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In particolare, il difetto di capacità distintiva può verificarsi in tre ipotesi 77 :

Nel documento INDICE SOMMARIO Introduzione (pagine 174-179)

sufficiente per provocare un rischio di confusione»

73

. Inoltre, la Corte di Giustizia (a

partire dalle celebri sentenze Canon e Lloyd) ha ripetutamente enunciato il principio

della cd. «interdipendenza delle condizioni di tutelabilità del marchio»

74

, stabilendo che

«la valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i

fattori che entrano in considerazione, e in particolare la somiglianza dei marchi e quella

dei prodotti o dei servizi», sicché «un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i

servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi

e viceversa»

75

.

Dal momento che il diritto di marchio conferisce il monopolio dell’uso del segno in

relazione a certe classi di beni per una durata potenzialmente perpetua (potendo il

titolare prolungare indefinitamente tale protezione in virtù del fatto che la registrazione

può essere rinnovata quante volte egli desideri), la legge ha stabilito che non qualsiasi

entità sia registrabile come marchio, ma solo quelle che siano idonee a distinguere

nell’ambito di un genere merceologico una sottoclasse di beni, individuandoli come

provenienti da una determinata impresa

76

.

In particolare, il difetto di capacità distintiva può verificarsi in tre ipotesi

77

:

73

Cfr. Corte di Giustizia 29.9.1998, Canon, cit., punti 23-24. 74

Come rileva MANSANI, op. cit., p. 21, «nel sistema comunitario dei marchi […] occorre tener conto dell’interdipendenza tra i fattori nella determinazione dell’ambito di protezione di un marchio, e conseguentemente dell’interferenza tra esso e segni altrui successivi. Pertanto, al marchio dovrà essere attribuita una tutela maggiore o minore […] in base alla forza distintiva che il segno ha assunto nel tempo nella percezione del pubblico di riferimento, influenzata, a sua volta, dalla notorietà che esso ha raggiunto sul mercato».

75

Cfr. Corte di Giustizia 29.9.1998, Canon, cit., punti 17 ss., e Corte di Giustizia 22.6.1999, Lloyd, cit., punti 19 ss.

76

Così RICOLFI, I segni distintivi. Diritto interno e comunitario, cit., p. 48, il quale nota che se una parola, che nel linguaggio corrente designa una categoria merceologica (per es. “miele”) potesse essere appropriata come marchio da un solo operatore, tutti i soggetti diversi dal titolare del segno sarebbero costretti a ricorrere a goffe circonlocuzioni (per es.: “alimento dolce prodotto dalle api”) per descrivere il bene da essi prodotto e la loro comunicazione aziendale risulterebbe meno efficace: a tal proposito, il divieto di registrare marchi privi di capacità distintiva mira a scongiurare il pericolo che l’esclusiva sul segno possa tradursi in un monopolio sull’attività di produzione dei beni contraddistinti.

77

Come rilevano VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 175-176, e SIRONI, op. cit., p. 121, il testo della previgente legge marchi differiva dalla formulazione delle corrispondenti norme della Direttiva n. 89/104 (art. 3, co. 1, lett. a), b) e c)) e del Regolamento n. 40/94 (art. 7, § 1, lett. a), b) e c)): queste ultime, dopo aver circoscritto i segni registrabili come marchio ai segni rappresentabili graficamente e dotati di attitudine distintiva, prevedono, come tre distinti impedimenti alla registrazione l’assenza della astratta idoneità a distinguere, la concreta mancanza di carattere distintivo e la natura descrittiva del

175

1) secondo l’art. 13, co. 1 c.p.i., non possono costituire oggetto di registrazione come

marchio d’impresa «i segni distintivi privi di carattere distintivo», cioè quelle entità che,

pur rientrando in astratto nella definizione di marchio, vengono concretamente percepite

dal pubblico non come una indicazione dell’origine imprenditoriale del prodotto o

servizio, bensì come un elemento connaturato al bene stesso (il che vale specialmente

per taluni segni costituiti da odori, suoni, colori o dalla forma del prodotto)

