• Non ci sono risultati.

iam pedes: Anfiarao era stato inghiottito dalla terra nel pieno della battaglia ed era disceso agli Inferi con carro e cavalli (Theb 7 819s non

quality, the witnessing of which brings some kind of satisfaction and pleasure” (Theb 1 86 quod cupiam vidisse nefas) 105 a chi lo ha

87 iam pedes: Anfiarao era stato inghiottito dalla terra nel pieno della battaglia ed era disceso agli Inferi con carro e cavalli (Theb 7 819s non

arma manu, non frena remisit: / sicut erat, rectos defert in Tartara currus e Smolenaars ad loc.). I V.S. del Barth commentano a iam pedes: “equi enim prius moriuntur, minus vivaces homine”, che corrisponde a Theb. 10. 202-5 modo me sub nocte silenti / ipse, ipse adsurgens iterum tellure soluta, /

204: “the gloom of the underworld had touched only his team of horses”); il carro ritorna in tutta la sua imponenza, invece, a Theb. 10. 211s. dixit, meque haec ad limina visus / cuspide sublata totoque impellere

curru (Anfiarao esorta Tiodamante all'attacco notturno); vedi anche Ov.

Ars 3. 14 vivus et in vivis ad Styga venit equis. Qui, comunque, intenderei

iam pedes come riferito, piuttosto, ad Anfiarao che, disceso dal carro, abbandona la posa del guerriero in battaglia (per la quale vedi 128 e nota) con la quale aveva terrorizzato i defunti (3s.) e, disponendosi ad apostrofare il sovrano dell'Ade, assume un'atteggiamento dimesso e appropriato alla condizione di supplice: per la rappresentazione di Anfiarao pedes e supplice dinanzi al trono di Dite vedi LIMC 1. 2. 569; vedi anche i Troiani che, conclusa la battaglia, scendono da cavallo per ascoltare il discorso di Ettore in Il. 8. 492.

87ss.: l'aspetto oscuro e dimesso di Anfiarao agli Inferi è il negativo della gloriosa e “teatrale” (Micozzi) apparizione del vate descritta nel catalogo delle forze argive (Theb. 4. 214ss.): il poeta si sofferma, in tutti e due i casi, sui segni esteriori della santità del vate che, fulgenti e vigorosi al momento della partenza verso Tebe (vedi Theb. 4. 216-18 vatem cultu

Parnasia monstrant / vellera: frondenti crinitur cassis oliua, / albaque punicea

interplicat infula cristas), appaiono, nell'Ade, sopraffatti dall'opacità della morte (vedi infra, note a 88, 88s., 89). Anfiarao ha portato con sé agli Inferi il corredo sacerdotale, vedi Theb. 9. 653ss. ipse (scil. Apollo)…

inritus arma / cultoris frondesque sacras ad inania vidi / Tartara … descendere

e non c'è incoerenza con Theb. 7. 784 accipe … capiti decus / accipe laurus, /

quas Erebo deferre nefas, dove il vate si limita a offrire, con gesto formale di devozione, le insegne sacerdotali prima di essere inghiottito dalla terra (Dewar e Smolenaars; contra Heuvel a Theb. 1. 42). La persistenza delle insegne sacerdotali, e con esse dell'identità del “vate” Anfiarao, rimanda a Soph. El. 841, dove πάμψυχος νάσσει ἀ indica che egli, nel pieno possesso delle proprie facoltà “spirituali” dopo la caduta (Finglass a Soph. cit. “Amphiaraus mantains the power of his whole ψυχή”), è destinato a regnare sui defunti (vedi 191ss. e nota ad loc.); d'altra parte, Anfiarao apparirà qualis erat nella visione profetica del vivente Tiodamante (Theb. 10. 204; Hardie 1993, 113 rimanda, per contrasto, all'apparizione di Ettore ad Enea in Aen. 2. 268ss.: “Unlike Hector he [scil. Amphiaraus] has suffered no diminution in appearance – or potence – on leaving the world above”); più in generale, è la persistenza dell'identità nella morte a presentarsi come tema ricorrente nella Tebaide (Hardie 1993, 48), accomunando Tideo-cinghiale (Theb. 8. 753 seseque

agnovit in illo, di Tideo che si riconosce in Melanippo paragonato a un cinghiale), l'eroe-fanciullo Partenopeo (Theb. 12. 806 consumpto servantem

biancore delle insegne sacerdotali, che resistono all'assalto della morte, può essere intesa come estensione del motivo epico del corpo che, anche dopo morto, continua ad avere manifestazioni vitali (vedi nota seguente).

