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I PAVIMENTI ROBBIANI DEL VATICANO

Nel documento ARTE ITALIANA (pagine 108-111)

v. Tavola 50

tistico Industriale di Napoli e per il suo direttore tecnico, Cav. Tesorone, nessuno quasi rammentava che il Vasari ave­

va scritto aver Raffaello fatto finire con tanta perfezione il lavoro delle Loggie, « che sino da Fiorenza fece condurre il pavimento da Luca della Robbia ».

Penetrato peraltro nel Vaticano, per il tramite d in­

signi artisti, il desiderio di conservare i pregiati monumenti che ornano quel palazzo, nel quale ogni papa ha lasciato orma gloriosa del suo pontificato, e sottratte che furono le Loggie dell’Urbinate a sicura rovina, mercè sapienti lavori di conservazione, si venne a convincersi che l’odierno pavimento di marmo bianco deturpava le Loggie. Quel pavimento fu sostituito all’altro di maiolica, lavorato da Luca della Robbia, frate di San Marco e nipote del glo­

Monsignor Ruffo-Scilla, Prefetto dei SS. Palazzi Apo­

stolici e Maggiordomo di S. Santità, il quale si è reso così benemerito dell’arte per tanti lavori ordinati e condotti a termine sotto la sua illuminata amministrazione e che vagheg­

giava di veder rintracciato l’antico pavimento, ordinò che si cercassero le mattonelle nel luogo indicato ; ma quelle non furono trovate. Peraltro nel frugare in ogni luogo, si rinvenne un mattonato robbiano nella camera di un fami­

liare, attigua alle Loggie, e precisamente dietro la Sala cosidetta dei « Chiaroscuri». Quella camera grandissima, che secondo le memorie storiche, serviva di abitazione a Giulio II della Rovere e forse a Leone X, ora era in uno stato mi­

serando. Il ricchissimo soffitto di quercia a cassettoni con ornamenti di rosso e d’oro era stato distrutto per metà ; la sala era divisa in due da una parete e il pavimento aveva perduto in molti punti lo smalto per il continuo attrito. Il

prof. Tesorone del Museo Artistico Industriale di Napoli riconobbe subito che quel pavimento era di fabbrica rob­ che il secondo Luca fece di sua mano per ordine di Leone X, oltre a molte altre opere, i pavimenti delle Loggie papali, e quelli ancora di molte camere dove fece le imprese di quel pontefice. Esaminato accuratamente il pavimento, si vide che era intatto per la costruzione e che nel centro aveva un grande stemma, sul quale non v’era più traccia di smalto. Questo pavimento (v. fig. 174) è di mattonelle a losanga verdi, azzurre e gialle di nove centimetri e mezzo di lato, aggruppate tre per tre in guisa da formare, così unite, un esagono rego­

lare. Torno torno alla sala corre una doppia greca bianca e azzurra, interrotta in un punto dall’impresa di Leone, come dice il Vasari e non dallo stemma, cioè dal giogo sul quale leggesi la parola SVAVE, che fa parte del motto « jugum meum suave est, et onus meum leve ». Agli angoli vi è una mattonella quadrata con le penne medicee, l’anello col diamante e uno svolazzo bianco con l’iscrizione « Semper ».

Questa scoperta, importantissima perchè non credo vi sia altrove un autentico pavimento robbiano così completo, era molto, ma non era tutto. Si frugò ancora, nella Biblio­

teca Vaticana, per cercar documenti, si frugò dagli artisti e dagli antiquarj, e sopratutto nel Palazzo pontificio, e dopo incessanti ricerche, si trovò appunto nel ballatoio sopra indicato una mattonella del fregio delle Loggie di Raffaello (v. fig. 176) quale la ricordavano i pochi che avevano me­

moria dell’antico pavimento. Essa è ornata da due tronchi di rovere intrecciati in guisa da formare un 8. Questi tronchi verdi son posati su fondo bianco e hanno un circolo giallo nell’interno e in mezzo a questo un disco di color giaggiolo con un accenno di giallo nel mezzo.