78

. È

opportuno rammentare come alla capacità distintiva faccia riferimento anche l’ultima

parte dell’art. 7 c.p.i., secondo il quale possono costituire oggetto di valida registrazione

«tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente […], purché siano atti a

distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese»

79

. In proposito,

una parte della dottrina

80

nega alla norma una valenza precettiva autonoma, ritenendo

che essa costituisca una disposizione riassuntiva che si limita ad anticipare la disciplina

segno; invece, il R.D. 929/42, dopo aver anch’esso richiesto all’art. 16 la rappresentabilità grafica e l’idoneità distintiva, condensava i tre impedimenti previsti dal diritto comunitario in un’unica disposizione (cioè, l’art. 18, co. 1, lett b)), nella quale si vietava la registrazione di denominazioni generiche e di indicazioni descrittive. In questa prospettiva, il requisito dell’attitudine a distinguere di cui all’art. 16 l.m. non aveva il ruolo di un autonomo impedimento alla registrazione, ma quello di norma di carattere riassuntivo e programmatico, che trovava, poi, la sua specificazione nell’art. 18, co. 1, lett. b). 78

In questi termini RICOLFI, op. cit., p. 49, e VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 176. 79

La prevalente dottrina e, in particolare, STELLA RICHTER, Oggetto della registrazione e requisiti di

validità del marchio, cit., p. 164; LA VILLA, Commento alla nuova legge sui marchi, in Riv. Dir. Ind.,

1993, I, p. 304; FAZZINI, Prime impressioni sulla riforma della disciplina dei marchi, in Riv. Dir. Ind., 1993, I, p. 172; VANZETTI-GALLI, La nuova legge marchi, cit., p. 107 ss.; e LEONELLI-PEDERZINI-COSTA-CORONA, Commento alla legge sui marchi d’impresa, Milano, 2002, p. 51 ss., affermano che l’art. 16 l.m. (ora art. 7 c.p.i.) contiene un elenco di possibili segni suscettibili di registrazione («le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche»): secondo gli Autori citati, si tratterebbe di una elencazione non tassativa, ma meramente esemplificativa e in tal senso deporrebbe anche la lettera della norma, la quale apre tale enumerazione con la locuzione «in particolare».

80

In tal senso STELLA RICHTER, op. cit., p. 162, il quale, definendo l’art. 16 l.m. come un «esempio di norma narrativa», sostiene che «non c’è spazio per pensare il requisito dell’art. 16 l.m. (ora art. 7 c.p.i.) come carattere astratto diverso ed ulteriore rispetto alla “capacità distintiva” concreta dell’art. 18 l.m. (ora art. 13, co. 1 c.p.i.); […] si ha semplicemente a che fare con una anticipazione del contenuto precettivo delle norme successive». Sull’argomento v. anche VANZETTI-GALLI, op. cit., p. 113, il quale così analizza il contenuto dell’art. 16 l.m. e il suo rapporto con i successivi artt. 17, 18 e 19 l.m.: «La norma (cioè l’art. 16) sembra richiamare così il requisito della «capacità distintiva», che attiene, per vero, all’attitudine in concreto di un segno a fungere da marchio, e non alla sua suscettibilità in astratto di costituire, appunto, un marchio, cui prevalentemente l’art. 16 è destinato. Si può, perciò, dubitare della correttezza dell’inserzione di quest’ultima condizione nella norma in esame, anche perché in che cosa debba consistere la capacità distintiva si dice ampiamente negli articoli successivi, e precisamente negli artt. 18 e 19».

176

di cui all’art. 13, co. 1 c.p.i.; tuttavia, un’altra corrente di pensiero

81

, sulla scia di un

orientamento dottrinale maturato soprattutto in Germania

82

, ravvisa nell’art. 7 c.p.i. un

ulteriore e distinto impedimento alla registrazione costituito dalla astratta e strutturale

inidoneità del segno a svolgere una funzione distintiva, in contrapposizione proprio

all’art. 13, co. 1 c.p.i., che, invece, si riferisce a una ipotesi di concreta inidoneità del

segno a contraddistinguere determinati prodotti o servizi

83

.

