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La passione d’amore, l’insorgere della follia e il rinsavimento di Orlando – la disperazione elegiaca e il furore amoroso di Troiolo

La memoria del Filostrato nell’Orlando furioso

1.3 La passione d’amore, l’insorgere della follia e il rinsavimento di Orlando – la disperazione elegiaca e il furore amoroso di Troiolo

Il racconto dell’amore passionale e della follia di Orlando rivela un protratto ricordo della disperazione elegiaca e del furore amoroso di Troiolo, rappresentati da Boccaccio con puntuale adesione alla fenomenologia del mal d’amore: nella prima apparizione del paladino sulla scena dell’opera, con il soliloquio notturno e il sogno che lo induce all’inchiesta amorosa di Angelica (nel canto VIII), lungo tutto l’episodio dell’impazzimento (nel canto XXIII), fino al rinsavimento (nel canto XXXIX), si scorge una chiara memoria diegetica e testuale dei luoghi del

Filostrato in cui il mal d’amore di Troiolo (amante tormentato lungo tutto il

poemetto con l’unica parentesi lieta del primo convegno erotico con Criseida) conosce eccessi di furore e sgomento.

Luoghi differenti del Filostrato convergono in singoli momenti della narrazione ariostesca, oppure uno stesso luogo viene echeggiato in diversi luoghi del Furioso, mentre la rete intertestuale così individuata lascia emergere protratte sequenze del poemetto intensamente utilizzate da Ariosto (dalla IV, V, VII e VIII parte).

I contatti verbali e stilistici derivano sempre da affinità tematiche: inscritti all’interno di sintonie contestuali di più ampio respiro, mettono in luce una consonanza tra gli episodi verificabile a diversi livelli della costruzione dell’intreccio (descrizione dei sintomi del mal d’amore; intervento della voce narrante; snodi diegetici), con protratte corrispondenze anche sul piano sintagmatico delle due fabule. Il Filostrato non si limita a suggerire le immagini e le figure relative all’amore inteso come passione e follia (soliloqui, sogni premonitori, furore amoroso, trasfigurazione dell’amante malinconico), costituendo il filtro diegetico di archetipi lirici consolidati, ma agisce anche a livello della narrazione, e Ariosto mostra di coglierne e potenziarne gli snodi diegetici stilisticamente più felici. All’interno di una più estesa corrispondenza,

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sull’ottava VII 18 del Filostrato è modellata l’ottava XXIII 112 del Furioso, tematicamente e strutturalmente centrale (il culmine del dolore di Orlando alla lettura dell’epigramma), con perfetta corrispondenza nei margini (anche delle parole-rima baciate), nel contenuto e nell’organizzazione dell’enunciato; mentre l’ottava VIII 9 del poemetto (il riconoscimento del fermaglio di Criseida) è stata puntualmente usufruita da Ariosto in due luoghi tematicamente affini: nella seconda quartina per la vista delle incisioni sugli alberi (Of, XXIII 102) e, nella prima, per il riconoscimento del monile di Angelica (ivi, 120).

I contatti testuali individuati svelano una consonanza tra le due opere che investe in profondità la rappresentazione della fenomenologia erotica. Non vi è dubbio che l’amore di Orlando, come quello di Troiolo, sia desiderio di possesso fisico; per questo rispetto il paladino non è diverso dagli altri pretendenti di Angelica, nonostante la sua più elevata statura morale; il lamento con cui entra in scena, nel canto VIII, oltre il rammarico di non aver saputo proteggere la donna, esprime quello di aver lasciato ad altri cogliere il «fior» («Oh infelice! oh misero! che voglio / se non morir, se ’l mio bel fior colto hanno?», Of, VIII 78)101. La questione investe il significato ideologico del poema: letture interessate ad aspetti diversi della follia di Orlando, e animate da diverse prospettive di interpretazione critica, riconoscono concordi la natura passionale dell’amore del paladino, problematicamente confrontato con le immagini dell’eros che la tradizione lirica cortese e stilnovistica aveva trasmesso alla coeva cultura neoplatonica; significati

