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Parlare all’animo il linguaggio più comprensibile: svaghi e divertimenti popolari durante le

All’alba del 15 agosto 1806, al suono insistito delle campane cui facevano eco le salve di artiglieria tirate dal Castello Sforzesco, Milano si risvegliava, pronta a celebrare l’anniversario di nascita dell’Imperatore e Re d’Italia. L’udito di un qualunque viaggiatore capitato in città quel giorno sarebbe stato colpito da ripetute scampanate e dai boati delle macchine da fuoco, attive anche a mezzogiorno ed al tramonto; la sua vista rapita dalla decorazione di strade e piazze pavesate per la ricorrenza, come pure dalla loro illuminazione notturna per mezzo di candele, lanterne e fuochi artificiali. Più in generale, tuttavia, tutti i sensi di quest’anonimo osservatore sarebbero stati coinvolti in un turbinio inestricabile di note musicali, grida, spinte, balli, profumi e sapori: le vie cittadine erano infatti animate ed intasate da altri come lui, decisi a passare la giornata all’aperto, fra la folla, approfittando di tutti quei godimenti semplici che venivano offerti a piene mani dalla municipalità e dal governo. Come tutti, egli sarebbe stato attirato quasi senza accorgersene ai giardini pubblici, dove si concentrava la maggior parte delle attività in grado di rispondere alle attese dei ceti più umili della capitale del Regno, coinvolgendoli nelle celebrazioni non senza rivolgere loro un tenue, sotterraneo messaggio politico-didascalico.

Il gran numero di artisti mobilitati e di svaghi allestiti poteva davvero soddisfare tutti i gusti. La compagnia di Giuseppe Moncalvo99, con in programma tre rappresentazioni comiche, si

contendeva i favori degli amanti del palcoscenico – dal contenuto beninteso popolare – con gli artisti Filippo Visconti, Rinaldo Venanzio, Onofrio Vismara, Giulio Gerosa, Giuseppe Bosoni, Luigi Faver ed un certo Sommaruga, i quali ciascuno per proprio conto proponevano invece teatri di marionette e burattini. Sempre nel novero degli spettacoli scenici, inoltre, Marianna Fischer ed i suoi musici suonavano e cantavano arie e duetti; quanti ricercavano satire, giochi di parole, allusioni sconce erano invece intrattenuti dagli autori di bosinate Franco Nicolini e Giuseppe Vidoli, dai cantastorie Antonio Galimberti e Bombasina, come pure da Ignazio Riva con la sua «predica della verga». Non mancavano ovviamente né gli acrobati – Filippo Conti era chiamato ad eseguire «giuochi sulla corda volante» – né i prestigiatori, o gli astrologi, o il teatro di ombre cinesi. Accanto a queste figure tradizionalmente presenti nelle feste popolari, però, comparivano anche artisti in grado di offrire intrattenimenti più complessi e rari: la famiglia Ferrario, Raffaele Beretta

99 Nato a Reggio Emilia nel 1781, è noto soprattutto per aver ripreso e valorizzato la maschera di Meneghino, formatasi

verso la fine del Seicento, e da lui inserita in moltissimi dei suoi spettacoli, dalle commedie a quelli ispirati a ricorrenze e temi del giorno. Morì a Milano nel 1859.

e Giuseppe Contini mettevano infatti a disposizione il loro “mondo nuovo”, ossia uno strumento ottico con cui era possibile osservare vedute colorate stampate su carta e retroilluminate da una candela. Pio Landini era invece l’impresario di un “panorama” di grandi dimensioni e forma quadrata che consentiva agli spettatori di ammirare tutt’intorno a sé l’assedio della città di Gaeta da parte dell’esercito di Giuseppe Bonaparte; infine, era tridimensionale, perché «esposta in figure, ed il tutto di rilievo, al naturale», la raffigurazione della marcia di Napoleone e Giuseppina dal Duomo a S. Ambrogio allestita da Domenico Landini. Da ultimo, i più curiosi riguardo le novità scientifiche potevano divertirsi con «tutte le possibili esperienze e giuochi di elettricità» di Teresa Beretta. Il tutto era accompagnato dalla musica di un’orchestra da ballo e da più modeste compagnie di musici itineranti, attive tanto durante il pomeriggio quanto durante la notte100.