2) A norma dell’art. 13, co. 1, lett. a) c.p.i., sono privi di capacità distintiva i marchi

che, alla data di deposito della domanda, «consistono esclusivamente in segni divenuti

di uso comune nel linguaggio corrente

84

o negli usi costanti del commercio

85

», cioè in

espressioni o simboli (come per es. l’uso costante e generalizzato della croce per i

81

Cfr. RICOLFI, in AA.VV., Diritto industriale. proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012, p. 83-84, e VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 179.

82

Si vedano in particolare VON MŰLENDAHL-OHLGART, Die Gemeinschaftsmarke, München, 1998, p. 23-24; EISENFŰHR-SCHENNEN, Gemeinschaftsmarkenverordnung, Köln, 2010, p. 50 ss.; e FEZER,

Markenrecht, München, 2001, p. 207 ss.

83

Sull’argomento SIRONI, op. cit., p. 126, sintetizza gli orientamenti emersi in relazione al rapporto tra l’idoneità a distinguere di cui all’art. 7 c.p.i. e il carattere distintivo di cui all’art. 13 c.p.i., evidenziando come sia problematico affermare con certezza se sussista una effettiva differenza tra i due elementi in questione «dato che in entrambi i casi sembra che alla base del divieto di registrazione stia la non attitudine del segno a svolgere una funzione distintiva agli occhi del pubblico e, quindi, ad essere percepito come marchio». In particolare, ad un primo orientamento che non attribuisce una autonoma rilevanza all’inidoneità a distinguere, ritenendola assorbita entro la disciplina della capacità distintiva di cui all’art. 13 c.p.i., se ne contrappone un secondo che ha differenziato i due elementi, affermando che l’idoneità a distinguere «consisterebbe in una sorta di capacità distintiva in astratto da valutarsi a prescindere dai prodotti o servizi considerati e mancherebbe quando il segno sia in sé, intrinsecamente, incapace di svolgere una funzione distintiva per qualsiasi prodotto o servizio, mentre il carattere distintivo sarebbe costituito da una capacità distintiva in concreto, che può mancare per segni che in sé considerati potrebbero costituire validi marchi, ma che, in relazione allo specifico prodotto o servizio […] non sono percepiti dal pubblico come segni distintivi». Osserva l’Autore che la distinzione, chiara a livello teorico, si presenta alquanto problematica «quando dalla enunciazione di questi principi si cerchi di passare alla loro applicazione pratica» data la difficoltà di «trovare esempi convincenti di segni “universalmente” inidonei a distinguere».

84

VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 176-177, affermano con riferimento ai «segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente», che si tratta non di indicazioni generiche o descrittive, ma di parole (come «standard», «extra», «super», etc.) che «sono frequentemente usate in relazione a generi di prodotti diversi per indicarne certi livelli qualitativi o per magnificarli genericamente».

85

Sempre VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 177, escludendo ogni contrapposizione tra «linguaggio corrente» e «usi costanti del commercio», «nel senso che il primo si riferisca ad un ambito “civile” ed il secondo ad uno “commerciale”», ritengono che la seconda locuzione si riferisca ad un «costume espressivo vigente nel rapporto tra consumatori e imprese».

177

farmaci e gli articoli sanitari)

86

che, avendo perso ogni originalità ed essendo entrati a

far parte del patrimonio semantico comune, vengono correntemente adoperate nella

pratica commerciale e nella vita quotidiana

87

.

