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POLITICA E QUESTIONE MORALE

Nel documento Sisifo 9 (pagine 35-40)

a cura di Mario Dogliani, Antonio Monticelli Pubblichiamo una sintesi a cura di Mario Dogliani e Antonio Monticelli di materiali ancora provvisori, — in discussione presso il PCI piemontese — in preparazione di un convegno su «Politica e questione morale».

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affermazione corrente che la «questione morale» non si risolve nel problema di contrastare la corruzione politica, ma che finisce per identificarsi con la «questione istituzionale», o, ancora più a fondo, con la «questione democratica». Per precisare la portata di queste affermazioni occorre innanzi tutto meglio definire le espressioni usate. I comportamenti — non importa se di singoli o di gruppi (partiti) — tesi ad appropriarsi di risorse pubbliche (tangenti), o a produrre risorse «private» attraverso un uso distorto del potere pubblico (es. decisioni urbanistiche interessate...), diventano oggetto di una «questione morale» (in senso proprio) quando forze della società civile (filosofi, movimenti d'opinione...) li denunciano come incompatibili con regole etiche di cui queste stesse forze si fanno portatrici.

Diventano oggetto di una «questione politica» quando vengono rimproverati a una parte politica da un'altra parte ad essa avversa, che cerca di delegittimarla e di sconfiggerla adducendo la lesione dei principi di etica pubblica.

Diventano oggetto di una «questione istituzionale» quando, essendo diffusi e non ritenendosi sufficiente il ricambio del personale politico corrotto, si cercano nuove regole che li

impediscano, o quanto meno li contrastino: regole che possono riguardare qualunque livello

dell'organizzazione pubblica: dalla forma di governo a specifici profili delle strutture amministrative.

Diventano oggetto della «questione democratica» se il fondamento della critica che viene loro rivolta non è la loro «devianza» rispetto a un modello di Stato democratico, e alle relative forme di potere politico, che si ritiene ancora effettivo (seppur leso) ma se è il convincimento che essi siano sintomi che svelano una forma di potere politico che è, o che sta per essere, quella reale, effettiva, generale, e che è incompatibile con quella assunta nel modello: che cioè si sia instaurato, o stia per instaurarsi, un potere politico di gruppo, di ceto, estraneo alla legittimazione democratica.

Se il problema della corruzione politica viene posto nei termini della «questione democratica», ciò significa che il livello di corruzione raggiunto è talmente alto da rappresentare il modo di essere storicamente reale, o

almeno tendenzialmente prevalente, dello Stato e dei partiti.

Si dice che la «questione morale» non deriva da «incidenti di percorso», ma da un «certo» modo di intendere la politica: il punto è che quel «certo» modo è quello reale, effettivamente o largamente praticato. Porre la «questione morale» in termini di «questione democratica» significa criticare il ruolo concreto che oggi svolgono lo Stato e il sistema partitico. Al di là di qualsiasi approccio di tipo propagandistico o

«moralistico» o strumentale (la colpa è degli altri partiti, i comunisti sono «diversi», con il PCI al governo queste cose non succederebbero), il problema riguarda

direttamente anche il PCI. La degenerazione della politica sembra avere superato ogni soglia «fisiologica», e avere messo radicalmente in discussione l'immagine (e la pratica) della politica come attività di organizzazione e

rappresentanza della volontà popolare e di esercizio del potere politico per il governo della cosa pubblica. Il governo della cosa pubblica da fine diventa mezzo; il potere politico da mezzo diventa fine. Ne consegue una drastica delegittimazione dell'attività politica e dei partiti a cui si accompagna, peraltro, un'accentuazione del prepotere dei partiti rispetto alle istituzioni ed uno stravolgimento del sistema dei poteri definito dalla Costituzione.

W a crisi della politica e M delle istituzioni che M s deriva da tale stato di

cose colpisce il PCI ancor di più di altre forze politiche, e ciò proprio per la connotazione democratica della strategia comunista: democrazia politica e partecipazione popolare con mezzi e fini essenziali del rinnovamento.