101 Per queste ragioni il lamento di Orlando è stato accostato a quello di Sacripante che, nel primo canto del poema, esprime attraverso un linguaggio cortese e stilnovistico un impaziente desiderio erotico; cfr. Bruscagli, Invenzione e ricominciamento nel canto I, cit., p. 68: «Ma si badi che quando Orlando entrerà in scena, al canto VIII, ciò avverrà con un lamento anch’esso pericolosamente dimidiato tra la tonalità lirico-patetica dello stile e la violenza del messaggio, dominato dall’ossessione del “fiore” in pericolo: secondo un’ambiguità perfettamente anticipata in questo primo canto da Sacripante. Fin dall’inizio, dunque, il pericolo di una implosione violenta, distruttiva e autodistruttiva, del codice cortese-cavalleresco è presente nel testo, e la perturbante possibilità di una conversione dell’omaggio amoroso in stupro non configura soltanto un’occasionalità “comica”, ma colpisce al cuore la legittimità, l’integrità, l’attendibilità del mondo di valori su cui era costruito l’Innamorato e su cui, in quanto continuazione, si dovrebbe dare per scontato che anche il Furioso dovrebbe reggersi».

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ed immagini accolti nel poema ma infine sconfessati e smentiti dagli esiti estremi del furore amoroso di Orlando102.

Da questa specola, quella del significato ideologico del poema e della rappresentazione dell’eros in rapporto alla tradizione letteraria, è lecito però ricondurre a Giovanni Boccaccio, dalle opere giovanili ai «piacevoli e aspri casi d’amore» decameroniani, alle origini della tradizione narrativa italiana, la legittimazione della naturalità dell’eros, e non in opposizione alla dimensione spirituale ed intellettuale di esso, ma invece quale radice ineliminabile anche dei sentimenti e delle storie d’amore riconosciuti più eletti103; con inevitabile

semplificazione si intravede un percorso di civiltà che dalla gioiosa ma anche inquietante scoperta della naturalità dell’eros, sempre più di tale naturalità mette in luce gli oscuri aspetti di imprevedibilità e irrazionalità, da cui una problematica sovrapposizione tra l’esperienza dell’eros e l’esperienza della follia.

Il furore amoroso di Troiolo è infine trasposto, nel canto XXIII del

Furioso (e ancor più in quelli successivi), in una rappresentazione eccessiva e

iperbolica che, investita di una carica corrosiva e metaforica inedita, tocca la parodia e il comico, mentre i topoi e i motivi derivati dalla tradizione lirica più antica, mediati dalla retorica romanzesca del Filostrato, vengono saldati per questa via (già con l’immagine oraziana che occupa l’esordio del canto XXIV e poi attraverso l’invenzione lunare, lucianea, albertiana e erasmiana, che consente il rinsavimento di Orlando) alla dimensione satirica, ironica e paradossale in cui la retorica della follia è stata declinata dai settori più lucidi della cultura umanistico- rinascimentale104.

102 Sull’ideologia erotica nel poema cfr. Zatti, Il «Furioso» fra epos e romanzo, cit., pp, 95-8; A. Bonadeo, Note sulla pazzia di Orlando, in “Forum Italicum”, IV, 1971, 1, pp. 39-57.

103 Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, 2 voll., Einaudi, Torino 1992, Proemio, 14 (d’ora in poi Dec.). Per i significati della “natura umana” e le raffigurazioni dell’eros nel

Decameron cfr. A. Asor Rosa, «Decameron» di Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana, cit., Le Opere, vol. I, cit., pp. 473-591: 521-53.

