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Partenza del conte di Lilla da Verona; ingresso de’ francesi, e resa a questi della città di Mantoa

Dal 1794 il regio conte di Provenza, sotto il nome di conte di Lilla, avea fissata la sua dimora in Verona ove, sino ai 20 d’aprile del 1796, se ne visse privatissimo nel casino di delizie lunghesso

l’Adige attacco le mura di Porta Nuova, vicino ai padri Capucinia,

di ragione della nobile famiglia de’ conti Gazola.

Il suo seguito di emigrati francesi non era oltremodo numero- so, sebben assai cospicuo e, quantunque in sua casa tenesse come una specie di corte aperta pe’ suoi cortigiani, tuttavia sì egli che questi si astennero in faccia del pubblico da ogn’atto che fuori del ceto di semplice particolare ne lo portasse. Né ricevè mai sì dai ve- ronesi che dal veneto Rappresentante quelle pub|9|bliche dimo- strazioni che, per quel ch’egli era, il qualificassero.

Poiché, dopo la funesta morte del re di Francia Luigi XVbe del

suo Delfino, assunse il titolo di re di Francia, sotto il nome di Lui- gi XVIIc, sebbene si contentasse di ricevere solo dai suoi dipenden-

ti l’omaggio di re, pure la vigilanza degli Inquisitori di stato sulla sua persona si fe somma, per cui, da coloro che commissionati era- no di spiare per entro il più secreto della sua abitazione quanto fa- cevasi e pensavasi pienamente informati, ne davano settimanali ri- ferte al Senato.

Era in allora Podestà nostro il nobiluomo Alvise Mocenigo alla cui partenza, che successe nel luglio del 1795, ricevè dal regio con- te di Provenza un graziosissimo viglietto, pieno di soddisfazioni della sua persona e del governo.

Il suo carattere di re di Francia, sebbene non ispiegato formal- mente costà, ma bensì presso l’estere corti, attrassegli |10| alcuni

a Ora non esistono più in quel luogo che è devoluto al militare [nota a margine di

mano diversa].

b Leggasi Luigi XVI.

c Leggasi Luigi XVIII.

Anno 1794. Dimora del conte di Provenza in Verona Luglio 1795. Mocenigo Podestà di Verona finisce la sua reggenza

guardevoli personaggi di quelle, e particolarmente lord Makartney in qualità d’inviato dell’Inghilterra, il qual però non ispiegò giam- mai nel pubblico tal carattere, né venne dal governo per tale rico- nosciuto.

Quest’ultima circostanza mosse il ministro di Francia a Venezia a tali lamenti verso il veneto Senato che questo, dopo un uniforme avviso ricevuto dal nobile Querini, residente a Parigi, di doglianza di quel governo, si mosse finalmente contro voglia ad irrevocabil- mente segnar l’atto della sua partenza.

A questo fine arrivò da Venezia, il dì 13 aprile del 1796, il se- gretario Giuseppe Gradenigo presso il veneto Rappresentante, nobiluomo Antonio Marin Priuli. Communicarono al signor mar- chese Alessandro Carlotti l’affare e questi (Nota 1) portossi tosto di notte presso il conte di Lilla. Un cortigiano del regio conte, al- l’incontrarlo sulla scala, dissegli “Ch’era egli per certo apportatore

di cattive nuove”. Fu quindi introdotto dal regio conte ed esposta-

gli la deliberazione del veneto Senato, così gli rispose:

|11| “Questa determinazione non mi riesce nuovaa. Partirò per

la forza, ma voglio cancellare colle proprie mani la mia famiglia dal libro d’oro, e mi sia restituita l’armatura di Enrico IV”.