La mattonella rintracciata era intatta, come documento era pregiatissima, e basandosi su questa e sui ricordi che serbavano artisti e impiegati del Vaticano dell’antico pa­

vimento il prof. Tesorone, intraprese un sapiente lavoro antico, e possibilmente del medesimo disegno di quelli fatti

DECORATIVA E INDUSTRIALE 107 eseguir e da Raffaello ». Questo permesso accordato dal papa

aveva infiammato il Tesorone, il quale si era gettato nel quanti hanno amore e cognizione degli insigni monumenti Vaticani, è pure riprodotto il pavimento di Giulio II, come si vede nella nostra fig. 174 e i due fregi delle fig. 175 e 176 che fanno da bordura al pavimento della cappella di Santa Caterina a San Silvestro al Quirinale di Roma, poichè il Tesorone ritiene che essi sieno robbiani non solo perchè portano le imprese dei Medici e perchè la tecnica li dimostra tali, ma anche per il fatto che si sa essere seppellito in quella cappella certo frate Mariano Fetti, famigliare di Leon X. Si vuole che questo papa, affezionatissimo al Fetti, facesse portare in quella cappella gli avanzi dei pavimenti fatti per le stanze Vaticane. Ad avvalorare questa notizia sta il fatto che le mattonelle azzurre del fondo son disposte senza ordine e che il fregio ora ha il fondo azzurro ed ora lo ha verde e tutto il pavimento è distribuito senza criterio di decorazione. Nel fondo, oltre le mattonelle azzurre di più toni, una targa azzurra a forma di vela quadra, su cui sono dimensioni non potevano corrispondere a quelle delle Loggie, era un dato fatto di per sapere come Raffaello per il disegno

architetto dei SS. Palazzi Apostolici il primo, e sotto direttore dei Musei Vaticani il secondo, presentarono frammenti di altre mattonelle robbiane rinvenute in alcune fogne del cortile del Belvedere, sottostante al ballatoio di cui ho tenuto parola, che confermavano in gran parte le supposizioni del prof. Tesorone e fornivano inoltre nuove e più sicure basi per la ricostruzione del pavimento.

In seguito a queste scoperte i membri della commis­

sione deliberarono di fare dei saggi di restituzione del mat­

tonato e, ultimate le ricerche, di accordare al Museo di Napoli di fare un saggio di pavimento di uno degli scom­

partì delle Loggie. Il lavoro di ricerche fu diviso fra i componenti la commissione ; chi doveva indagare se al­

l’estero vi fossero opere illustrative delle loggie, chi ricer­

care le mattonelle, chi frugare nelle biblioteche romane, e spese dell’E.mo Signor Cardinale Silvio Valenti Gonzaga, segretario di Stato della S. M. di Benedetto XIV, e dal-l’E.mo nipote di lui Cardinale Luigi bibliotecario di S. E., e protettore della Biblioteca Vaticana, donati a questa l’anno 1802 nel giorno medesimo nel quale n ’ebbe il solenne possesso ». porte dei tredici scomparti di ognuna delle due Loggie. Il disegno è eseguito con una precisione e con un senti­

mento d’arte così vivi, da porre in rilievo ogni più minuto particolare.

Sventuratamente non c’è che una facile ammettere che una cinquantina d’anni prima fosse già per metà rovinato. È dunque molto probabile che il La Vega abbia riprodotto quello scomparto che aveva meno sofferto.

Come si farà a riprodurre il pavimento, mi dirà qual­ Silvestro. Due altri frammenti poi, rinvenuti dagli stessi signori attestano che la greca del fondo era gialla e i pic­

coli campi azzurri e giaggiolo. Le imprese ai quattro an­

goli, con le penne, il giogo e Panello, le abbiamo pure nel mattonato di San Silvestro, e i della Robbia erano troppo fedeli imitatori di sè stessi perchè abbiano alterato di molto la disposizione dei colori. Il fondo poi, come disse il Tesorone nella Memoria, doveva esser azzurro, perchè azzurri sono i campi delle vòlte e perchè il predominio dell’azzurro lo rammentano persone che hanno memoria del pavimento.

Ora, dunque, quando la commissione si riunirà, non potrà avere più scrupoli e fra non molto il pubblico intelligente d’arte avrà la soddisfazione di vedere nelle magnifiche Loggie uno scomparto almeno del pavimento fatto sul disegno del­

l’Urbinate, che armonizzerà con le pitture e gli stucchi e

175-LII.