104 Sulle filigrane erasmiane dell’episodio lunare e la bibliografia relativa cfr. R. Anconetani,

L’«Orlando furioso» e l’«Elogio della follia». Alcune note, in “Bollettino di italianistica”, n.s. VI,

72 1.3.1 Il canto VIII

Il soliloquio notturno e il sogno premonitore che induce Orlando all’abbandono del campo cristiano e all’inchiesta amorosa di Angelica echeggiano, alla fine del canto VIII, il rammarico di Troiolo per aver lasciato allontanare Criseida, anch’esso espresso in un soliloquio notturno e poi all’amico Pandaro, e i suoi sogni angosciosi (nelle parti V e VII del Filostrato).

Nonostante il carattere topico della situazione (notte insonne e inquieta dell’amante infelice, soliloquio accorato, sogno premonitore), movenze stilistiche simili e coincidenze verbali consentono di aggiungere il Filostrato alla complessa partitura intertestuale, segnalata dai commenti e illustrata dalla critica, su cui l’episodio ariostesco è intessuto, degna della prima apparizione di Orlando sulla scena dell’opera: l’Orlando innamorato, fonte e modello diretto dell’episodio per la sequenza soliloquio-partenza del paladino105; Virgilio, Ovidio, Dante, Petrarca, Poliziano, Sannazzaro, e ancora Boiardo, che offrono ad Ariosto le figure e il linguaggio del sogno (mentre Rajna ricorda che «di sogni siffatti abbondano i nostri romanzi del ciclo di Carlo»106); reminiscenze letterarie classiche e romanze innestate su stratigrafie culturali complesse, derivate anche dalle teorie mediche e filosofiche107.

105 Cfr. Inn., I ii, 22-28; per questa «strettissima corrispondenza tematica […] sottolineata da non trascurabili contatti linguistici» cfr. Sangirardi, Boiardismo ariostesco, cit., pp. 225-6.

106 Cfr. Rajna, p. 206, che menziona premonizioni o svelamenti onirici che inducono gli eroi a partire; Bigi ridimensiona tuttavia il portato della tradizione carolingia («precedenti poco persuasivi»), e ricorda invece il sogno di Iulio nelle Stanze di Poliziano (II 33-34).

107 Cfr. M. Beer, Il sogno di Orlando, in Ead., Romanzi di cavalleria, cit., pp. 35-81 e S. Longhi,

Orlando insonniato: il sogno e la poesia cavalleresca, Franco Angeli, Milano 1990 (contributi che

propongono valutazioni differenti sia delle fonti sia del significato del sogno ariostesco); è Beer a segnalare un luogo dell’Arcadia di Sannazzaro tra i precedenti del sogno ariostesco (cfr. p. 57); e a p. 38: «Nel sogno di Orlando ritroviamo tutte le componenti che erano confluite dal mondo medievale nella tradizione letteraria romanza del sogno, e ritroviamo anche quella parte di tradizione classica che il medioevo trascurava, passata per il tramite dell’umanesimo»; Longhi, considerando il sogno di Orlando «essenziale nell’economia dell’opera» (p. 9), evidenzia e valorizza il modello e la fonte boiardesca nel suo linguaggio e nei suoi elementi costitutivi, benché nell’Innamorato sia assente il motivo del sogno; il rilievo è funzionale all’interpretazione del sogno, una profezia della follia («strutturalmente, un “argomento” del poema sotto forma di

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Convergono nel lamento e nel sogno di Orlando due diverse zone del poemetto boccacciano: il soliloquio di Troiolo e la confessione a Pandaro della V parte (successivi all’allontanamento di Criseida); il sogno allegorico e la confessione a Pandaro della VII (successivi al mancato ritorno della donna), secondo una fenomenologia della memoria boccacciana variamente verificabile nel poema, in questo caso favorita e determinata dal ripetersi dei medesimi motivi all’interno del Filostrato: si ripetono i contenuti e le movenze del lamento di Troiolo (Fl, V 21, 24-25 e VII 30) e ricorrono i sogni angosciosi e premonitori (Fl, V 19-20 e VII 23-24).

