alla base della

stessa convivenza sociale. Seneca la ribadisce confrontando la società umana, nella quale ogni uomo svolge un ruolo di reciproca utilità, ai mattoni di una struttura architettonica a volta: in entrambi i casi la mancanza anche di un solo elemento provoca la rovina del tutto (cfr. ep. 95, 53). L’ira invece è causa di rovina, dolore e lotta tra gli uomini: quindi non può essere una inclinazione naturale. Si è già visto che per il Cordovese può essere considerata naturale solo una variante della passione, l’iracundia, primo impetus dell’adfectus (cfr. commento a iracundia 4, 1). Interessante inoltre in questo capitolo la natura sillogistica dell’esposizione senecana: dalla premessa maggiore, l’uomo tende al bene, a quella minore, l’adfectus trova

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compimento nella pena, fino alla conclusione della loro inconciliabilità perché l’ira, e le passioni in genere, non sono appunto secondo natura.

Paragrafo 1

quid … essent

Il periodo, costituito nella massima parte da una lunga serie di interrogative indirette, si pone come una forma di raccordo retoricamente studiato a concludere, riassumendola, la sezione iniziale dell’opera e a ripercorrerne i contenuti principali, e contemporaneamente ad introdurre il nuovo segmento dedicato alla natura dell’adfectus e all’opportunità di un suo uso.

quaesitum est … quaeramus

Le due forme verbali, in figura etimologica, ribadiscono la natura speculativa dell’opera e l’impegno all’indagine che deve segnare il percorso di conoscenza di chi aspira alla sapienza. Il congiuntivo esortativo regge l’interrogativa indiretta disgiuntiva introdotta da an … an … , forma postclassica per utrum … an.

an ira secundum naturam sit et an utilis

Il concetto è portante nella trattazione filosofica senecana e riguarda l’orgine delle passioni umane che, in quanto generate da un improvviso impetus e essendo non naturali, devono essere rigettate dall’uomo (cfr. ira 2, 1, 4; cfr. anche ad Marc. 1, 10; ad Helv. 16, 1; ad Pol. 18, 5). Come già detto, Seneca qui si pone in antitesi rispetto al pensiero peripatetico che, completamente opposto allo stoicismo, riteneva l’ira -e le passioni in genere- utili proprio perché naturali. Lo ricorda anche Cicerone in Tusc. 4, 43: quid, quod idem Peripatetici perturbationes istas, quas nos

extirpandas putamus, non modo naturalis esse dicunt, sed etiam utiliter a natura datas? Mentre infatti i Peripatetici erano sostenitori della μετριοπάθεια, gli Stoici

credono nella completa assenza delle passioni, l’ἀπάθεια. L’inutilità dell’ira e la sua innaturalità sono inoltre concetti presenti già in Crisippo che combatté con decisione le teorie peripatetiche (cfr. SVF 3, 390 e sulla questione POHLENZ 20122, p. 302

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ss.). In un contesto completamente diverso utilis è definita da Properzio l’ira di una

lena in quanto strumento per rialzare il prezzo dell’amore della donna desiderata dal

corteggiatore: si tibi forte comas vexaverit, utilis ira (carm. 4, 5, 31). Sull’argomento vedi CUPAIUOLO 1975, p. 95 ss. Sulla contrapposizione tra peripatetici e stoici, in particolare sulla concezione dell’ἀπάθεια, cfr. SPANNEUT 1973, pp. 4642 - 4677.

Paragrafo 2

Il paragrafo è tutto giocato su una serie di contrapposizioni, retoricamente culminanti nella ripetuta anafora di hic e illa, tra l’uomo, essere per natura destinato al bene, e l’ira, causa di rovina e dolore. Ma vanno notati anche l’anafora del quid nelle interrogative; l’allitterazione quo quid; la costruzione simmetrica dei due scopi contrapposti (in adiutorium mutuum … in exitium) e le quattro coppie di infiniti concettualmente antitetici (congregari/discedere; prodesse/nocere; succurrere/petere; inpendere/discedere).