3) Ai sensi dell’art. 13, co. 1, lett. b) c.p.i., l’ultima ipotesi di mancanza di capacità

distintiva è rappresentata dai segni «costituiti esclusivamente dalle denominazioni

generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono,

come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la

quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di

fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio o altre caratteristiche del

prodotto o servizio»

88

: pertanto, non possono costituire oggetto di un valido marchio

86

VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 177-178, includono nella categoria in analisi anche le lettere dell’alfabeto e i numeri «in quanto si tratterebbe di segni di uso generale nelle comunicazioni commerciali […] per l’evidente esigenza di lasciare aperta la possibilità che chiunque possa usarle con funzione di abbreviazione di nomi o parole, in particolare, per la formazione di sigle». Ciò nonostante, tali contrassegni «saranno oggetto di tutela contro qualsiasi uso che altri ne faccia quando siano caratterizzati da particolari deformazioni, combinazioni e […] configurazioni grafiche».

87

Così SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, cit., p. 91; RICOLFI,

Diritto interno e comunitario, cit., p. 53 ss.; e DI CATALDO, I segni distintivi, cit., p. 68-69.

88

Per una rassegna delle fattispecie includibili nella norma in questione, v. RICOLFI, in AA.VV., Diritto

industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., p. 88 ss., e VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p.

178 ss. Sinteticamente, può affermarsi che il divieto di impiegare come marchio la denominazione generica del bene contraddistinto è rispettato quando vengano scelti una parola o un disegno privi di un significato lessicale o semantico precisi (cd. «marchi di fantasia») (per es. «Rolex» per orologi) e quando si scelga un segno che, pur avendo nel linguaggio comune un proprio significato, non presenti, tuttavia, aderenza concettuale con il prodotto contrassegnato (per es. «Strega» per liquori). Inoltre, siccome le regole in commento riguardano solo l’adozione come marchio di contrassegni che consistano «esclusivamente» in denominazioni generiche ed indicazioni descrittive riferibili al bene contrassegnato, è possibile l’adozione di un cd. «marchio espressivo», cioè di un segno che evochi le caratteristiche del prodotto marchiato e che assuma anche un contenuto informativo volto ad orientare gli acquirenti nella scelta della merce (per es. «Bergasol» per creme solari al bergamotto): in tal caso, ai fini del positivo riscontro della presenza di capacità distintiva e della validità di un marchio espressivo denominativo, è sufficiente che la denominazione generica o l’indicazione descrittiva sia oggetto di una modificazione anche modesta o dotata di prefissi o suffissi o combinata con altre parole in modo nuovo e originale. Per quanto riguarda i marchi geografici, secondo la lettera dell’art. 13, co. 1, lett. b) c.p.i. il nome di una località geografica (cd. «toponimo») è incluso tra le indicazioni descrittive se richiama aspetti rilevanti per le caratteristiche qualitative del bene e, di regola, non è registrabile come marchio; tuttavia, può accadere che il luogo di produzione di una determinata merce non esplichi alcun influsso sulla qualità di essa: in tal caso, se il toponimo sia prescelto come nome di fantasia senza alcun tipo di collegamento con le peculiarità merceologiche del prodotto, non vi è alcun ostacolo alla registrazione; altrimenti, nel caso in cui il contrassegno faccia credere che il bene in questione derivi da una località diversa da quella in cui è effettivamente prodotto, l’impedimento ala registrazione proviene dal divieto di adoperare «segni idonei ad ingannare il pubblico sula provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi» ex art. 14, co. 1, lett. b) c.p.i.

178

solo i segni che siano formati «esclusivamente» dalle denominazioni generiche e dalle

indicazioni descrittive sopraelencate

89

, potendo, invece, tali elementi entrare a far parte

di un marchio complesso, le cui altre componenti siano dotate di capacità distintiva

90

.

A completamento dell’analisi della norma, è necessario esaminare concisamente la

sanatoria dell’originario difetto di capacità distintiva (cd. «riabilitazione» del marchio)

(cioè il fenomeno del cd. «secondary meaning»)

91

, previsto all’art. 13 c.p.i. (ex artt. 19 e

47 bis l.m.)