Si trattava dunque di un’offerta di svaghi ricca e variegata, dai contenuti ricreativi ma pure latamente istruttivi e commemorativi: anche coloro che appartenevano alle classi laboriose, persino gli illetterati potevano accostarsi temporaneamente, in qualità di spettatori, ai prodigi di tecniche sconosciute o agli eventi politico-militari che avevano scandito i tempi recenti, mutando il corso della storia stessa101. Lo scopo di un simile programma era del resto quello di coinvolgere il popolo

– soggetto collettivo indefinito e dalla presunta imprevedibilità, proprio per questo percepito come minaccioso – nella celebrazione della sovranità esistente, cioè di un ordine che si pretendeva quanto più stabile e duraturo possibile: ciò necessitava l’individuazione di spazi ed attività che fossero aggregativi ma non eccessivamente pericolosi, e che parlassero un linguaggio comprensibile ed apprezzabile dai soggetti meno istruiti. Spettacoli e svaghi avevano l’evidente intento «di affezionare il popolo al governo, associando i benefici ricevuti con la commemorazione di eventi significativi nella vita del sovrano e della nazione»102, a dimostrazione che dopo gli intensi anni

rivoluzionari e repubblicani – e le relative festività – occorreva guidare il popolo, canalizzare i suoi

100 ASMi, Atti di Governo, Potenze sovrane post 1535, b. 178, minuta del ministero dell’interno sugli svaghi popolari

dei giardini pubblici.

101 H. Weston, The Politics of Visibility in Revolutionary France: Projecting on the Street, in J. Kromm and S.

Benforado Bakewell (ed.), A History of Visual Culture. Western Civilization from the 18th to the 21th Century, New York, Berg, 2010, pp. 18-29. L’autrice mette bene in luce come alla fine del Settecento in Francia gli spettacoli che prevedevano l’uso di lanterne magiche, mondi nuovi ed altre tecniche visuali uscirono progressivamente dai salotti altolocati per invadere le strade ed esser offerti ad un pubblico più variegato. Gli impresari, spesso considerati ancora meri intrattenitori, cominciavano peraltro a rivendicare uno status artistico-scientifico per il possibile uso della loro attività a fini di educazione popolare, e trattavano talvolta temi politici, specialmente durante il decennio rivoluzionario.

102 P. Carrega, Le feste del Regno d’Italia Napoleonico tra modello rivoluzionario e suggestioni d’antico regime (1805-

slanci, «le soumettre à la tentation de l’imitation et de l’entraînement» con mezzi di sicura efficacia quali «le spectacle, l’exercice, le jeu»103.

Lungi dall’essere una mera riproposizione della dottrina del panem et circenses, questi elementi tipici della fête de souveraineté dimostravano che all’alba del XIX secolo non era più concepibile una solennità – persino se strettamente associata alla persona del sovrano – priva della presenza e della partecipazione di un soggetto collettivo che era destinatario del messaggio politico veicolato dalle celebrazioni stesse. Gli svaghi proposti a Milano nel 1806, così come in tutto l’Impero a quelle date, «parl[aient] à l’âme le langage qu’elle entend le mieux, celui des sensations et des images»,104 cioè cercavano di innescare una connessione immediata, quasi inconscia, fra la

figura di Napoleone in qualità di sovrano benevolo, ed il clima di festa, di allegria, di rara spensieratezza che si poteva respirare per le vie cittadine quel giorno. Uno spazio nullo era lasciato alla riflessione o alla mediazione politica: il rapporto fra Imperatore e sudditi almeno in questo specifico ambito era diretto, privo di simbolismi, e proprio per questa mancanza di ambiguità i divertimenti costituirono i modi attraverso cui gli strati più umili della società fecero proprie le feste, le onorarono e le fecero diventare parte del loro orizzonte mentale105.

Naturalmente il contenuto del messaggio politico – a sua volta dipendente dal regime in cerca di legittimazione – influiva sulla scelta delle forme e degli strumenti che dovevano diffonderlo, così come questi ultimi condizionavano la sua efficacia. Solo tre anni prima, in quegli stessi giardini pubblici milanesi teatro di tante celebrazioni pubbliche, si sarebbe percepita un’atmosfera diversa. Il 26 giugno 1803, giorno di una grandiosa festa nazionale per l’anniversario della fondazione della Repubblica106, quel grande spazio aperto capace di accogliere migliaia di

persone abbondava di allestimenti scenici allusivo-simbolici ben più che di artisti e saltimbanchi. Ciò non significa ovviamente che divertimenti e musica fossero banditi, ma il clima ispirava altresì

103 A. Corbin, La fête de souveraineté, dans A. Corbin, N. Gérôme et D. Tartakowsky, Les usages politiques des fêtes

aux XIX-XX siècles, Paris, Publications de la Sorbonne, 1994, pp. 25-38.

