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3.1 Mappe come forma di rappresentazione

4.1.2 Photo-elicitation e go-along

«Il mondo è ciò che noi vediamo, è altresì vero che dobbiamo imparare a vederlo».

(Maurice Merleau-Ponty)

La photo-elicitation che letteralmente può essere tradotta come foto-stimolo è una tecnica di indagine che include foto, video e altre forme di rappresentazione visuale usate durante le interviste, chiedendo agli informatori di commentare le immagini. L'intento è quello di promuovere uno sviluppo sfaccettato. Si tratta di un metodo di intervista e conversazione basato sull'utilizzo delle immagini. Il forte potere evocativo delle fotografie aiuta la memoria e facilita il racconto. Da sole possono agire da incentivo per l'interlocutore anche nei casi in cui non si sappia ancora bene da quale domanda iniziare. Ugualmente importante è la possibilità di osservare le reazioni dell'intervistato di fronte ad una fotografia piuttosto che ad un'altra. É un modo per indagare aspetti dell'interazione che vanno al di là di ciò che può essere formalmente dichiarato a parole nel corso di una conversazione. Personalmente questa tecnica, e la fotografia in generale, ha permesso di esplorare la città in modo nuovo, ha agevolato il dialogo attraverso l'uso di un oggetto concreto, sono emersi, così, aspetti inediti e personali circa le considerazioni dei miei informatori sulla città.

Ho cercato di trascorrere intere giornate con i miei interlocutori, sempre utilizzando le fotografie come ponte, chiedevo loro di poterli accompagnare nei tragitti quotidiani e di mostrarmi ciò che consideravano importante, dove si sentivano al sicuro. Davanti a questi luoghi sono state scattate delle immagini, sia da me che da chi mi accompagnava, questo permetteva di confrontare le nostre visioni, di raffrontare ciò che avevamo ripreso e nella descrizione di ciò che si era registrato emergevano sempre nuovi racconti, piccoli dettagli, ricordi. La visione che io potevo avere di questi luoghi è estetica perché non facendo parte della mia memoria non potevo caricarli di significato, per i miei informatori, invece, erano auto-ritratti, una sorta di «costrutto simbolico attraverso il quale colui che scatta struttura il proprio mondo» (Chiozzi 1993:184), mostrarmi qualcosa per loro emozionante, bello, era un modo per descrivere la realtà. Da qui sono sorte, parlandone insieme, diverse domande, molteplici interrogativi; è stato un modo per

32 stabilire un contatto e fare intervista. Anche riguardare insieme le immagini scattate aiutava a parlare di ciò che vedevamo, del modo in cui avevano ritratto quel dettaglio, dei motivi per i quali avevano voluto registrare proprio quel particolare.

É stato utile anche perché io leggevo le immagini potandomi dietro il mio bagaglio culturale di appartenenza, quindi leggevo le fotografie come un qualsiasi altro testo, da sinistra a destra; cercavo elementi riconoscibili per capire le dimensioni degli oggetti presenti in una scena, ignoravo i registri grammaticali e sintattici coinvolti, messi in gioco dai miei informatori, subivo una sorta di cecità cognitiva. Anche per le immagini, infatti, è necessario un codice, una lingua, che rendano esplicite le regole che precedono la composizione dell'immagine fotografica in quanto dispositivo culturalmente codificato.

«L'immagine in sé non è depositaria di un valore universale, con ciò non differenziadosi dagli altri mezzi o prodotti di comunicazione sempre marcati da relativismo, ambiguità e polisemia. Le modalità d'utilizzo della fotografia non le conferiscono certo un ruolo di fine a sé ma piuttosto di uno strumento di lavoro, di una tecnica esplorativa che al di là della convalida di idee preconcette mira soprattutto a suscitarne di nuove. In un processo di ricerca le immagini si pongono perciò a un livello intermedio tra la realtà oggettiva e la costruzione dell'oggetto [...] La fotografia è un documento che non è solo da guardare ma da leggere come un grafico di parentela o il testo di un mito [...] scattare una foto dovrebbe essere l'atto finale di un percorso conoscitivo oppure, per un processo inverso, lo stimolo per iniziare una ricerca» (Spini 2006:36,37).

Nello specifico questa pratica è conosciuta come go-along o street phenomenology, una tecnica ampiamente descritta da Kusenbach che consiste nel percorrere l’intera giornata o parti della giornata con i residenti di un luogo specifico. Questa tipo d'indagine è utile in quanto accompagnare gli abitanti al lavoro, a scuola, in palestra, nelle loro attività quotidiane, permette di mettere a fuoco, attraverso l’interazione con essi, la percezione dell’ambiente circostante, le pratiche spaziali, le biografie, le loro storie di vita. Seguendo gli informatori nelle loro routine e nel contempo ponendo domande, ascoltando e osservando si possono percepire le azioni e le interpretazioni degli informatori. É stato così possibile catturare le azioni e le pratiche spaziali degli interlocutori accedendo allo stesso tempo alle esperienze e alle interpretazioni. Ho

33 cercato inoltre di riportare il tragitto percorso e descritto con l'informatore, rendendo visibili le loro rotte, una sorta di indigenous mapping, dove sono gli abitanti a tracciare il loro territorio.

Si fa largo la possibilità di analizzare il territorio e di creare delle mappe seguendo la linea concettuale del community mapping e delle parish map teorizzate da Sue Clifford, uno strumento per coinvolgere la popolazione, ampliare la loro forza d'azione e il loro potere decisionale, ricostruire il paesaggio in modo collettivo attraverso una strategia partecipativa (Grasseni 2009).