87 extincto ... in ore: la presenza fisica di Anfiarao tende a scomparire; il vate è più simile alle ombre che ai viventi. Il nesso extincto in ore suggerisce l'interruzione delle funzioni vitali e sacerdotali, con os che allude sia al volto, icona del personaggio e della sua funzione, che si consuma fisicamente, sia alla parola profetica del vate, destinata, nell'Ade, ad estinguersi insieme alla sua fisicità, vedi 92s.; 115ss.; per “the general idea of death cutting off words and sounds”, vedi Williams a Theb. 10. 275-6. La sopravvivenza dell'honos augurii dopo la caduta nell'Ade e la morte di Anfiarao rappresenta una variazione dell'immagine epica secondo cui, dopo la morte del corpo, si verificano ancora manifestazioni vitali in una delle sue parti, vedi ad esempio Theb. 8. 442s. illa (scil. dextra ex umero recisa) suum terra tenet improba ferrum / et

movet; etc.; Stazio sembra avere una preferenza per simili estensioni patetiche del motivo, vedi Theb. 11. 56 iam gelida ora tacent, carmen tuba

sola peregit (il suono della tuba sopravvive al trombettiere ucciso).

87s.: tamen interceptus ... / augurii perdurat honos: “sensus est: honos, quamquam ore in extincto interceptus, perdurat tamen” (Hill in app.); l'antecedente concessivo di tamen è rappresentato dal nesso preposizionale in + ablativo (exstincto ... in ore), per il quale vedi Cic.

Fam. 2. 16. 5 in communibus miseriis hac tamen oblectabar specula; Sall. Jug. 55. 1 in advorso loco, victor tamen fuit; K-S II.2, 98s., vedi anche LHS II 495s. L'honos augurii è, in primo luogo, la dignità sacerdotale di Anfiarao in senso astratto (per honos=”inner quality” vedi Silv. 4. 2. 43s. ore nitebat

dissimulatus honos e Van Dam a Silv. 2. 3. 65), che sopravvive alla morte del corpo e continua a nobilitare l'ombra del vate: interceptus, in senso proprio auferre, quindi sottrarre, catturare e portare via (TLL 7.1. 2164ss.) suggerisce che la morte interrompa la funzione augurale, privando Anfiarao delle sue funzioni; nel contempo, perdurat indica chiaramente che l'honos augurii permane e si materializza negli attributi sacerdotali, descritti di seguito in dettaglio (vedi 88s.). Perifrasi con honos indicano spesso in Stazio le insegne sacerdotali, vedi Theb. 2. 100 vittarum ... honos; 8. 277; 10. 255s. honorem / frontis; Silv. 2. 1. 26; 5. 5. 28-9 nec solitae mihi

vertice laurus, / nec frontis vittatus honos; per le insegne di Anfiarao vedi

Theb. 3. 566ss.; Brinkgreve ad Ach. 1. 11; per le insegne sacerdotali in generale, bibliografia in EV II 854s. Poco soddisfatto dal senso di

interceptus honos, Barth emendava elegantemente in indecerptus (SB: “the symbol of prophecy that none has plucked away”), che ha attratto i

critici; vedi anche Damsté 1909, 83s., secondo il quale tamen depone a favore della congettura. L'aggettivo congetturato dal Barth, composto di

in privativo e il raro decerpo (presente due volte in Stazio: Theb. 6. 164s.,

Silv. 5. 3. 43; per la coniazione e/o l'introduzione in poesia epica di composti di in- privativo vedi Williams a Verg. Aen. 5. 202) sarebbe, però, un'hapax in tutta la letteratura latina. Fra i composti affini di Virgilio, Ernout 1970, 201 registra “cas précis ou le mot concerné ne figure pas d'ailleurs”, ma in Stazio gli aggettivi con in- privativo sono sempre a) rari, ma con precedenti nell'uso poetico; b) con precedenti in prosa e introdotti da Stazio in poesia (inhonorus; Theb. 7. 151); c) presenti solo in Stazio (neo-coniazioni?), ma ripetutamente (insatiatus, Theb. 7. 11s.). In teoria, la rarità di indecerptus potrebbe averlo esposto a corrompersi nel più comune interceptus (un caso di probabile neo- coniazione staziana corrotto nei mss. è discusso da Micozzi a Theb. 4. 203, dove però la lezione giusta è conservata da tradizione indiretta), ma l'introduzione nel testo per congettura di un'hapax assoluto è da considerare con cautela. L'antitesi che oppone interceptus a perdurat (per l'immagine data da perduro in ore vedi Silv. 1. 2. 277 sic flore iuventae

perdurant vultus) è la prima di una serie di accostamenti fra aggettivi che suggeriscono la scomparsa (obscura, morientis) e verbi che si riferiscono al perdurare di manifestazioni di vitalità (manet, tenet), sottolineando il contrasto fra estinguersi del corpo e permanere della dignità e dei simboli sacerdotali. La sacralità del sacerdozio preserva egualmente le spoglie mortali di Meone dopo il suicidio, vedi Theb. 3. 111s. durant

habitus et membra cruentis / inviolata feris.