È dunque il piano tematico ad attivare la memoria di Ariosto, il rammarico dell’amante che si pente di non aver trattenuto la donna (in certo modo una specificazione del più generale motivo del dolore per la lontananza dell’amata, da cui il lamento), e il sogno rivelatore; un amante in cui si sovrappongono i tratti dell’innamorato cortese e dell’eroe epico, frizione da cui deriva il contrasto con i doveri di guerriero e di paladino, e l’opposizione all’autorità incarnata da Priamo nel Filostrato, da Carlo Magno nel Furioso.

enigma», p. 28), secondo una modalità propria del sogno epico; la studiosa ricostruisce inoltre la competenza di Ariosto in teoria dei sogni, e lo spazio accordato al loro racconto in seno alla tradizione epico-cavalleresca. Cfr. anche S. Zatti, “I levi sogni erranti”. L’epica moderna fra

profezia politica ed evasione romanzesca, in La metamorfosi del sogno nei generi letterari, a cura

di S. Volterrani, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 30-40; e, per le filigrane petrarchesche nel sogno di Orlando, Cabani, Fra omaggio e parodia, cit., pp. 118, 140 e 163.

74 Il soliloquio

Furioso, VIII 71-78 Filostrato, V 3-5, 17-21, 24-25; VII 30, 32 La notte Orlando alle noiose piume

del veloce pensier fa parte assai.

Or quinci or quindi il volta, or lo rassume

tutto in un loco, e non l’affrena mai:

qual d’acqua chiara il tremolante lume, dal sol percossa o da’ notturni rai, per gli ampli tetti va con lungo salto a destra et a sinistra, e basso et alto.

La donna sua, che gli ritorna a mente, anzi che mai non era indi partita,

gli raccende nel core e fa più ardente

la fiamma che nel dì parea sopita. Costei venuta seco era in Ponente fin dal Cataio; e qui l’avea smarrita, né ritrovato poi vestigio d’ella che Carlo rotto fu presso Bordella.

Di questo Orlando avea gran doglia, e seco

indarno a sua sciocchezza ripensava.

Cor mio (dicea), come vilmente teco

mi son portato! Ohimé, quanto mi grava che potendoti aver notte e dì meco, quando la tua bontà nol mi negava,

t’abbia lasciato in man di Namo porre,

per non sapermi a tanta ingiuria opporre!

Non avea io ragione di scusarme? e Carlo non m’avria forse disdetto: se pur disdetto, e chi potria sforzarme?

chi ti mi volia torre a mio dispetto?

non potea io venir più tosto all’arme? lasciar più tosto trarmi il cor dal petto? Ma né Carlo né tutta la sua gente di tormiti per forza era possente.

Almen l’avesse posta in guardia buona

dentro a Parigi o in qualche rocca forte. Che l’abbia data a Namo mi consona, sol perché a perder l’abbia a questa sorte.

Oh quante cose nell’altiera mente gli venner lì, Criseida vedendo rendere al padre! Questi parimente d’ira e di cruccio tututto fremendo, seco rodiesi e dicea pianamente108:

– Oh misero dolente, or che attendo? non è el meglio una volta morire, che sempre in pianto vivere e languire? Ché non turb’io con l’arme questi patti? Perché qui Diomede non uccido?

Perché non taglio il vecchio che gli ha fatti? Perché li miei fratei tutti non sfido?

Che ora fosser ei tutti disfatti! Perché in pianto ed in dolente grido Troia non metto? Perché non rapisco Criseida ora, e me stesso guarisco?

Chi ’l vieterà s’io il vorrò pur fare?

O perché con li Greci non m’accosto s’ei mi volesser Criseida donare? Deh, perché più dimoro, che non tosto corrò colà e follami lasciare? – Ma così fiero ed altiero proposto gli fe’ lasciar paura, non uccisa Criseida fosse in sì fatta divisa. […]

Se ’l giorno era con doglia trapassato, non la scemò la notte già oscura,

ma fu il pianto e ’l gran duol raddoppiato; così il menava la sua isciagura:

el biastemmiava il giorno che fu nato, e gli dii e le dee e la natura,

il padre e chi parola conceduta avea ch’el fosse Criseida renduta.