Per ogni percorso, infatti, ho creato una piccola mappa dello spostamento e le principali osservazioni. Lo scopo è quello di creare un nuova mappa del percorso quotidiano, dell'uso della rete urbana per avere un rimando visibile, fruibile e leggibile di come ci si muove nella città, di come viene percorsa. Questo dato si rivela ancor più utile confrontato con le mappe dei tragitti degli altri informatori, si crea così una nuova carta, una nuova meta, una nuova città.

4.1.3 Il Campo

«Una volta in viaggio si dimentica il desiderio di sapere, non si conosce più né l'addio né il rimpianto, non ci si chiede più né da dove né verso dove». (Annemarie Schwezenbach)

Non tutti i viaggi sono uguali, non tutti sono soddisfacenti, non tutti lasciano senza fiato, non sempre la voglia di restare è maggiore di quella di tornare. Personalmente nel mio periodo di ricerca sul campo ho avuto a lungo la presunzione di comprendere una città, una società attraverso le sue forme architettoniche e il suo movimento nello spazio, il suo modo di abitare. Un obiettivo che si è rivelato fumoso e eccessivamente articolato.

Forse non esiste una metodologia ben precisa. Usare le immagini mi ha aiutata, innanzi tutto perché la

34 «fotografia, oltre a registrare il "visibile", poteva controllare e

rendere visibile anche il non-visibile, il simbolico» (Chiozzi, 1995:52)

ed anche perché

«affina la possibilità di "far vedere" una realtà lontana anche a chi non si era mai mosso da casa» (Chiozzi 1993:26).

Però non bisogna dimenticare che la fotocamera è uno strumento di riproduzione parziale ed altamente selettivo. Margaret Maed aveva già lungamente rimproverato l'antropologia per essere diventata una scienza esclusivamente verbale.

Eppure ho imparato molto, al di là della ricerca, del diario di campo, delle interviste, degli appunti, delle annotazioni; oltre la bibliografia, la collezione di mappe, le fotografie scattate, discusse e confrontate, ben oltre lo shock culturale, lo spaesamento, le difficoltà linguistiche, ho imparato in modo inaspettato e impensabile,

«camminando stavo pensando che inconsciamente, inconsapevolmente sto imparando molto, nel come muovermi, nel cosa posso fare e cosa devo evitare. Rio è una città troppo grande, è difficile instaurare rapporti profondi con chi vedi raramente o incontri ad una festa per poi sparire nella folla.. è un'esperienza molto forte che sto cercando di vivere al meglio per imparare qualcosa in più di me e per capire quello che davvero voglio fare.. ma Rio non è propriamente il Brasile che avevo sognato ed è una prova di forte impatto come prima volta in una metropoli» (Diario di campo).

Ho imparato molto di me stessa osservando gli altri, ho compreso maggiormente il mio sistema di appartenenza sperimentandone uno diverso, ho riletto la mia storia di vita alla luce di nuovi incontri e di nuove conoscenze. La lunga permanenza ha permesso di sedimentare ciò che ho esperito, rendendo quotidiano ciò che inizialmente sembrava alienante. Il campo è stato un banco di prova arduo, un tempo di crescita, di studio, di domande che spesso mi ha portata a riflessioni secche

35 «Ho trovato il termine per definire cosa provo qui da mesi, credo

che la parola giusta sia Irritante, irritazione per persone che invocano rispetto ed educazione ma sono ingrate, egoiste e invidiose; irritazione verso abitudini, usi e costumi che sono abiti acquisiti dalla globalizzazione; irritazione per il razzismo, l'esclusione e il rinnegamento delle proprie origini; irritazione per una diversità culturale evidente che non è concepita come ricchezza con il conseguente tentativo di livellare, unificare, appiattire la quotidianità. Sono irritata, non è odio, non è amore, non sono stata conquistata, ma nemmeno marginalizzata, ho vissuto uno shock sensoriale e culturale, ma era previsto, era logico che lo scontro con una realtà altra avrebbe prodotto delle reazioni forti, che il riadattamento non sarebbe stato facile, ed ero preparata, sapevo come mi aspettava, eppure dopo il tempo del riadattamento non è seguito un tempo di accettazione, non riesco ad accettare alcuni modi di fare, alcuni atteggiamenti. Il mio punto di vista, il mio modo di vedere, la mia prospettiva resta staccata, non ho perso il mio etnocentrismo, sono ancorata alle mie tradizioni per riuscire a sopravvivere a questa realtà per me ancora così assurda» (Diario di campo, 27-05-2011).

Eppure nonostante le difficoltà, ciò che porto con me è uno spazio immenso con un tempo variabile e sfumato, una ricerca in corso d'opera, storie di vita incredibili e la sensazione di aver, almeno in parte, compreso.

«Giornata super interessante, molte spiegazioni, molte conversazioni, domande e risposte, questo è ciò che amo: stare con la gente, sentire le loro storie, il racconto della loro vita e seguirle nel loro quotidiano, lasciare che una ricerca appena abbozzata trovi da sola la sua strada, il suo percorso naturale. Le mie sono solo curiosità che aprono nuove porte, la ricerca si sposta, muta, cambia il suo aspetto, il suo obiettivo» (Diario di campo, 05-05-2011).

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Capitolo II