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Period Rooms e Period Eye: punti di contatto e di sviluppo

Nel documento Recuperare lo sguardo (pagine 51-55)

“Museums are the storyteller’s chamber”. (Terry Tempest Williams)

Sono i musei di storia naturale i più innovativi nel campo del coinvolgimento esperienziale dei visitatori. Se si guarda ad esempio il caso del Museo della Scienza di Trento (MUSE), il successo che l’ha portato a essere il museo scientifico più visitato d’Italia (Martini & Pes, 2015) deriva dalla forte presenza di laboratori, esposizioni interattive e dall’utilizzo dei social media: questi strumenti, secondo il MUSE, sono le tattiche migliori per attirare le persone all’interno dei musei (Pasdera, 2013b). Anche adottare il punto di vista di un esploratore per la programmazione di laboratori o sale tematiche a lui attribuite può aiutare il visitatore

nell’immersione museale; lo stesso risultato può essere ottenuto ripensando un desueto

allestimento rendendolo parte integrante della collezione, per permettere ai visitatori di rivivere l’era dei grandi studiosi, collezionisti e cacciatori del passato.27 Per i musei e le gallerie d’arte il discorso può partire da tali presupposti per facilitare l’immersione del fruitore, come infatti era già stato fatto nei primi decenni del ‘900 adottando il modello delle period rooms (Shubert, 2004).

Nel momento in cui si discute della possibilità di ritrovare il period eye all’interno di azioni di marketing di tipo non convenzionale ed esperienziale, non si può infatti non citare un

escamotage allestitivo volto alla creazione di un’esperienza avvolgente come le period rooms. Si tratta di un concetto museografico emblematico dei primi decenni del XX secolo, utilizzato soprattutto nei musei americani, in seguito alla grande quantità di materiali artistici

provenienti dal vecchio mondo, al tempo disponibili a causa della situazione bellica europea. L’idea delle period rooms è la naturale evoluzione in ambito artistico dei diorami, concetto ideato da Louis Daguerre nel 1882 per definire a sua volta la prosecuzione della tassidermia ornamentale. All’epoca il diorama si presentava come un efficace strumento di

rappresentazione dell’habitat degli animali conservati nei musei di storia naturale, riuscendo a stimolare e a facilitare la conoscenza dei reperti tramite strumenti museografici che ne

riproducevano l’ambientazione (Pasdera, 2012). Se però le parti che costituivano i diorami erano create appositamente dai curatori dei musei, le period rooms venivano realizzate

27 Tale ripensamento museografico è stato prepotentemente adottato in alcuni musei italiani, come il

giustapponendo decori, arredi e oggetti appartenenti alle arti minori creati nello stesso periodo storico delle opere d’arte esposte nelle collezioni. L’obiettivo delle period rooms non era quello di creare degli assemblaggi di cose costose e rare appartenenti a collezionisti del passato, disposte solo per stuzzicare la curiosità del pubblico, ma era quello di fornire la chiave per aprire la porta di un intero mondo a chiunque volesse esplorarlo (Rogers, 1930). Infatti le period rooms avevano il potere di creare empatia e di connettere il visitatore con il tema trattato, qualunque esso fosse (Schwarzer, 2008). Il primo caso di applicazione del concetto di period room avvenne nei primi anni del 1900 a Berlino, al Kaiser Friederich Museum, sotto la direzione di Wilhelm Bode. Il museo mostrò per la prima volta nella storia un impianto museografico completamente rivisto, dove le collezioni non erano divise per categorie (dipinti, sculture, arti decorative) ma semplicemente per periodo, in modo tale da fornire al fruitore un’impressione omogenea degli sviluppi culturali del tempo (Shubert, 2004). In questo modo opere d’arte e arredi di diversa natura collaboravano tra di loro per fornire la giusta impressione al visitatore, aiutandolo in parte ad adottare quello che è

possibile riconoscere come un concetto allargato e semplificato di period eye. In poco tempo tale esempio venne imitato in tutto il mondo, in special modo a New York dove l’assistente di Bode, William R. Valentiner, ricostruì all’interno del Metropolitan Museum of Art interi ambienti appartenenti a un determinato periodo, dando vita a partire dal 1927 al fenomeno dei Cloisters: parti di monasteri, abazie e chiese europee vennero smembrate e ricollocate al MET per rievocare il Medioevo, conferendo il contesto più idoneo per disporre le opere

appartenenti all’età di mezzo (Shubert, 2004). I risultati ovviamente non erano sempre quelli sperati, poiché venivano realizzati dei collage culturali modellati con eccessiva licenza artistica dai curatori, che spesso esprimevano un “Alto Stile Predatorio” (Shubert, 2004, p. 51), più che il vero spirito di un’epoca. Se le period rooms erano tanto amate nel XX secolo, adesso invece appaiono come un’eredità ingombrante portatrice di ben poca credibilità per un museo. Il problema risiede nella mancanza di malleabilità e nella loro mancanza di

autenticità, anche se non ci sono dubbi che apportarono un notevole aiuto ai musei per poter entrare nella modernità, creando un legame emotivo con il pubblico in grado di coinvolgerlo (Schwarzer, 2008). Un’alternativa che ha avuto negli ultimi anni maggior successo sono invece le case-museo, che riescono ad offrire di più delle period rooms in quanto conservano un’impronta genuina e meno ambigua per il visitatore che, anche se a seconda dei casi, può calarsi in un reale ambiente originario del passato (Gaskell, 2004).