Esso se stesso ancor maladicea, che sì l’aveva lasciata partire, e che ’l partito che preso n’avea, cioè con lei di volersi fuggire,

108 Sangirardi, Boiardismo ariostesco, cit., p. 191, avverte un’eco di questo verso in Of, XX 117: «che se stesso rodea d’ira e di duolo»; e XVIII 25: «E sì lo rode la superbia e l’ira» (insieme all’eco di Inn., II iii, 1).

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Chi la dovea guardar meglio persona

di me? ch’io dovea farlo fino a morte; guardarla più che ’l cor, che gli occhi miei: e dovea e potea farlo, e pur nol fei.

Deh, dove senza me, dolce mia vita,

rimasa sei sì giovane e sì bella? come, poi che la luce è dipartita, riman tra’ boschi la smarrita agnella, che dal pastor sperando essere udita, si va lagnando in questa parte e in quella; tanto che ’l lupo l’ode da lontano, e ’l misero pastor ne piange invano.

Dove, speranza mia, dove ora sei?

vai tu soletta forse ancor errando? o pur t’hanno trovato i lupi rei

senza la guardia del tuo fido Orlando? e il fior ch’in ciel potea pormi tra i dèi, il fior ch’intatto io mi venìa serbando per non turbarti, ohimè! l’animo casto, ohimé! per forza avranno colto e guasto.

Oh infelice! oh misero! che voglio

se non morir, se ’l mio bel fior colto hanno?

O sommo Dio, fammi sentir cordoglio prima dogn’altro, che di questo danno. Se questo è ver, con le mie man mi toglio

la vita, e l’alma disperata danno. –

Così, piangendo forte e sospirando,

seco dicea l’addolorato Orlando.

[segue, dopo il notturno virgiliano, la descrizione del sogno]

non l’avea fatto, e forte sen pentea, e di dolor ne voleva morire;

o che almen non l’avea domandata,

che forse gli saria stata donata.

E sé in qua ed ora in là volgendo, sanza luogo trovar per lo suo letto,

seco diceva talora piangendo:

«Che notte è questa, volendo rispetto avere alla passata, s’io comprendo qual’ora or sia! Aguale il bianco petto, la bocca, gli occhi e ’l bel viso basciava della mia donna e stretta l’abbracciava.

Ella basciava me, e ragionando prendevam festa lieta e graziosa; or sol mi trovo, lasso, e lagrimando, in dubbio se giammai tanto gioiosa notte deggia tornare; ora abbracciando vado il piumaccio, e la fiamma amorosa sento farsi maggiore, e la speranza farsi minor per lo duol che l’avanza.

Che farò, dunque, misero dolente? Aspetterò, pur ch’io ’l possa fare; ma se così s’attrista la mia mente nel suo partir, come perseverare io spero di potere? Egli è niente a chi ben ama il potersi posare». Per che ’n tal guisa fece il simigliante la notte e ’l dì ch’era passato avante. […]

[rivolto a Pandaro, la mattina seguente]

Io non la credo riveder giammai; così foss’i’ allor caduto morto, che io da me partir ier la lasciai! o dolce bene, o caro mio diporto, o bella donna a cui io mi donai, o dolce anima mia, o sol conforto degli occhi tristi fiumi divenuti,

deh, non ve’ tu ch’io muoio? Ché non m’aiuti?

Chi ti vede ora, dolce anima bella? Chi siede teco, cuor del corpo mio? Chi t’ascolta ora, chi teco favella? Oimè lasso più ch’altro, non io!