104 P. Deguise, Fêtes civiques de la Révolution à l’Empire (des courses des chars à l’aérostation), «Mémoires de la

Société éduenne des lettres, sciences et artes», 53 (1975), pp. 63-75.

105 N. Petiteau, Les français et l’empereur, dans H. Becquet e B. Frederking (dir.), La dignité de roi. Regards sur la

royauté au premier XIXe siècle, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2009, pp. 19-34, narra che a Brienon-sur-

Armaçon, nel dipartimento francese dell’Yonne, durante la prima restaurazione borbonica una donna finì davanti ad un tribunale per aver illuminato il mulino di famiglia con sessanta lanterne e decorato i cappelli dei tre figli con coccarde di carta a forma di aquila il 15 agosto 1814, un’azione denunciata come sediziosa da due passanti, suoi accusatori. La donna, spalleggiata dal marito, spiegò che tale iniziativa aveva invece un mero intento ludico: anche secondo la storica, infatti, la sua famiglia aveva semplicemente desiderato godere di una festa come aveva fatto in tutti gli anni precedenti, poiché «pour ces enfants attachés à célébrer le 15 août parce que cela a toujours été à l’horizon de leurs réjouissances, faire la fête et chanter les louanges de Napoléon, c’était un tout un, ce que ni leur mère, ni leur père n’ont trouvé condamnable».

106 S. Bosi, 26 giugno 1803: Festa Nazionale della Repubblica Italiana, in C. Capra, F. Della Peruta, F. Mazzocca (a

il raccoglimento e l’introiezione di valori patriottico-repubblicani: il sistema di illuminazione riproduceva infatti i colori della bandiera nazionale, ed in boschetti sacri erano posti i cenotafi di illustri militari e letterati sia italiani sia francesi, i cui nomi in lettere dorate erano tramandati ai posteri dalla statua dell’Immortalità, accompagnati dall’epigrafe «Così dopo il morir si resta in vita, e la strada del ciel si trova aperta»107.

Tutti i cittadini indipendentemente dalla loro condizione sociale venivano dunque invitati a riflettere sui loro doveri nei confronti della Repubblica, ad accostarsi a molteplici e differenti figure di uomini meritevoli del pubblico plauso, ad ispirarsi a questi ultimi al fine di formare una disposizione intellettuale ed un bagaglio di sentimenti che permettesse loro di integrarsi proficuamente nella comunità nazionale e farla prosperare. Se da un lato restò dunque costante l’importanza della partecipazione popolare alle festività civiche per tutto il quindicennio in analisi, dall’altro in breve tempo, in corrispondenza con il passaggio da una forma di governo repubblicana a una monarchica, si verificarono modificazioni nella scelta degli strumenti per attrarre il popolo alle celebrazioni e nelle forme di comunicazione – anche e soprattutto non verbale – per entrare in relazione con esso. Tale semplificazione, rispondente altresì al desiderio delle autorità di limitare la possibile rivendicazione di protagonismo politico popolare, risultò più diretta ed efficace nel rispondere a certe attese e bisogni primari degli strati popolari.

Come è possibile giudicare il grado di apprezzamento popolare dei programmi di intrattenimento ideati dalle amministrazioni? Sarebbe naturalmente opportuno elaborare una valutazione sulla base di fonti prodotte dai e nei segmenti popolari della società, ma è ben noto che a queste date essi restavano soggetti storici sfortunatamente “silenti”. Varie tracce sono però desumibili da diari, cronache e memorie di osservatori contemporanei dotati di sufficiente curiosità e cultura. Il sacerdote milanese Luigi Mantovani, di certo non accusabile di sentimenti filo-francesi, annotava per esempio proprio in occasione della festa del 15 agosto 1806 che «il pubblico […] gode, ride, si ubriaca, in tempo che i cittadini sensati s’affliggono, vedendo così strapazzata una solennità delle più grandi, e distolto il popolo dalla Chiesa, e dalle funzioni ecclesiastiche, e insieme riflettendo sullo spregamento di centinaia di mille lire, gettate malamente […]»108. Mentre

accusava il governo di aver secolarizzato coscientemente la festa dell’Assunta riducendola alla stregua di un baccanale, con grave sperpero di risorse pubbliche e un ancor più serio attacco alla

107 ASMi, Atti di Goverrno, Potenze sovrane posto 1535, b. 140, Proclama del programma della festa pubblicato dal

ministro dell’interno il 20 maggio 1803.

