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Parte II. La critica hegeliana a Newton

4. Quale posto per la meccanica in una filosofia della natura vera?

4.2. Pensare la legge della forza

Il pericolo che deriva per una conoscenza che possa dirsi vera dall’accettare troppo facilmente e con eccessiva sicurezza la promessa di verità che emerge dalle pagine dei

Principia è rappresentato esattamente dal fatto che Newton ha preteso di aver

individuato nella natura le leggi delle forze, piuttosto che quelle dei fenomeni. In questo modo però egli ha implicitamente confessato l’incapacità della sua filosofia di giungere alla verità dei suoi principi. In quanto sperimentale, e quindi basata in ultima istanza sulle sole esperienze dei fenomeni naturali, essa avrebbe dovuto aspirare a trovare le leggi del suo oggetto proprio (i fenomeni sperimentabili) e non quelle che invece normano e innervano la realtà più profonda dalla quale emergono gli stessi fenomeni emergono, e cioè la natura vera e propria.

Nell’operare una universalizzazione del particolare manifestato nella percezione, la filosofia newtoniana si ritrova dunque nella posizione caratteristica di ogni empirismo che consiste nel volere cercare il vero nell’esperienza piuttosto che nel pensiero finendo

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in questo modo per cadere nell’errore di usare categorie metafisiche senza esserne consapevole ma anzi pretendendo in questo modo di aver evidenziato le strutture vere e reali della stessa realtà. Infatti, dal momento che il pensiero empirico pretende di aver enucleato le proprietà essenziali della natura, esso non si avvede di come le nozioni che esso utilizza e che pretende esser fondate sul solo fenomeno, nella misura in cui hanno valore universale, non sono già più quel singolo fenomeno che doveva esserne il fondamento; ma non sono neppure ancora una forma di verità superiore252. Esso perciò si condanna all’incapacità di riuscire a giustificare speculativamente le proprie affermazioni, non potendo mostrare le ragioni per cui una percezione (e cioè una

contingenza soggettiva253) possa assurgere all’universalità e alla necessità che la

renderebbero fondamento del vero.

Più precisamente, questo pensiero resta scisso dal proprio oggetto, posto sempre come esterno ed esteriore, e come tale ripropone in sé tutti quei rapporti tra coscienza e oggetto della coscienza che la prima parte della Fenomenologia aveva mostrato come non veri e unilaterali. Infatti, come già nel caso della percezione e dell’intelletto fenomenologici254, anche qui le nozioni della fisica meccanica, pur fondandosi sulla molteplicità del fenomeno, vengono articolate come universalità essenzialmente riflesse in se stesse e perciò cieche rispetto al ruolo costitutivo che il molteplice gioca in esse. Come nel caso dell’oggetto della percezione, anche l’oggetto della fisica meccanica ha un molteplice (fenomenico) che ne è parte necessaria ma non vi è compreso come essenziale. Abbiamo infatti sottolineato più volte che, pur muovendo dall’esperienza, la filosofia sperimentale di Newton ne disconosce il ruolo fondativo per il proprio sapere e

252 Cfr. ENZ § 38 Z : «Per l’empirismo, in generale, l’esterno è il vero, e se anche viene ammesso un

soprasensibile, non se ne può avere conoscenza, ma ci si deve attenere unicamente a quello che è pertinente alla percezione. Ma lo sviluppo di questo principio ha avuto come risultato quello che più tardi si è definito materialismo. Per tale materialismo la materia come tale è l’elemento veramente oggettivo. Ma la materia stessa è già un’astrazione che, come tale, non può essere percepita. Si può dire perciò che non vi è affatto la materia, giacché, in quanto esiste, è sempre qualcosa di determinato, di concreto. Analogamente l’astrazione della materia deve essere il fondamento di ogni sensibile – il sensibile in generale, la singolarizzazione in sé, e perciò quello che è reciprocamente fuori di sé. In quanto ora questo sensibile è e rimane un dato per l’empirismo, questa è una dottrina della non-libertà, giacché la libertà consiste proprio nel fatto di non avere di fronte alcun assolutamente altro, ma nel dipendere da un contenuto che sono io stesso».

253 ENZ § 39. 254 PhG II-III.

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la risolve invece nella nozione astratta dei rapporti matematici e geometrici e delle forze o della materia che costruisce a partire da questi rapporti. Ma così facendo essa realizza proprio quelle dinamiche che Hegel stesso riconosceva alla percezione della

Fenomenologia quando scrive che per essa

«movendo dall’essere sensibile, l’oggetto diviene un universale; ma questo universale, poiché deriva dal sensibile, è da questo essenzialmente condizionato; e perciò non si tratta davvero di universalità uguale a se stessa, ma di universalità che, affètta da una

opposizione, si separa per ciò negli estremi della singolarità e della universalità»255.