88s. obscura ... / vitta: assimilandosi all'ambiente infernale, le bende sacerdotali di Anfiarao assumono un colore cupo: i paramenti di colore scuro hanno altrove associazioni infernali (Ov. Met. 14. 45 Hecateia

carmina miscet / caerulaque induitur velamina...; Theb. 4. 449 fera caeruleis

intexit cornua sertis) e/o luttuose (Verg. Aen. 3. 64 stant Manibus [scil.

Polydori] arae, / caeruleis maestae vittis; caeruleis=nere, vedi Serv. ad Aen. 7. 198; TLL 3, 103, 71ss.; vedi anche Aen. 2. 221 perfusus sanie vittas atroque

veneno, con eziologia del colorismo scuro), ma qui il mutamento delle bende contrasta soprattutto con il bianco che contraddistingue i favoriti degli dei, specialmente i sacerdoti (Cic. De leg. 2. 18. 45 color autem albus

praecipue decorus deo est; Servio ad Aen. 10. 539; Timpanaro 2001, 69), anche agli Inferi: vedi Verg. Aen. 6. 665 (castis sacerdotibus) nivea

cinguntur tempora vitta; Val. Fl. Arg. 1. 839 seu venit in vittis castaque in

veste sacerdos. Il colorismo scuro delle bende approfondisce qui il contrasto fra la nuova condizione di defunto e il glorioso passato di Anfiarao da vivo, di cui la luminosità dei paramenti è emblema, vedi

gemini vates, Anfiarao e Melampo) tempora vittis; Theb. 6. 330s. ipse habitu

niveus, nivei dant colla iugales / concolor est albis et cassis et infula cristis; Ahl 1986, 2868. L'attenzione per il biancore delle insegne al momento della morte è uno spunto virgiliano, vedi Aen. 10. 538s. infula cui sacra

redimibat tempora vitta, / totus conlucens veste atque insignibus albis, in cui la luminosità della figura sacerdotale di Emone rende più forte il contrasto con la sua uccisione (Delvigo 1987, 67) ed è sopraffatta dall'ombra della morte (v. 541 ingenti umbra tegit): Stazio elabora il motivo facendone parte della lotta fra l'oscurità infernale e l'honos augurii (88) e accentuando l'impressione di malinconica resistenza di quest'ultimo dinanzi all'addensarsi della morte. Per manet come segnale della persistenza oltre la morte vedi Theb. 11. 568 vivisne an adhuc manet ira

superstes; Val. Fl. Arg. 3. 384 ira manet duroque dolor, dove però si tratta dell' ”anger [that] survives the tomb” in cui si manifesta il potere della Furia sull'epica (vedi Hardie 1993, 78).

89 tenet morientis olivae: “trattiene il ramo dell'ulivo morente”. Anche l'ulivo, “part of the regular equipment of a priest” (Snijder a Theb. 3. 466), va consumandosi nella diafana atmosfera infernale. tenet non è “tiene in mano” ma, poiché il ramo sacro si trova sull'elmo del vate (Theb. 4. 217 frondenti crinitur cassis oliva e infra), il verbo sarà da intendere nel senso di retinere=“trattiene, mantiene”: per un uso analogo del simplex pro composito vedi, ad esempio, Verg. Aen 11. 148 at non

Evandrum potis est vis ulla tenere; Mart. 7. 44. 2 Maximus … Caesonius …

cuius adhuc vultum vivida cera tenet. La morte corrode un altro simbolo di favore divino (vedi nota precedente): per l'ulivo come auspicio positivo vedi Horsfall a Verg. Aen. 7. 751, con bibliografia sull'uso sacrale dell'ulivo a Roma; André 1964, 35ss.; per l'inaridirsi della pianta al contatto di forze oscure vedi Ov. Met. 7. 277 arenti ramo iampridem mitis

olivae (per effetto degli incantesimi di Medea). moriens capovolge l'immagine dell'ulivo che troneggia sontuosamente sull'elmo di Anfiarao nel quarto libro (Theb. 4. 217 frondenti … oliva): come ornamento del copricapo, l'ulivo si trova già in Virgilio (vedi Aen. 7. 750s. e Micozzi a

Theb. 4. 216-17 per la discussione del modello) e Stazio ne sfrutta il potenziale patetico: come per Umbro nell'Eneide, il vigore dell'ulivo di Anfiarao è foriero di un destino luttuoso, di cui morientis indica qui il compimento.