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Deh, che fai tu? Or ètti punto nella

mente di me, o messo m’hai in oblio per lo tuo padre vecchio ch’ora t’have, laond’io vivo in pena tanto grave? […]

[nella parte VII, dopo la descrizione e l’interpretazione del sogno]

Oh me, perché andar mai ti lasciai? perché credetti al tuo consiglio rio? perché con meco non te ne menai? com’io aveva, lasso, nel disio? perché li patti fatti non guastai, come nel cuor mi venne allora ch’io ti vidi render? Tu non disleale saresti e falsa, né io tristo aguale. […]

Che farò, Pandaro? Io mi sento un foco di nuovo acceso nella mente forte, tal ch’io non truovo nel mio pensier loco

io vo’ con le mie man prender la morte,

ché ’n tal vita più star non saria gioco; poi la Fortuna a sì malvagia sorte recato m’ha, il morire fia diletto, dove il viver saria noia e dispetto. –

[segue il tentativo di suicidio]

La notte significa sia per Troiolo sia per Orlando un prolungamento e un aumento dell’angoscia diurna (Fl: «Se ’l giorno era con doglia trapassato, / non la scemò la

notte già oscura, / ma fu il pianto e ’l gran duol raddoppiato»; Of: «La notte

Orlando alle noiose piume / del veloce pensier fa parte assai»; «La donna sua, che gli ritorna a mente […] / gli raccende nel core e fa più ardente / la fiamma che nel dì parea sopita»; «Di questo Orlando avea gran doglia»; e, nella parte VII, l’immagine del «foco / acceso nella mente forte»; e cfr. ivi, 67: «L’udir talvolta nominare il loco / dove dimori, […] / […] mi raccende il foco / nel cor mancato per troppo dolere», con espressione coincidente al dettato ariostesco); insonni (Fl: «E sé in qua ed ora in là volgendo / sanza luogo trovar per lo suo letto»; «tal ch’io non truovo nel mio pensier loco»; Of: «La notte Orlando alle noiose piume /

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del veloce pensier fa parte assai. / Or quinci or quindi il volta, or lo rassume / tutto in un loco, e non l’affrena mai», ove il poemetto può aver mediato la reminiscenza virgiliana e petrarchesca nella trasposizione preziosa che rende il letto partecipe dei pensieri turbati109), i due si abbandonano a soliloqui riportati in modo diretto (Fl: «seco diceva talora piangendo»; Of: «seco dicea l’addolorato Orlando»), contrappongono alla separazione il ricordo della vicinanza lieta (Fl: «“Che notte è questa, volendo rispetto / avere alla passata, s’io comprendo / qual’ora sia!»; Of: «Ohimé, quanto mi grava / che potendoti aver notte e dì meco, / quando la tua bontà nol mi negava, / t’abbia lasciato», dove Orlando, illudendo se stesso, accenna ad una disponibilità erotica della donna – da cui l’ironia dell’episodio110–, mentre Troiolo ricorda la notte d’amore appena trascorsa); e

rimpiangono di non aver impedito l’allontanamento della donna (Fl: «Esso se stesso ancor maladicea, / che sì l’aveva lasciata partire»; «così foss’i’ allor caduto morto, / che io da me partir ier la lasciai», rivolto a Pandaro; «Oh me, perché andar mai ti lasciai?»; Of: «Di questo Orlando avea gran doglia, e seco / indarno sua sciocchezza ripensava / […] Ohimé, quanto mi grava / che […] /

t’abbia lasciato in man di Namo porre»; Fl: «non l’avea fatto, e forte sen

pentea»; Of: «e dovea e potea farlo, e pur nol fei» – con eco anche ritmico- sintattica del verso boccacciano), quando altre vie e altre soluzioni sarebbero state possibili; elencano le alternative non percorse (Fl, V 4-5, 18, VII 30 e Of, VIII 74- 75) e diversamente preferibili con simili interrogative (Fl, V 24-25 e Of, VIII 76- 77) e simili strutture sintattiche e di pensiero (Fl: «o che almen non l’avea

domandata»; Of: «Almen l’avesse posta in guardia buona»). Le movenze accorate

con cui i due si interrogano sul destino della donna si corrispondono per alcune