Fu fatto però che venisse avvertita una persona che molto pote- va sull’animo del regio conte per fargli comprendere di quanto di- spiacere fosse riuscita al veneto Senato la sua risposta, dopo un ospitalità sì favorevole e che in altri stati non avea potuto ottenere. Egli partì da Verona ai 20 d’aprile di notte, con gran parte de’ suoi emigrati, tenendo la strada del Tirolo. Quel che è rimarcabile si è questo, che, nel tempo della sua dimora costì, poco di lui par- lavasi fra noi; che la sua partenza arrivò quasi improvisa e, appena si seppe, che anche se ne tacque. Gran politica del governo di ad- doprare il difficil mezzo di condurre i sudditi senza ch’il veggiano come a |12| lui torna meglio! Il resto degli emigrati attese quasi il momento della venuta dell’armata francese per partire e taluno si unì a quella. Veggasi dunque che razza di gente era questa, e quan- to andavano errati que’ de’ nostri che a loro per tal fatta dedicati eransi, anzi, per dir meglio, dietro loro si perdevano a segno tale di esborsare somme significanti di denaro, non già per sovvenirli ne’ lor bisogni, il che far si doveva, ma per mantenerli in doviziosi co- modi, il che forse non avrebbero fatto per qualche indigente no- stra famiglia; ed in qualche casa a tale venne il fanatismo per gli emigrati francesi, che aveasi dato quasi un bando totale all’italiana favella per parlare la francese (Nota 2). Non è poi facile il credere quanto fossero presontuosi, sprezzanti d’ogni nostra cosa e costu-

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a Questa determinazione ... nuova [aggiunta a margine]. Parte il regio

conte di Provenza da Verona

me, e superbi di tutto il loro, sebbene non trovassero terra ospita- le che li ricovrasse fuorché la nostra. Io, però, diceva sempre: sono francesi, |13| sono francesi, non credete loro, come quel sacerdote de’ trojani, guardando il gran cavallo, sono greci, diceva, sono gre- ci, temete.

Ma, quando meno si pensò da noi alla guerra e riposavasi in ozio tranquillo, più forse confidando nelle riputate insuperabili Alpi nostre che nella scarsa armata austro-sarda che diffendevale, quella già così improvvisa scese da queste a mettere con mano de- solatrice a ferro e fiamma le felici nostre contrade, che prima piombocci fieramente sopra di quello che si avesse avuto qualche tempo innanzi un chiaro annunzio della sua venuta.

Le infelici battaglie per gli austro-sardi di Montenotte, Millesi- mo e Mondovì, seguite l’una dopo l’altra dopo i 10 d’aprile; l’ar- mistizio e la pace dei 15 maggio, cui fu necessità sottoscriversi per il re di Torino, misero in tal soqquadro la Lombardia austriaca, che di colà fuggirono alla rinfusa e persone e robbe per |14| met- tersi in salvo nei veneti stati. Si vide tosto Verona ingombra d’infi- nita moltitudine di ricchi e poveri fuggitivi milanesi e di tutto lo stato, con infinito numero di carri delle loro mobiglie. Alli ...adel

maggio arrivò pure il regio arciduca Ferdinando d’Austria, gover- natore della Lombardia, ed alloggiò in casa Canossa per qualche giorno e poi prese la via del Tirolo.

Commovente spettaccolo era certo per noi questo improvviso cangiamento di scena, né si potevano talora trattener le lagrime sugli occhi al vedere la desolazione di que’ fuggitivi, in cui sul vol- to scorgeasi visibilmente dipinta la disperazione. Giacché, profu- ghi per trovare riposo altrove, quest’era sempre fieramente com- battuto dal più funesto pensiere sulle sostanze e persone congiun- te od amiche che colla patria avean dovuto abbandonare.

Ma qual’era in questo frammezzo il pensar nostro ed i ragiona- menti che teneansi sopra que’ |15| possibili eventi, in cui forse pur noi incorrere avremmo potuto? Confesso la verità, tanta era la fi- ducia sulla ingenua e leale condotta della Republica e nell’esperto maneggio dei politici affari, che ci tenevamo al sicuro d’ogni sini- stro evento, anzi stimavamo (oh quanto bonariamente) che la no- stra prosperità nel pacifico godimento delle nostre sostanze sareb- be stata oggetto di maggior dolore per que’ miseri popoli che, a noi limitrofi, la barbara sorte già involontarj gli andava mano a ma- no traendo negli orrori della guerra. E seppur fuvvi qualche timo- re, fu di assai pochi che non ardivano di parlare in un pubblico che come infallibile teneva la condotta della Republica e, riposando si-

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EPOCA PRIMA

a Data mancante, sostituita con virgolette nel manoscritto.