108 L. Mantovani, Diario politico ecclesiastico, vol. III, a cura di P. Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per la storia

morale collettiva, l’ecclesiastico registrava così anche il successo incontrato dagli svaghi della giornata, seppur con suo grande sconcerto ed acrimonia.

Possono inoltre risultare preziosi i rapporti trasmessi dai prefetti e dai commissari di polizia ai ministeri competenti, se usati con una certa cautela; come si vedrà in seguito, infatti, il loro contenuto spesso non si limitava a fotografare lo svolgimento ed i risultati delle celebrazioni, ma ne dava una versione standardizzata, edulcorata o ideale al fine di soddisfare le aspettative delle autorità superiori. È qui importante notare che raramente queste relazioni contenevano dati numerici. Questi ultimi potevano certo riguardare le spese sostenute, ma quasi mai si tentava di quantificare la presenza di cittadini nelle piazze e nei giardini durante le ricorrenze solenni, non solo per l’oggettiva difficoltà nel compiere queste operazioni, ma anche perché l’utilizzo di una terminologia vaga, anche se dai toni spesso trionfalistici, lasciava ai funzionari adeguati margini di errore e difesa in caso di smentita, soprattutto da parte di altri amministratori attivi sul medesimo territorio ma dipendenti da un diverso ministero.

A qualche giorno di distanza dalla S. Napoleone del 1812, tuttavia, sia il Commissario generale della Polizia per i dipartimenti al di là delle Alpi, Dohuet d’Auzers, sia il prefetto del dipartimento del Po, Alexandre de Lameth, esprimevano grande compiacimento per il successo dei festeggiamenti torinesi, protrattisi per ben tre giorni. Il primo parlava addirittura della presenza di 30.000 “stranieri” – termine che occorre intendere in senso molto ampio, allusivo probabilmente a tutti coloro non risiedevano stabilmente in città – a fronte di soli 4000 posti d’albergo disponibili109;

il secondo, più modestamente, sosteneva che i visitatori fossero stati 20.000, ma che a questi dovessero inoltre essere aggiunti tutti gli abitanti dei borghi e dei villaggi circostanti110. Le cifre

indicate erano certamente gonfiate: in caso contrario Torino – che contava allora all’incirca 67.000 abitanti – avrebbe visto la sua popolazione aumentare in pochi giorni di più del 30%, anche se solo temporaneamente. Il fatto però che le due relazioni non fossero contraddittorie – dato niente affatto scontato, poiché fra prefetture e polizia nascevano spesso tensioni a causa della tendenza della seconda ad usare metri di valutazione più severi tanto sull’esprit public quanto sull’operato dei funzionari – è un importante indizio della reale attrattiva esercitata da celebrazioni particolarmente

109 AN, F/7/8948, rapporto di Dohuet d’Auzers al maître des requêtes incaricato del 3° arrondissement della Police

générale, datato 16 agosto 1812.

110 AN, F 1 C III / Po / 4, Dossier 4 Correspondance et divers, 18 agosto 1812, missiva del prefetto Lameth al ministro

grandiose non solo sugli abitanti della città, ma addirittura su individui originari del contado o di altre parti della penisola111.

Al contrario, quando gli amministratori locali lesinavano sulle risorse, a nulla valevano «les tentations de la curiosité, […], les pressions, […] les risques de l’abstention»112: i ceti più umili

non esitavano a disertare le feste e – seppur raramente – trovavano persino nei ranghi dell’amministrazione chi giustificasse tale ritegno, anche se principalmente al fine di screditare l’operato di altre figure istituzionali. Esemplare è il caso delle celebrazioni avvenute a Genova per annunciare e glorificare la nascita dell’erede al trono imperiale. Il commissario generale di polizia criticò aspramente la scelta della municipalità di limitarsi a distribuire quattrocento razioni di pane da venti once e altrettante monete da dieci soldi – per un valore di dieci centesimi di franco l’una – oltre ad allestire un misero spettacolo di danzatori su corda seguito da un intrattenimento musicale in Piazza dell’Acqua Verde. Egli non poteva dirsi sorpreso della quasi totale assenza di genovesi all’evento: infatti, scriveva, «les préparatifs étaient trop peu engageants», ed era dunque naturale che allo scarso attivismo dell’autorità municipale corrispondesse una sostanziale freddezza degli amministrati, il cui contegno derivava molto più dalla delusione patita che da un ipotizzabile sentimento anti-francese113.