inspexerimus

Il verbo indica l’analisi approfondita dell’interiorità suggerita dal filosofo per indagarne la natura e dimostrare che l’adfectus non è naturale: inspicio si offre così come strumento atto a scrutare nella psicologia umana al di là del primus aspectus. Seneca lo preferisce a introspicere, che adopera solo in due occasioni (ep. 83, 1 e

nat. 6, 5, 2), verbo prediletto invece da Tacito come strumento della più concreta

indagine storico-psicologica (cfr. LANA 1989, pp. 26-57).

mitius

L’innata bontà umana è ampiamente testimoniata nel mondo antico, tanto greco (vedi ad esempio Epitteto 3, 10, 14) quanto latino (Cicerone, off. 3, 27).

in recto

RAMONDETTI (1999, p. 235 n. 2) sottolinea come la perifrasi sia la traduzione della teoria dell’ ὀρθός λόγος risalente ai primi stoici, ma poi ampiamente

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argomentata anche in contesto peripatetico: si tratta del retto discorso, assunto della verità che, se appunto sano e retto, assicura che il suo assenso sia legittimo (sulla questione cfr. POHLENZ 20122, p. 112 ss. e, nello specifico, p. 113 n. 20). Rectus è qui utilizzato come aggettivo sostantivato in una espressione di uso molto raro che ricorre solo nel Cordovese e solo due volte: in questo luogo del De ira e nell’ep. 34, 4 in cui l’autore, complimentandosi con Lucilio, presagisce al discepolo un futuro da

perfectus se saprà perseverare nella retta via: non est huius animus in recto cuius acta discordant.

amantius

L’affetto reciproco tra gli uomini è un concetto chiave nella filosofia senecana. Torna simile in otio 1, 4 in cui l’aiuto è esteso anche ai nemici: non desinemus

communi bono operam dare, adiuvare singulos, opem ferre etiam inimicis, eniti manu. Si tratta di una nuova humanitas, diversa da quella di età ciceroniana, ma

caratterizzata da un sincero sentimento di affetto e devozione nei riguardi del prossimo fino alla morte: l’importanza che riveste questo aspetto nella teoresi senecana è dimostrata dalla chiusa dell’intero De ira in cui si legge, quasi in una sorta di testamento spirituale: iam istum spiritum exponemus. Interim, dum trahimus,

dum inter homines sumus, colamus humanitatem (3, 43, 5). L’uomo -la cui

importanza in Seneca è evidente anche dall’insistito impiego del termine homo in figure retoriche (cfr. TRAINA 19843, p. 86)- è quindi, come già per Aristotele (pol. 3, 4, 1278b 19), animale sociale, nato per il bene comune (cfr. clem. 1, 3, 2 e relativo commento di BRAUND 2009, p. 197 e, per la perifrasi animal sociale cfr. ben. 7, 1, 7). Sull’humanitas in Seneca cfr. CUPAIUOLO 1975, p. 175 n. 32 e 2 2012, p. 658.

hic … descendere

La contrapposizione tra natura umana e ira procede qui con un ritmo ancora più incalzante assicurato dall’impiego dell’antitesi, figura retorica che, come già detto, ricorre molto frequentemente nel corpus senecano. Come giustamente ricorda CASTIGLIONI (1960, pp. 29-31), nonostante l’uso dell’antitesi sia preminente nelle opere giovanili dell’autore, in una fase di forte dipendenza dalle scuole retoriche e di declamazioni, ciò non aiuta nell’annosa questione sulla cronologia dei Dialoghi:

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l’espediente retorico infatti è adottato in maniera abbastanza costante anche nelle opere tarde. Sull’antitesi in Seneca cfr. TRAINA 19843, pp. 31-32.