D'altra parte, il PCI opera nel sistema politico italiano, è presente nelle istituzioni, è parte della società: per quanti «anticorpi» possa avere accumulato nella sua storia o possa derivare dalla sua politica, anche il PCI è esposto ai rischi di degenerazione insiti nel sistema politico-istituzionale-sociale del nostro Paese. Negare questa realtà significa condannare il PCI ad un isolamento suicida oppure, all'opposto, ad un'altrettanto suicida omologazione. Un caso limite di tale stravolgimento è l'accordo per la «staffetta» alla Presidenza del «pentapartito» fra PSI e DC: non a caso ne è seguito il riaccendersi

della polemica sulla cosidetta «partitocrazia».

Le radici della «questione morale». In Italia, più che in altri Paesi europei, lo sviluppo del cosiddetto «Stato sociale» — e quindi la complessificazione e la crescita dell'intervento dello Stato nel campo

dell'economia, della redistribuzione dei redditi e dei servizi sociali — si è accompagnato ad un processo di forte «politicizzazione» dello Stato, che si è realizzato, essenzialmente, sotto la forma della

«partitizzazione». Se, da un lato (la «politicizzazione»), ciò può essere salutato come l'inverarsi dei principi costituzionali di

democratizzazione dello Stato per effetto della

partecipazione popolare e dell'impegno (pur conflittuale) delle maggiori forze politiche, dall'altro lato (la «partitizzazione») ciò ha determinato un ruolo preponderante dei partiti — sia rispetto alle istituzioni elettive, sia rispetto alla pubblica amministrazione — che rappresenta un punto particolarmente critico nel sistema politico-istituzionale italiano.

Questo esito, che ha una spiegazione fondamentale nel ruolo determinante e prevalente che i partiti hanno avuto nella ricostruzione del tessuto politico e civile della nazione nel dopoguerra, è dovuto però anche al persistere nelle maggiori forze politiche, ben al di là delle contingenze storiche che le potevano giustificare, di concezioni totalizzanti del ruolo dei partiti che, quando sono state chiamate in causa dallo sviluppo dei movimenti sociali e di opinione degli anni '60 e '70, hanno tradotto (o imbrigliato, a seconda della diversa collocazione politica, di opposizione o di governo) quelle spinte di partecipazione democratica in ulteriori forme di «democratizzazione partitica» dello Stato.

Ciò ha portato ad estendere, oltre ogni limite, le funzioni di supplenza dei partiti rispetto allo Stato; ad una sottrazione di poteri nei confronti delle istituzioni elettive e della pubblica amministrazione tramite la proliferazione del cosiddetto «sottogoverno» e delle nomine pubbliche; ad una sovrapposizione sempre più confusa fra funzioni di indirizzo politico e attività amministrativa.

Al tempo stesso, la «partitizzazione» dello Stato,

innestandosi su una preesistente (e mai adeguatamente riformata) situazione di arretratezza e di inquinamento (frutto del fascismo) della pubblica amministrazione, ha incentivato una politicizzazione «opportunistica» della burocrazia, accentuando fenomeni di inefficienza, deresponsabilizzazione, connivenza. Sono venute così meno, di fatto, indispensabili distinzioni di ruoli, poteri e responsabilità, ed elementari garanzie di controllo all'interno del sistema politico-amministrativo, mentre — al di là del ruolo della magistratura e, in minor misura, dei mass-media — non si sono sviluppati sufficienti mezzi e poteri di controllo a disposizione dei cittadini. ^ ^ L utto ciò, in presenza di

M . un sistema politico Wr minato d a una grave

distorsione: la democrazia bloccata. La cosiddetta «occupazione» dello Stato da parte dei partiti si è sviluppata, quindi, in carenza di meccanismi «fisiologici» di ricambio del personale di governo e di sanzione elettorale efficace.