E questa universalità incondizionata, determinata dai rapporti matematici ed espressa nelle nozioni fisiche della meccanica, realizza a sua volta quella riflessione aconcettuale che sempre nella Fenomenologia è mostrata come propria dell’intelletto, per il quale il vero è sempre e soltanto esterno256.

Nel rimanere fondata su questa unilateralità costitutiva del suo atteggiamento conoscitivo la meccanica rifiuta dunque lo sviluppo dialettico sul quale soltanto può fondarsi un sapere vero e filosofico. Essa inizia dal molteplice fenomenico, lo sussume sotto nozioni universali ed astratte e, a partire da queste, tenta di rideterminarlo come parte di quelle nozioni. Ecco dunque il sorgere di quella moltitudine di forze che la stessa natura ignora e che, in realtà, neppure la filosofia sperimentale può considerare come reali in sé se non come le determinazioni singolari dell’unica forza generale espressa dalla legge della gravitazione universale. Allo stesso tempo per nessuna di queste forze, siano esse le singole forze (quella centripeta o quella centrifuga) o la forza universale, si può realmente pretendere che esse abbiano una concreta esistenza fisica. Esse, cioè, rappresentano in fondo soltanto la legge che l’intelletto trae a partire dal

fenomeno e non, invece, quella che la ragione scopre nella natura. In quanto fondate

sull’unilateralità del conoscere scientifico esse infatti esprimono quei caratteri che l’esperienza ha osservato ricorrere nei fenomeni senza però riuscirne a dimostrare la necessità. La trattazione dei Principia, con la sua cogente articolazione in dimostrazioni

255 PhG : 79.13-18 [105].

256 vd. PhG : 82.27-31, 84.20-22 [109, 112] «Un vero in cui l’intelletto, senza in esso sapersi, lascia fare a

suo modo. Questo vero s’arrangia, secondo l’essenza sua, per se stesso, così che la coscienza non partecipa della sua libera realizzazione, ma non fa che osservarla e, puramente, accoglierla […] Affinché dunque la forza sia nella sua verità, essa deve venir lasciata interamente libera dal pensiero e posta come la sostanza di quelle differenze».

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e problemi, non riesce pertanto a dimostrare la necessità delle proprie scoperte per l’oggetto naturale in sé e per sé. Piuttosto, nella misura in cui essa presuppone il proprio oggetto, essa vi rimane impigliata procedendo a tentoni nella molteplicità del fenomeno senza mai poterne mai uscire.

Per rispondere alla domanda che compone il titolo di quest’ultimo capitolo, potremmo perciò dire che in una filosofia vera, il posto della meccanica non può che essere circostanziato. In quanto costitutivamente unilaterale, quand’anche sviluppata secondo un discorso concettuale, essa non potrà in ogni caso elevarsi a comprensione dell’intera natura. Più realisticamente essa dovrà perciò articolarsi come la filosofia di quella natura astratta che si realizza nella libertà quasi divina del movimento planetario, tenendo però ben presente che questo non è che il primo stadio di una realtà naturale ben più complessa.

Rifiutarsi o mancare di comprendere questo significherebbe abdicare a ogni possibilità di una vera comprensione speculativa della natura. Allora, impigliato il conoscere nella fissità del dato e della presupposizione, non si avrebbe altro che una costruzione filosoficamente inconcludente che con l’indubitabilità della dimostrazione geometrica non proverebbe altro che la validità soltanto matematica di questa costruzione intellettiva lasciando, invece, la realtà fisica concreta priva di ogni altra ragione e in balìa del caso e dell’arbitrio dei moti e delle forze che li causano.

Se dunque un valore effettivo va riconosciuto alla critica hegeliana alla meccanica Newton, potremmo dire che essa è il tentativo di liberare la conoscenza umana dalle pastoie che essa stessa si era imposte. Lungi dall’essere il parto eccitato di un’immaginazione giovanile o quello rancoroso di un orgoglio provinciale offeso dal tribunale della storia, questa critica riflette in sé l’intero progetto della riflessione di Hegel di innalzare l’uomo alla libertà che gli spetta. Solo abbandonando le vecchie presupposizioni si sarà in grado di aprirsi alla comprensione libera e vera della realtà. È dunque per questa aspirazione a una libertà reale e concreta che criticando la filosofia meccanica di Newton e mostrando come invece la natura possa esistere per la ragione soltanto come qualcosa di intrinsecamente razionale, Hegel ci ammonisce a non pretendere di elevare a filosofia il sapere di chi, per dirla con il poeta, «’l mondo a caso pone»257.

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