prodesse

Si è visto che per gli stoici l’uomo è un animale sociale, naturalmente buono: il verbo prosum è infatti di uso tipicamente stoico ed indica il naturale scopo di essere utile agli altri. La teoria stoica del prodesse è chiaramente messa in luce da Cicerone -in cui il verbo indica però in primo luogo il giovare all’uomo in quanto civis- in fin. 3, 65: Quod nemo in summa solitudine vitam agere velit ne cum infinita quidem

voluptatum abundantia, facile intellegitur nos ad coniunctionem congregationemque hominum et ad naturalem communitatem esse natos. Inpellimur autem natura, ut prodesse velimus quam plurimis in primisque docendo rationibusque prudentiae tradendis. Il verbo ricorre in Seneca di frequente nel De beneficiis in cui il giovare

agli altri rappresenta una forma di beneficio ed è tipico di un animo nobile (qui

beneficium dat, quid proponit? Prodesse ei, cui dat, et voluptati esse, 2, 31, 2; generosi animi est et magnifici iuvare, prodesse, 3, 15, 4; beneficium res volontaria est, at prodesse sibi necessaria est, 4, 9, 2). Nel De ira il verbo è impiegato in

contrapposizione con nocere non solo in questa occorrenza: in ira 3, 5, 6 infatti, attraverso un ulteriore procedimento antitetico, l’autore contrappone l’ira alla naturale disposizione umana: illa (natura hominis) in amorem hortatur, haec in

odium; illa prodesse iubet, haec nocere. Da segnalare inoltre il terzo capitolo del De otio in cui, in un serrato confronto tra dettami epicurei e stoici, Seneca spiega come

nel giovare agli altri consista il ruolo stesso dell’uomo. La nozione, anticipata già dalle quattro occorrenze di prosum nel paragrafo 3, è esplicitata dalla articolata climax concettuale di 3, 5: hoc nempe ab homine exigitur, ut prosit hominibus: si

fieri potest, multis; si minus, paucis; si minus, proximis, si minus, sibi. Nam, cum se utilem ceteris efficit, commune agit negotium (cfr. sulla presenza del tema nel De otio

DIONIGI 1983, pp. 176-178 e, nello specifico, p. 210). Il prodesse si lega quindi anche ad un altro concetto fondamentale, quello dell’importanza dell’attività pubblica: sempre in contrapposizione all’epicureismo e all’invito contenuto nel λάθε βιώσας, Seneca può ammettere che l’uomo decida di vivere in disparte, ma è comunque suo dovere essere di giovamento al singolo e soprattutto alla collettività (ita tamen delituerit ut, ubicumque otium suum absconderit, prodesse velit singulis

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universisque ingenio voce consilio, tranq. 3, 3). È quindi la natura che gli impone di

essere disponibile e di giovamento per gli uomini: si legge in vit. 24, 3 hominibus

prodesse natura me iubet.

Paragrafo 3

emendatissimo

Nel codice A1 si legge mendatissimo, aggettivo che non trova però altro riscontro nella lingua latina, e in Bon commendatissimo, ma per il senso, dal momento che Seneca sta qui facendo riferimento all’uomo, l’opera più perfetta della natura, come spiega anche BOUILLET 1972, p. 14, è preferibile emendatissimo. L’aggettivo inoltre ricorre in Seneca solo cinque volte e -fatta eccezione di ep. 25, 3, in cui si riferisce ad una persona che corregge i propri comportamenti, e a questo luogo del De ira- è impiegato sempre a proposito dell’animus (cfr. Marc. 23, 3; ep. 4, 1 e 124, 23). Il participio con valore aggettivale commendatus ricorre invece un’unica volta in Seneca in nat. 6, 8, 3 a proposito dei due centurioni mandati da Nerone in Egitto e “raccomandati” ai re della zona.

minime secundum eius naturam est.

Il concetto torna ancora in ira 1, 6, 4: non est ergo natura hominis poenae

adpetens; ideo ne ira quidem secundum naturam hominis, quia poenae adpetens est;

e 3, 5, 6 ira … naturam hominis eiurat. In SVF 3, 390-391 si legge infatti, a proposito del pensiero di Crisippo sull’ira, che le passioni sono moti irrazionali dell’anima contro natura, πάθη ἄλογα: dalle quattro passioni principali, dolore, paura, desiderio e piacere, derivano infatti le secondarie tra cui l’ira. Anche Cicerone (Tusc. 4, 11) crede che l’ira non sia né naturale né utile e, partendo proprio dalle posizioni stoiche (qui mihi videntur in hac quaestione versari acutissime), riporta la definizione di passione data da Zenone: aversa a recta ratione contra naturam animi

commotio. Ancora si chiede come possa essere naturale tutto ciò che è contrario alla

ragione: ubi sunt ergo isti, qui iracundiam utilem dicunt -potest utilis esse insania?-