Inamovibilità e impunità del personale di governo: la presenza di queste due «certezze» non offre certamente valide garanzie di un buon livello di

«moralità» della vita pubblica italiana. Così come la fitta e oscura rete di intrecci fra Stato ed economìa e l'accentuata discrezionalità della pubblica amministrazione (derivante dalle inefficienze dolose, oltreché da quelle colpose, e da normative sovraccariche di «controlli» utili solo alle tangenti) offrono

innumerevoli «occasioni» per chi voglia abusare del potere politico a fini privati. Se è facilmente comprensibile che la presenza di tante «occasioni» e la presunzione di inamovibilità e impunità possano «fare l'uomo ladro», resta purtuttavia da investigare il «movente» di simili comportamenti. È evidente che, in molti casi, si tratta della «infiltrazione» nei partiti di uomini che agiscono sulla base del puro e semplice tornaconto personale, magari in combutta con poteri criminali esterni alla vita pubblica (mafia, ecc.). Anche in tali casi, tuttavia, si pone il problema della particolare «permeabilità» di certi partiti a tali

infiltrazioni, specie in certe zone del Paese (lunga permanenza in ruoli di governo, sovraesposizione derivante dallo squilibrio fra

la scarsa consistenza elettorale e organizzativa e l'alto numero di cariche, meccanismi distorti di selezione del personale politico, concezioni affaristiche della politica, particolari «convenienze» elettorali, ecc.).

In altri casi, anche laddove non è da escludere la concomitante presenza di un tornaconto personale, appaiono presenti, prevalenti o esclusivi moventi «politici». La casistica è nota: uso distorto degli apparati pubblici al fine di acquisire un particolare potere politico, uso delle risorse pubbliche nel voto di scambio clientelare, sottrazione di risorse pubbliche o taglieggiamento di risorse private al fine di finanziare la corrente o il partito, fondi «neri» elettorali raccolti da privati in cambio di futuri favori, ecc.

Se è evidente che la diversità di movente (puramente personale o «politico») non può influire più di tanto in sede giudiziaria, essa ha invece particolare rilevanza dal punto di vista politico. E non, certo, nel senso che la presenza di un movente «politico» porti a minimizzare il reato e ad «assolvere» il reo ma, anzi, al contrario, nel senso di accentuare la responsabilità politica collettiva (del singolo partito coinvolto, ma anche del sistema dei partiti nel loro complesso) che viene chiamata in causa anche da un episodio singolo. La domanda, in sostanza, è: perché, così frequentemente, così gravemente, si

commettono reati «in nome» della politica? Quali sono le cause di questa

degenerazione politica? i può cercare di rispondere a questa domanda con le armi della sociologia, cogliendo le relazioni fra certi attuali caratteri della politica e del ceto politico (la crisi delle ideologie, il mercato politico, il professionismo politico) e determinati processi sociali: il mescolarsi dei tradizionali confini di classe, la crescente mercatizzazione dei rapporti sociali all'insegna della più assoluta «amoralità»,, la disponibilità (o la «rassegnazione») di vasti settori della popolazione per il voto di scambio (o la bustarella) in cambio di beni «rari» controllati dal potere politico (il posto di lavoro, la pratica in tempi normali, la licenza, ecc.), l'estendersi di fenomeni di «illegalità diffusa» (l'evasione fiscale, l'abusivismo, ecc.), la forza ed il ramificarsi di veri e propri contropoteri criminali (la mafia, la camorra). Per 36

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p questa via, si arriverebbe a >3 concludere che la politica h rispecchia largamente i mali b della società: il che è vero TI ma anche scarsamente q produttivo.