L’orizzonte oramai però si è ampliato, e invece di tentare di riprodurre artificiosamente in maniera diretta ed esplicita gli ambienti di un tempo, è possibile tentare anche con i nuovi

mezzi tecnologici (e soprattutto digitali) di sperimentare l’assorbimento dell’occhio del periodo derivante dall’osservatore del passato. La tendenza attuale sembra essere quella di rovesciare il concetto delle period rooms, esponendo nei luoghi originali di appartenenza delle opere,

perfette riproduzioni delle stesse, in originale o in digitale. Proporre un’opera in digitale nel suo contesto originario soddisfa un duplice obiettivo: si attrae da un lato il visitatore con qualcosa a lui familiare e al tempo stesso innovativo come la tecnologia; dall’altro lato, gli si conferisce la possibilità di reinterpretare l’opera da una nuova e inusuale prospettiva. Un caso esemplare che illustra l’applicazione di tale proposta è la realizzazione di touch screen rappresentanti le immagini della Nascita di Venere e della Primavera di Sandro Botticelli, collocate all’interno del luogo per cui erano state concepite: la villa medicea di Castello. In questo modo si

recuperano i legami originali delle opere concepite per essere site specific, dando inoltre la possibilità al fruitore di godere dei benefici della tecnologia, che rende le opere interattive per ingrandirne i dettagli tramite lo zoom (Casanova, 2014). Se si considera inoltre il rifacimento su tela di opere traslate in un altro contesto, per ricollocare la “copia” nel suo ambiente originale, vi è la necessità di una fusione perfetta fra lavoro artigianale e tecnologia. Il caso in quest’ambito che ha dato i risultati più soddisfacenti è analizzato nel dettaglio in questa tesi nel capitolo successivo, ed è il facsimile delle Nozze di Cana di Paolo Veronese. Il proporre quello che è palesemente un falso all’interno del refettorio palladiano del complesso benedettino di San Giorgio a Venezia, rievoca automaticamente le inquietudini di Walter Benjamin sul destino dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Il famoso concetto dell’hic et nunc irripetibile nell’opera d’arte, che costituisce l’unicità del suo apparire nel mondo, verrebbe meno nel momento in cui essa viene replicata, perdendo la sua aura di esperienza irripetibile e quindi irriproducibile (Benjamin, 1991). Semplificando alla radice il pensiero di Benjamin, il problema assume un aspetto fondamentale nel momento in cui si attribuisce all’opera una funzione di culto dell’idea rappresentata: tramite la riproduzione, l’oggetto della venerazione diventa il dipinto stesso, e questo è ciò che solitamente accade nel momento in cui il visitatore ammira la collezione di un museo.28 Dall’altro lato, la questione assumeva rilievo anche per la qualità dell’opera riprodotta ma, come sostiene Jean Clair, grazie agli sviluppi di oggi il problema non sembra più essere tale. Anzi, sembra proprio che la perfetta riproduzione delle opere possa costituire una soluzione, in quanto conferisce la possibilità di restituire l’aura perduta all’immagine che è stata strappata dal luogo originario in cui era stata concepita (Clair, 2011).

28 Ricordando di quando Roger Caillois gli aveva raccontando che in Oriente le persone ancora

distribuivano tributi alle statue raffiguranti Buddha all’interno dei musei, Jean Clair comprese che un simile atteggiamento sarebbe impensabile oggi nei musei europei, in quanto: “In Occidente, il museo desacralizza per il solo fatto di essere un museo” (Clair, 2011, p. 101).

Un approccio volto a rivelare il period eye può inserirsi con successo in queste azioni, utilizzando dunque strategie che aiutino a rivelare il passato facendo proprio il gusto tipico dell’epoca d’appartenenza dell’opera d’arte. Si tratta quindi di cercare di spingere il visitatore ad adottare una sorta di bipolarismo della visione, in modo che possa comprendere le

conoscenze, il gusto, il modo di vedere e l’ammirazione per le opere d’arte del passato, senza però perdere al tempo stesso il proprio (Leahy, 2014). I mezzi attraverso i quali è possibile raggiungere questo risultato sono procedure di marketing inusuali, che giocano sul filo del rasoio per comunicare con mezzi e parole attuali il significato dell’antico e del diverso,

facendolo percepire come appartenente alla sfera del conosciuto e del familiare. La dissonanza cognitiva in questo modo avrà delle solide basi per poter essere interiorizzata.

Nel documento Recuperare lo sguardo (pagine 51-55)