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Quo modo autem, si naturalis esset ira, aut alius alio magis iracundus esset, aut finem haberet prius quam esset ulta, ulciscendi lubido, aut quemquam paeniteret, quod ferisse per iram? (Tusc. 4, 79).

beneficiis

Discutendo sul rapporto interpersonale tra gli uomini, sul legame che li unisce e sul sentimento di affetto e benevolenza che accomuna il genere umano, Seneca si trova inevitabilmente a dover citare il beneficium, elemento fondante, insieme alla concordia, del vivere civile. Esso si lega infatti indissolubilmente al senso di societas che, come si legge fin dall’esordio del De beneficiis, riveste un’importanza primaria nel pensiero senecano. Simbolo delle interazioni umane, il beneficium è qui impiegato dal filosofo come termine di paragone, o meglio di contrasto, rispetto all’ira: il primo infatti è tale per la natura stessa dell’uomo che, proteso al bene, è portato -anche se non senza commettere errori nello scambio, cfr. 1, 1, 3- a fare dono di benefici; l’ira invece, essendo non naturale, è inevitabilmente causa di rovina per l’uomo stesso. Se quindi concesso o ricevuto in maniera opportuna, il beneficium rappresenta il fondamento della società: de beneficiis dicendum est et ordinanda res,

quae maxime humanam societatem adligat, ben. 1, 4, 2. Stando alla definizione

senecana il beneficium è quindi un atto puramente gratuito (beneficium enim id est

quod quis dedit, cum illi liceret et non dare, ben. 3, 9, 1) che non concede a chi lo

accorda alcun diritto alla controprestazione (cfr. a riguardo HELLEGOUARC’H 1972, pp. 152 e 163). Sul valore del beneficium nelle interazioni umane vedi PICONE 2013, pp. 91-93.

concordia

Vedi commento a dissentio et concordia (3, 6).

amore

Non si tratta qui del sentimento d’amore tra un uomo e una donna (come l’amor di ira 1, 3, 6) o dell’amore del princeps nei confronti dei suoi sudditi (clem. 1, 19, 6),

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ma di un sentimento che accomuna tutto il genere umano, la bontà naturale che, contrapposta al terror, spinge le persone al reciproco aiuto.

foedus

Il termine riveste una primaria importanza a Roma ed indica innanzitutto il patto internazionale stretto tra l’Urbs e un altro popolo o un’altra civitas con finalità politico-militari (cfr. per per questo utilizzo HELLEGOUARC’H 1972, pp. 38-40). Il termine venne poi impiegato in contesti diversi e, soprattutto nella poesia erotica, in riferimento al rapporto amoroso: l’unione amorosa tra un uomo e una donna è talmente sacro che già in Catullo viene indicato proprio con il tremine foedus (sul

foedus in Catullo cfr. PINOTTI 2002, p. 45 ss. e BORGO 2012, p. 9 ss.); si tratta di

un vero e proprio patto che ha come fondamento la fides, un rapporto di fiducia tra due persone che implica il carattere della reciprocità (cfr. sull’argomento FREYBURGER 1986, p. 31 ss.). Il termine trova però un più largo impiego soprattutto negli elegiaci: in Tibullo, Properzio e Ovidio indica un patto di fedeltà reciproca, anche in ambito sessuale e soprattutto regolato da leggi fisse, proprio come i foedera politici ai quali tende a sostituirsi. Qui Seneca lo impiega non in riferimento a rapporti amorosi, ma a proposito dell’unione sacra e inviolabile che lega tra di loro gli uomini che, proprio perché per natura predisposti al bene e alla

communitas, è come se stringessero un foedus che assicura comportamenti adeguati e

reciproco aiuto. Si tratta quindi di un riuso del termine foedus trasportato dall’ambito della concreta società civile a quella teorica fondata sul vincolo dell’humanitas.

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