90-122: Come Orfeo in Ov. Met. 10. 1ss., Anfiarao affronta vis à vis la divinità infernale: la costruzione retorica dell'invocazione a Dite e alcuni importanti motivi della captatio benevolentiae adoperati dal vate argivo rimandano direttamente al modello ovidiano, vedi Helm 1892, 65ss.; Lesueur 1905, 159 nota 9; Taisne 1994, 307, 362 n. 13; sulla struttura del

discorso di Orfeo vedi Fraenkel 1945, 219; Frécaut 1972, 245; Segal 1972, 473ss.; per le componenti drammatiche della perorazione di Anfiarao vedi Dominik 1994, 88ca, Ahl 1986, 2862. La replica di Anfiarao si può accostare anche alla preghiera di Giasone a Nettuno in Val. Fl. Arg. 1. 194ss.: entrambi gli eroi, infatti, si rivolgono al dio sovrano del regno a cui accedono (l'Ade, in un caso, e il mare, nell'altro); come Anfiarao, Giasone apostrofa il dio appellandosi alla sua sovranità (Arg. 1. 194s. o

qui spumantia nutu / regna quatis terrasque salo complecteris omnes, vedi

Theb. 8. 91ss.), chiede indulgenza (196: da veniam!; Theb. 8. 119s.) perchè sa di essere l'unico a percorrere una via “impercorribile” (196s.: scio me

cunctis e gentibus unum / inlicitas temptare vias; Theb. 8. 107-9), agisce non per sua volontà (198: non sponte feror; Theb. 8. 101s.). L'eroe argonautico, inoltre, condivide con il vate l'intenzione di non procurare sconvolgimenti (198s. nec nunc mihi iungere montes / mens tamen aut

summo deposcere fulmen Olympo, Theb. 8. 95-7: Anfiarao si distingue da Teseo ed Ercole, che lo hanno preceduto); inoltre, egli chiede che non sia ascoltato il suo nemico (200 ne Peliae te vota trahant; Theb. 8. 120-2) che è responsabile della sua sventura (200s.: ille aspera iussa repperit et Colchos

in me luctumque meorum; Theb. 8. 104); infine Giasone si affida a Nettuno (203, hoc caput accipias).

90 si licet et ... ora resolvere fas est: per rivolgersi direttamente alla divinità infernale, Anfiarao richiede la legittimazione formale del proprio intervento, vedi Ov. Met. 10. 19s. si licet et falsi positis ambagibus

oris / vera loqui sinitis e Bömer ad loc. L'appello al diritto umano e divino (licet ... et fas est, vedi Bömer a Fast. 1. 25; Austin a Verg. Aen. 6. 266) impronta a un gesto di pietas il consueto preambolo “di cortesia”, con cui si richiede l'autorizzazione a parlare.

91ss. o cunctis finitor … / at mihi ... sator: Anfiarao rivolge a Dite un'apostrofe bipartita fra due appellativi antitetici (finitor e sator), il primo dei quali è ampliato da una frase vocativa: per la movenza, vedi Verg. Aen. 10. 18 o pater, o hominum rerumque aeterna potestas; 10. 607 o

germana mihi atque eadem gratissima coniunx; per l'interiezione vocativa, in Stazio sempre in arsi, vedi Heuvel a Theb. 1. 22 e Snijder a Theb. 3. 367; Rhode 1911, 23. finitor maxime rerum indica Dite come colui dal quale dipende la fine di tutte le cose: il motivo è molto diffuso, vedi Prop. El. 3. 18. 21s.; Sen. HF 870 tibi crescit omne, et quod occasus videt et quod ortus; Ov. Met. 10. 18 in quem recidimus quidquid mortale creamur; 32ss. e Bömer ad loc., che ricostruisce la storia del topos e le sue radici nella letteratura e nel pensiero greco; vedi anche Helm 1892, 66. finitor, dal linguaggio tecnico-giuridico agricolo (TLL 6. 803. 75), introdotto in poesia da Stazio, è associato all'idea della vita umana come estensione da delimitare e di

Dite come colui che stabilisce tale limite; l'appellativo accosta il potere del dio a quello dei regnanti umani, che possiedono “the power ... to define human endeavors, not because they are “right” or even rational, but because they can set the limits of men, peoples and cities by threatening or achieving their destruction” (Ahl 1986, 2902). All'opposizione finitor/sator corrisponde quella cunctis/mihi che distingue e oppone la conoscenza del vate Anfiarao a quella, limitata e parziale, degli uomini (vedi nota a v. 92).

92 mihi, qui quondam causas elementaque noram: il pronome, in