92

, i cui co. 2 e 3 stabiliscono che «possono costituire oggetto di

89

DI CATALDO, op. cit., p. 69-70, afferma che «per denominazioni generiche si intendono i nomi comuni dei prodotti, in quanto adottati come marchio per contraddistinguere prodotti di quel tipo», precisando che le parole o i segni di uso comune possono, comunque, costituire validi marchi per contraddistinguere beni che con quelle espressioni non hanno una immediata relazione lessicale o concettuale. Per es. la parola «latte», che di per sé non potrebbe fungere da valido marchio per merci casearie, potrebbe, invece, validamente dar vita ad un marchio per prodotti di tipo diverso (come per es. articoli da arredamento), dal momento che tale espressione non opera come denominazione del tipo di prodotto, ma come nome di fantasia. Sempre l’Autore asserisce che «per indicazioni descrittive del prodotto o delle sue qualità […] si intendono quelle espressioni che alludono ai caratteri essenziali e alle prestazioni del prodotto». Così, ad es., l’espressione «brillo» non potrebbe costituire valido marchio per prodotti luccicanti, in quanto descrive la prestazione del prodotto. Da ultimo, l’Autore, enucleando la

ratio ispiratrice delle regole in questione, rileva che «all’ordinamento interessa solo che non si crei,

attraverso la registrazione, un diritto di esclusiva su certe parole […], che nel linguaggio comune sono collegate […] al tipo merceologico […] e che, proprio per questo motivo, devono rimanere patrimonio comune».

90

Precisano VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 179, che «l’avvenuta registrazione non comporterà la tutela dell’elemento descrittivo in sé considerato, ma solo quella degli elementi distintivi o della combinazione originale di elementi anche descrittivi».

91

SENA, op. cit., p. 95 così tratteggia la nozione di «secondary meaning»: «Quando un segno, originariamente privo o comunque dotato di scarsa capacità distintiva, in seguito all’uso intenso da parte del suo titolare, alla insistente pubblicità e ad altre circostanze di fatto […], perde il carattere generico o descrittivo per divenire, nell’opinione del pubblico, il segno distintivo dei prodotti o dei servizi di un dato imprenditore, assumendo così un secondo e più specifico significato (secondary meaning) e, quindi, acquistando o rafforzando la propria capacità distintiva, può costituire un valido marchio». In termini simili cfr. anche UBERTAZZI, Commentario breve alla eleggi su proprietà intellettuale e concorrenza,

cit., p. 106, il quale afferma che «il fenomeno del secondary meaning […] ha luogo quando

un’espressione descrittiva, espressiva o, comunque, di uso comune o generico, e, pertanto, non proteggibile quale marchio mantiene il proprio significato originario, ma con l’andar del tempo ne assume un altro, secondario, di segno distintivo della provenienza dei prodotti da una certa impresa: ciò prevalentemente a seguito dell’uso intenso, e per un congruo periodo di tempo, da parte dell’imprenditore e della conseguente associazione creatasi nella mente dei consumatori».

92

È opportuno ricordare come in dottrina, già prima della novella del 1992, che ha innovato profondamente l’art. 19 l.m. e ha introdotto un nuovo art. 47 bis l.m. nel corpo del R.D. 929/42, si discutesse circa la compatibilità del fenomeno del secondary meaning con alcuni principi cardine della materia e, in particolare, con quello che vietava di adottare come marchio «le denominazioni generiche di prodotti o servizi e le indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono». A tal proposito AULETTA-MANGINI, Marchio. diritto d’autore sulle opere dell’ingegno, cit., p. 25 ss., e la maggior parte della giurisprudenza (cfr. Trib. Milano 6.5.1976 e 8.5.1976, in GADI, 1975, n. 427 e 434; Trib. Bologna 17.9.1982, in GADI, 1982, n. 616) negavano che tale istituto (di matrice anglo-sassone) potesse ritenersi

179

registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione,

a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo» e che «il

marchio non può essere dichiarato o considerato nullo se, prima della proposizione della

domanda o dell’eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso

che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo»

93

.

La prevalente dottrina

94

ritiene che il processo di «riabilitazione» di un marchio

Nel documento INDICE SOMMARIO Introduzione (pagine 174-179)