Fuga dell’arciduca di Milano a Verona

curo sulle saggie previdenze del governo, non ardiva nemmeno (oh bella confidenza dei sudditi nel suo sovrano) d’investigarne i motivi, che anzi di misteriosa venerazione li reputava degni.

|16| La provincia nostra in via di diffesa non potea essere nello

stato di maggior abbandono. Le esterne fortezze della Chiusa, di Legnago e Peschiera malissimo presidiate e peggio tenute. Il presi- dio di quest’ultima, ed era il più grande, era di 60 invalidi senza artiglierie e munizioni; rotti i ponti levatoj, guasti i rampari ed in- gombri d’alberi; e nemmeno eravi la bandiera veneta da inalberare a un caso sulle mura per indicare a qual signore appartenesse quella piazza, come ne scrisse in una riferta al governo il colonnel- lo Carrara, colà spedito in questi estremi momenti per governo di quella piazza. L’artiglieria pure sulle nostre mura giacea fin quasi da mezzo secolo sulla nuda terra e queste, in varie parti dal tempo oltraggiate, non avean riparo; così dicasi dei tre castelli; la guarni- gione era scarsissima e finalmente tutto il militare sì della provin- cia che della città consisteva in 1629 fanti italiani, 470 schiavoni e 531 di cavalleria. In tutto cogli ufficiali 2630a. E se tale era lo stato

di Verona, che pur riguardavanla i veneziani come lor piazza d’ar- mi in Terraferma, qual dovea riputarsi quello delle altre |17| città di questo dominio? Tutto questo, però, non destava alcun tristo pensiere nella moltitudine, anzi traevansene per taluni felicissime conseguenze per l’ulteriore nostro vivere pacifico.

Ai 19 di maggio arrivò da Venezia il nobiluomo Nicolò Fosca- rini col secretario conte Rocco Sanfermo in qualità di Provveditor estraordinario in Terraferma. Sebben il Foscarini fosse uomo di nessuna fama, fu però come il nostro salvatore ricevuto. Il Sanfer- mo, poi, non fu conosciuto per quello che mostrossi in appresso. La residenza del Provveditor generale fu stabilita nel palazzo del conte Salvi di Vicenza.

Le sue prime occupazioni si rivolsero alla diffesa della città, ed ecco quanto furono estese. Fece costruire, a vario tratto delle mu- ra, dei caselli di legno per la soldatesca che destinavasi su quelle, a un caso che truppe straniere volessero entrare in città. Fece riparar le vedette, ripor dell’artiglieria su i letti e poche altre cose, |18| ma

con tale lentezza, che poi mancò il tempo di condurle a fineb.

Vennero intanto delle cattive nuove sulla occupazion fatta dai francesi di Crema, Bergamo e Brescia, ma poco ci mossero, sì per essere cose un poco lontane, come altresì poco nel totale credute. Qualche senso cominciò a destare l’occupazion degli austriaci, co- mandati dal Liptay, di Peschiera il giorno 26 maggio, eseguita però

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a e finalmente ... cogli ufficiali 2630 [aggiunta a margine]. b Indicazione di nota (2) che però è mancante.

Arrivo del Provveditor Foscarini a Verona

con tutta quiete, ma non senza rimostranze, sebbene inutili, di quel comandante, colonnello Carrara.

Il generale Beaulieu che comandava gli austriaci, che in tutto solo a 18 mila ascendevano, avea nel ritirarsi dalla Lombardia au- striaca tirato un cordone da Garda sino a Peschiera, e discenden- do lungo il Mincio occupava Borghetto e Goito, poggiando la sua sinistra a Mantoa. Le cose di guerra stettero in quest’essere fino ai 30; e tale spavento misero in tutti que’ contorni, che i poveri villici fuggivansene a torme in città, trasportan|19|dovi in salvo sopra carri le lor robbe, e famiglie. Ci commosse oltremisura questo spettaccolo, ma ancor non pur temevasi, ma nemmeno pensavasi, che i francesi, avvicinandosi, entrarebbero anche in Verona come fatto aveano a Bergamo e Brescia. Molto contribuiva al non temer questo, l’essere noi poco al fatto di quanto al di fuori succedeva, come avvenne sempre in questi casi.