Confermata quindi la potenziale attrattiva degli svaghi tipici della festa napoleonica e sgombrato il campo dall’impulso di ravvisare nella partecipazione popolare il segno di una sostanziale adesione politica al regime – tema invece fortemente sfruttato tanto nei mezzi di propaganda quanto nei rapporti valutativi delle autorità locali, di cui ci si occuperà in seguito –, occorre esaminare le ragioni del frequente successo dei divertimenti profani organizzati in occasioni di tali solennità. La risposta più logica ed immediata fa ovviamente perno sulle condizioni di vita precarie e faticose della larghissima maggioranza della società del tempo, a cui le feste civiche potevano offrire un sollievo – certo breve ed episodico – tanto materiale quanto morale. Occorre inoltre considerare che sin dai tempi del Concordato Napoleone aveva drasticamente ridotto il numero delle solennità religiose onorate come giorno festivo, preservando soltanto Natale, Ascensione, Assunzione ed Ognissanti, oltre alle domeniche ed alla Pasqua, e che

111 Un afflusso comparabile, anche se naturalmente in scala minore, aveva talvolta luogo anche in centri più piccoli:

riguardo ai festeggiamenti del 22 aprile 1810 per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa, per esempio, il prefetto del dipartimento della Doire gioiva per la partecipazione congiunta di 10.000 cittadini del capoluogo, Ivrea, e duemila abitanti delle campagne. Ivi, F 1 C III / Doire / 2, rapporto del 24 aprile 1810.

112 Corbin, La fête de souveraineté, cit., p. 28.

113 AN, F/7/8948, rapporto di Dohuet d’Auzers al maître des requêtes incaricato del 3° arrondissement della Police

le feste dei santi protettori locali dovevano essere posticipate alla domenica successiva per non nuocere alla laboriosità collettiva114.

Ad essere fondamentale, tuttavia, non era solo la possibilità generale di godere di un tempo di svago e riposo, ma anche la forma che questo assumeva. La chiave del successo risiedeva allora nella tendenza a lasciare ampi margini di manovra agli amministratori locali, affidandosi non tanto alla loro personale originalità, quanto piuttosto alla loro maggiore conoscenza di usi, costumi e tradizioni del territorio posto sotto la loro responsabilità. Tutto ciò non significa che non esistesse in materia un modello imposto da Parigi o da Milano: nel novero delle celebrazioni delle festività civiche o dei grandi avvenimenti di Stato dovevano figurare iniziative atte a coinvolgere anche gli strati più umili della società attraverso svaghi di vario tipo, salvo impedimenti di natura meteorologica o finanziaria. Il governo però non imponeva quali attività dovessero essere predilette, e spesso anche i prefetti nel prendere in esame i programmi delle celebrazioni trasmessi dalle municipalità si limitavano ad approvare o cassare le proposte, quasi sempre per ragioni di ordine economico, senza indicarne altre supplementari. Esemplare è in questo senso la circolare redatta negli ambienti del ministero dell’interno in preparazione per la S. Napoleone del 1806:

La solennité qui donne lieu aux Français de se rappeler tous ces avantages, qui leur fournit l’occasion d’exprimer leur satisfaction et leur reconnaissance, sera sans doute pour eux une grande fête. Tout à leurs yeux doit en présenter l’appareil. Vous aurez soin, Monsieur, de donner des ordres pour qu’ils soit pris [sic], dans toutes les villes, des mesures analogues à celles qui sont indiquées pour Paris. Je laisse à votre zèle et à votre sagacité à choisir celles qu’il conviendra d’adapter à chaque localité. Je vous recommande particulièrement cet objet. Vous ferez en sorte que partout l’Administration soit attentive à seconder l’expression de la joie publique115.

I giornali stampati nella capitale dell’Impero riportavano naturalmente precise notizie su come ogni ricorrenza sarebbe stata solennizzata, e per questo l’esempio di Parigi poteva ispirare altre città; la differenza di superficie, monumentalità e risorse a disposizione spingeva però ogni municipalità a elaborare piani autonomi. Tale attitudine era del resto spesso apertamente assecondata dai prefetti, consci che rimanere nel solco della continuità e non scatenare inutili malumori in tema di cerimonie e tradizioni locali era il modo migliore per legittimare le nuove festività civiche, ed occultare gli interventi condotti invece circa l’osservanza delle feste religiose. Il prefetto del dipartimento dell’Ombrone, Gandolfo, lanciava così un appello a tutti i maires

114 N. Shusterman, Une loi de l’Eglise et de l’Etat: Napoleon and the central administration of religious life, 1800-