DI A L C U N E O P E R E I N F E R R O

nel Museo A rtistico Industriale di R o m a

vedi Fig. 177 a 180 e Dett. 34 —

1 Lamour, uno dei più illustri magnani francesi del XVII secolo, lasciata per un istante la mazza, si è tolto in mano la penna per discorrere dell’arte sua e le ha sciolto un cantico, capace di cuoprire il ruggito del mantice e lo strepito dell'incudine, cantico che leg­

giamo riprodotto nella Histoire ar- tistique du métal del Ménard. L ’esimio fabbro che scrive come massella, a gran colpi, dice presso a poco : la fucina del magnano sta alle altre invenzioni sociali, come il genio sta alla scienza. Essa ne è l’anima e la forza ; nes­

suna può farne senza e tutte le ha precedute per aiutarle a nascere. Cerere dà il pane ai Ciclopi, perchè le avevan fabbricato l’aratro. Enea arresta fra il fuoco e i combat­

tenti i fuggitivi trojani, perchè indossa armi fabbricate dal manto della madre, divina peccatrice dell’Ida.

L’arte di battere il ferro ha, quando vuole, l’energia della pittura, l’arditezza della scultura e sopratutto la so­

lidità di quest’ultima. Tutto ciò che esce dalle sue mani è un monumento : vedetela nei nostri palazzi, nei nostri tempi, nelle nostre piazze pubbliche. Ma anche spogliandola di queste opere monumentali, consideratela nelle sue ordinarie manifestazioni: una chiave è la garanzia preziosa della se- curtà pubblica : presso i romani una donna sorpresa con una chiave adulterina, poteva esser messa a morte dal ma­

rito, specialmente se la chiave apriva la porta della cantina.

Di qui il famoso calembour di Ovidio :

« Nomine cum doceat quid agamus, adultera clavis. »

Ma lasciando le fan­

tasie, certo è che nei tempi propizi all’arte, molti fab­

bri quanto modesti altret­

tanto valenti, lavorando cardini, serrami, toppe, chiavi, battitoj seppero col martello e colla lima pie­

gare la ribelle natura del ferro alla più squisita ele­

ganza di linee e di con­

torni, elevando il mestiere del magnano a tali altezze da renderlo rivale delle arti più nobili.

In moltissimi paesi di Europa sino dal XII secolo, si eseguivano in ferro la­

vori d’arte che, come osserva Viollet le Duc, divengono meravigliosi nei secoli XV e XVI. Ricordando le cancellate del sepolcro di Massimiliano a Inspruck, delle cattedrali di Monaco e di Augustemburgo, volgendo il pensiero alle fa­

mose rejas delle cattedrali spagnuole, ai pulpiti di ferro battuto dei templi di Toledo, di Burgos, di Barcellona, ai

lavori della chiesa di Nôtre Dame, si comprende con quanta sapienza gli architetti si servivano del metallo meno nobile per abbellire e arricchire le loro costruzioni. L ’Italia si vanta delle inferriate che circondano a Verona le tombe dell’ospitale famiglia

« che in su la scala porta il santo uccello »

e quella che custodisce la Cappella nella piazza del campo a Siena. Le decorazioni del sepolcro di Cosimo il vecchio, opera di Andrea del Verrocchio in San Lorenzo di Firenze, la inferriata che protegge il Tesoro della Marciana in Ve­

nezia, sono di una lega di ferro con altri metalli, ideata per ottenere decorazioni più ricche e sfarzose. Anche le famose

campanelle che Giacomo Cozzarelli ideò per il palazzo del magnifico Pandolfo Petrucci a Siena sono di bronzo, ma lavoro di ferro tirato di martello sono gli ornamenti che, per ordinazione del Cronaca, eseguì nel palazzo di Filippo Strozzi, Nicolò Grosso, spirito bizzarro fiorentino. Infatti apprendiamo dal Vasari che Simone detto il Cronaca, perchè nel palazzo « ogni cosa corrispondesse, fece fare per ornamento di esso ferri bellissimi per tutto e le lumiere che sono in sui canti; e tutte furono da Nicolò Grosso Caparra, fabbro fiorentino, con grandissima diligenza lavo­

rate. Vedesi in quelle lumiere maravigliose le cornici, le colonne, i capitelli e le mensole saldate di ferro con mara- viglioso magistero ; nè mai ha lavorato moderno alcuno di ferro machine sì grandi e sì difficili con tanta scienza e pratica ».