Avvicinatisi i francesi agli imperiali, s’impegnò fra questi san- guinosa battaglia al Borghetto, di cui il colonnello Carrara così da Peschiera ne ragguagliò il Foscarini, in data dei 30 maggio: “La battaglia perduta al Borghetto dagli imperiali, che incominciò alle ore 6 di questa mattina e durò fino al mezzo giorno, obbligò que- sto generale (intendevasi del Liptay ch’era in Peschiera) a ritirarsi da questa fortezza con tutto precipizio, essendo avvertito che la vanguardia francese si avvicinava per tagliargli la |20| ritirata, mentre il grosso dell’armata inseguiva Beaulieu che si ritirava ver- so il Tirolo. Alle ore 3 dopo mezzo dì la fortezza fu intieramente evacuata dagli imperiali e alle 4 entrò, con parte della vanguardia, il generale francese Augerau ed il generale capo dello stato mag- giore Berthier”. Racconta in seguito i cattivi complimenti fattigli dall’Augerau ed i buoni del Berthier, ma tutto finì col dovergli contentare d’alloggio e di viveri. Ad un paesano di Valeggio fu debitore il Beaulieu di potersi mettere a tempo in salvo, il quale avvertillo la mattina dei 30 che numerosissimi, sebbene in varj corpi divisi, contro lui venivano i francesi. In ricompensa di que- sta importantissima notizia donogli mezzo scudo, mancia che ta- luno meno assai di lui, e per servigio assai minore, avrebbe forse datoa.

Questa ritirata degli austriaci dall’Italia vien a ragione a stimar- si un capo d’opera, poiché riuscì al Beaulieu di mettere in salvo tutti i numerosi bagagli e artiglierie dell’armata, tenendo lontano il nemico con soli 18 mila uomini, notando eziandio la perdita di ben sei ore di cammino che fecero i trasporti, essendosi diretti alla Porta di S. Zeno, volendo attraversar Verona per accorciar la via

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EPOCA PRIMA

a Ad un paesano ... avrebbe forse dato [aggiunta a margine].

Primo fatto fra i tedeschi ed i francesi al Borg<h>etto

andando nel Tirolo, la cui entrata fu loro dal governo negata, e do- vettero ritornare passando l’Adige a Bussolengo.

|21| In questo frattempo giunse vittorioso a Valeggio il generale

in capo Buonaparte che, baldanzoso dei riportati vantaggi, minac- ciava stragi e rovine a que’ miseri ed innocenti villici per l’occupa- zion permessa ai tedeschi di Peschiera. Il Provveditor Foscarini ne fu sommamente atterrito e stimò bene d’inviargli per amichevole ufficio il tenente colonnello Giacomo Giusti. Questi, presentatosi a Valeggio al Buonaparte, gli diede a leggere un foglio; ed egli il fe- ce sedere presso di sé; ma lettone la metà, il gettò sul tavolino di- cendo che non meritava riflesso, trattando di risarcimento di pic- coli danni arreccati dai francesi nel passaggio di Brescia e Berga- mo. “Ben io ho ragione, voltandosegli minaccioso incontro gli dis- se, di dolermi della Repubblica vostra sull’asilo prestato al re di Verona (intendeva il conte di Provenza) e sulla occupazion non contrastata ai tedeschi di Peschiera”. Nulla valsero a questo le giu- stificazioni del Giusti. Minacciò di estermi|22|nar col ferro e col fuoco Verona e indi passare nella stessa Venezia. Finalmente licen- ziatolo senza nemmeno concedergli alcun rescritto, gli disse “che solo il Provveditore, a lui reccandosi la stessa notte, avrebbe potu- to giustificar tal condotta, senza però sapere il come”. Ritornando, il Giusti fu fermato in Villafranca da un commandante francese, trattandolo da spione, e fu poi dopo pochi minuti licenziato, ed esposto l’affare al Foscarini in Verona, questi fu preso da tale spa- vento e confusione che più non sapea a qual partito appigliarsi; ma il secretario Sanfermo il fece finalmente risolvere a non perder tempo ed avviarsi tosto per tener colloquio col Buonaparte; e così si risolse a fare in compagnia del Sanfermo il dopo pranzo del 31.

Questa partenza subitanea del Provveditore non potè restar ce- lata al popolo e allarmanti voci si sparsero, non dissimili dal vero, che volessero i francesi far provare tutto il loro furore |23| sull’in- nocente Verona.

Anche a quest’ultimo emergente non si diede tutto quel rifles- so che meritava, né fece quel senso generalmente che si potesse scorgere della mestizia fra il popolo che più frequente, per esser giorno di domenica, oziava al passeggio di Porta Nuova. Il Prov- veditore ritornò alle cinque della notte dell’istesso giorno, e que’ non pochi che impazienti gli accorsero per chieder nuove, così smarrito il trovarono nello scendere di carrozza e confuso, che ben s’accorsero, senza ch’ei parlasse, che dir voleva. Non si celò, infatti, che la mattina seguente, primo giugno, entrarebbero in città i francesi; che più umani sarebbero con chi loro usarebbe grata accoglienza, e che allontanar l’animo si dovesse da ogni osti- lità contro d’essi. Ne furono avvertiti varj capi della città, onde il

buon ordine fosse insinuato fra la più bassa gente, e principalmen- te che al loro ingresso si trovassero aperte le botteghe de’ comme- stibili e ogn’al|24|tro luogo chiuso. Ma tale non fu il linguaggio adoprato da que’ del suo seguito, interrogati da moltitudine di gente che veniva al suo palazzo per chieder nuove e consiglio, ri- spondendo essi atterriti al vedere che il Provveditore volea ad ogni patto fuggire se il Sanfermo non nel dissuadeva, “che mettessero in salvo e vite e robbe finché v’era tempo, perché nulla avean po- tuto ottenere dai francesi, che avean in animo d’incendiar Vero- na”. Il loro aspetto infatti era di partenza, impacchettando i più preziosi effetti del Provveditore e del Rappresentante per ispedirli a Venezia.

Il Provveditore non poteva essere stato più inurbanamente ri- cevuto e più fieramente trattato dal Buonaparte in Peschiera, cui da questo furono dati i più alti rimproveri principalmente sopra i due motivi anche al Giusti allegati, che arrivò perfino a dirgli “Che non curandosi delle sue determinazioni avrebbe tosto spedi- to il generale Massena a distruggere col fuoco Verona”. Dopo due ore di tal colloquio, |25| nel separarsi da lui gli rinnovò “Che qua- lunque segno di resistenza fosse per fare all’ingresso de’ francesi in Verona, sebbene riuscirebbe inutile, sarebbe il segnale d’incendiar Verona; che, altrimenti facendo, più tranquilli i suoi vi entrarebbe- ro, approfittando dei ponti sull’Adige per inseguire il nemico”. Questa fu la prima dignitosa comparsa che fece la Repubblica ve- neta nel ricever visita dalla sua amica Repubblica francese.

Ma qui sì che mi mancano le addatte parole onde descrivere la commozione e il lutto de’ poveri veronesi, ed i più vivi colori onde dipingere il commoventissimo quadro della desolata, sebben non molte ore prima allegra, mia patria. Non ancor l’alba spuntava del giorno primo di giugno (giorno che sarà sempre di funestissima memoria nelle storie patrie) che già tutta la città ne fu avvertita. Popolo ramingo qua e là s’aggirava per le vie ad avvisarne gli ami- ci, i parenti. Ogn’un chiede all’altro che incontra nuove, |26| ma indarno, che confuse e ognor più varie, sebben dolenti, corrono di bocca in bocca. Chi domanda consiglio trova disperazione; chi cerca conforto nelle famiglie amiche trova pianto e disparità di pensare, perché chi vorrebbe correr rischio di sé e salvar la robba restando, chi questa non cura, ma vuol salvar se stesso colla fuga, e parenti ed amici non son più vincoli che lo trattenga in patria. Tal era, insomma, l’aspetto di questa infelice città che chiunque, allora veduta l’avesse, avrebbe detto certamente d’esser città condannata alle fiamme, affrettandosi i suoi cittadini d’abbandonarla, traspor- tandone seco il bello e il buono, non perdonandola a malagevolez- za di camino. Né si creda forse taluno che strana sia ed esagerata,

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sebbene assai male abbozzata, quest’idea della desolazione della mia patria; che facile è il restarne convinti, se per poco si rifletta il senso che aver dee destato, e la confusione, in un popolo per non interrotto corso di molti anni mai stato avvezzo all’|27|armi, anzi, neppure a veder gente in rigorosa militar disciplina tenuta, che tutto in un tratto vien minacciato nelle vite e sostanze da uno strabbocchevole ed insolente esercito vincitore, la di cui fama per ogni sorte di atrocità, devastamenti e rovine erasi, già molto innan- zi del suo venire, nella più remota parte d’Italia fatta sentire.

Trecento circa furono le carrozze da 4 persone che arrivarono quel giorno a Vicenza, dicasi un maggior numero d’altri piccioli legni, di gente a cavallo e molta eziandio a piedi. E se computare si vogliano que’ che ritiraronsi in parti rimote della campagna, non è