Fig. 177.

Fig. 178.

DECORATIVA E INDUSTRIALE 109

giose, di avvento di grandi personaggi, gittare un damasco, un broccato, un cammellotto, forse anche un’arazzo, per guernire la casa e far onore al Santo o al barone.

Il Museo stesso possiede una raccolta ricchissima di chiavi, di serrature, di battenti, appartenuta ad un bene­

merito collezionista abruzzese, il Conte Cesare Pace, ra­

pito non ha guari all’affetto della famiglia e degli amici, e da essa potrà questo giornale trarre larga messe di m o­

desti artefici, pregevoli e rari. Intanto trascriviamo qui l’elenco dei ferri riprodotti nella tavola N. 34 disegnati dall’alunno del Museo, Alberto Pagliocchini :

Due piccoli torcieri per esterno di finestra, secolo XV.

Due piccoli ferri da stendere panni terminanti in testine di animali, secolo XV.

Nella nona cappella di San Petronio, a sinistra entrando, non si trovano oggetti di grande considerazione per arte o per istoria. Poco notevoli, come opera di scultura, i monu­

menti a Giovanni e ad Andrea Barbazza, poco geniale l’Arcangelo Michele, pittura sdolcinata e languida di Dionigi Calvart. Anche i tre tondi quattrocentisti della vetriata non sono de’ migliori della basilica.

La cappella Barbazza sarebbe dunque delle più misere, anzi la più misera e squallida di tutte, se non fosse, dirò così, nobilitata da un gioiello di cancellata di ferro battuto o « fucinato », col fregio di legno rivestito in parte di la­

minette.

Il graticcio che protegge l’ingresso e forma la parte es­

senziale della cancellata stessa, è di ferri attortigliati disposti inversamente diagonali. La porta è architettonicamente determinata da un’arco, fermato da due primule o rose selvatiche alle spranghe laterali. Sull’arco poi, da due altre rose, si schiude un cespuglio, a’ cui lati campeggiano due

Il Fantuzzi negli Scrittori bolognesi riproduce mala­

mente quest’epigrafe chiudendola così « HOC S. OPVS B. M. F . » !

Sopra e sotto all’iscrizione ricorrono altri listelli. Il coro­

namento superiore è finalmente fatto con un cordone di legno, sul quale sono inchiodate foglie d’alloro, sempre bat­

tute in lamina. Più d’ogni descrizione vale però il disegno che illustra questo cenno.

Invece noterò alcune cose utili all’artista.

Avanti tutto, non deve sfuggire la grande semplicità e parsimonia del lavoro, che si può dire « ottenuto coi mi­

nimi mezzi ». Nessuna sovrabbondanza d’ornamento, nessun lusso : tutto all’incontro si svolge sulle parti organiche della cancellata stessa.

Inoltre rimangono quà e là tracce evidenti di poli­

cromia, che doveva ingentilire l’ opera di ferro e darle vivacità e splendore. Fiori, foglie, ornati, tutto era dipinto, e dipinti indubbiamente i due stemmi oggi scomparsi e che si potrebbero rifare, accettando i due stemmi di casa Barbazza : il primo, trinciato di rosso e di verde con una sbarra d’oro ; l’altro, uguale in fondo ma ratellato di nero, se pure in questo non andrebbe meglio lo stemma pepo- lesco, a scacchi, di Margherita Pepoli moglie del Barbazza.

La data del lavoro può determinarsi benissimo al de­

cennio 1480-1490. Andrea Barbazza, nato a Messina nel 1399 o nel 1400, era venuto a Bologna nel 1425 a studiarvi me­

dicina, poi legge. Insegnò prima a Ferrara, poi tornato a Bologna ebbe titolo di cittadino. Acquistò la sua fama inse­

gnando Gius Canonico. Nell’epigrafe prodotta è chiamato equite aurato, perchè fu cavaliere e consigliere del re di Aragona. Finalmente morì di ottant’anni il 28 luglio 1479.

Di poco gli sopravvisse la moglie, già vecchissima in quel- l’ anno. Così si determina il tempo in cui fu operato il cancello della cappella Barbazza di S. Petronio.

Sperandio fece la medaglia di Andrea, rara e bella.

Co r r a d o Ric c i.

Nel documento ARTE ITALIANA (pagine 108-111)