S Più semplicemente, e >3 concretamente, si può E analizzare il problema dei 13 costi della politica, che si « sono grandemente accresciuti b di pari passo con il crescere b dello Stato (e della

» « parti tizzazione» dello Stato) 3 e con la parallela

b diminuzione dell'attivismo q politico volontario, e che a subiscono patologiche il lievitazioni a causa della ! lotta fra le correnti e delle z , spese elettorali, individuali o 3 di gruppo, per le preferenze. ) Così si coglierebbe

certamente un problema reale e grave ma, tuttavia, parziale e di per sé non risolutivo.

Ciascuno degli approcci prima richiamati è, in qualche modo, utile, e può concorrere ad indicare alcune cause e taluni rimedi del male.

Appare necessario, tuttavia, affrontare il problema da un ulteriore punto dì vista, per inserire le considerazioni che precedono in un più ampio contesto, che faccia emergere i nessi e le continuità che legano quella specifica forma di degrado della politica che si esprime nella «questione morale» con determinati caratteri assunti dalla società civile e dal suo rapporto con lo Stato.

Questi possono essere — sotto il profilo che qui interessa — essenzialmente così sintetizzati: 0 nnanzi tutto la concentrazione dei Mv «poteri privati» si incrementa a ritmi rapidissimi, dando vita a blocchi industriali-finanziari

sempre più grandi e articolati. Tali concentrazioni di potere privato tendono sempre più scopertamente ad utilizzare immediatamente funzioni di controllo sociale, essenzialmente attraverso la gestione dei mass-media (giornali, TV, aziende editoriali). Il potere privato, in sintesi, non esercita solo un peso politico indiretto, ma sempre più direttamente tende a t'arsi potere politico, o nella gestione di risorse pubbliche, o nel formare e guidare il consenso politico. Sul piano culturale la privatizzazione del potere socialmente rilevante si manifesta nel fatto che le forme pubbliche della sua trasmissione (elezione, nomina...) sono

delegittimate, mentre appare assolutamente pacifica e indiscussa la trasmissione privata, che avviene per via ereditaria, o attraverso legami familiari, o attraverso cooptazioni motivate dalla «capacità». Con tutte le dovute distinzioni si può dire che la mafia, la camorra e le società segrete

rappresentano il punto estremo di una sostituzione del potere privato a quello pubblico legalmente legittimato.

Le situazioni sopra descritte sono accompagnate (e qui sia sufficiente cogliere questa contestualità, senza

addentrarsi nella discussione sulla esistenza di un nesso causale) da manifestazioni diffuse di illegalità, che sì esprimono tanto in comportamenti dei privati (evasione fiscale e contributiva, abusivismo edilizio...) che delle pubbliche amministrazioni (inattuazione delle leggi, sistematica elusione dei termini e omissioni nei controlli, nell'applicazione di sanzioni, nel compimento di

atti dovuti...). Questa diffusa illegalità amministrativa, ormai tanto radicata che nella opinione comune si pensa ormai — erroneamente — all'intervento

giurisdizionale come al mezzo primario di

instaurazione della legalità, e non come ad uno strumento di garanzia che la

presuppone (appunto come legalità media), è manifestazione della debolezza crescente del complessivo ordine giuridico-politico. Quanto più si è estesa la presenza dello stato in termini di quantità di ricchezza mediata e di servizi erogati, tanto più l'ordine giuridico-politico (inteso ovviamente in senso dinamico e aperto, come il sistema di regole riconosciute attraverso cui il corpo sociale vive) appare debole o, più precisamente, la politica appare incapace di garantire quell'ordine e di alimentarne la dinamica. La disorganicità delle politiche di trasferimento, il disordine fiscale (non solo degli apparati, ma in primo luogo del quadro impositivo), il degrado dei servizi essenziali, costitutivi dello stesso Stato (dalla giustizia all'istruzione), la paralisi della capacità innovativa sulla grande legislazione (codici,

ordinamento degli enti locali, legge urbanistica e sui regimi dei suoli...) sono tutti sintomi della separazione che è intervenuta tra politica e problemi generali, nel senso che la prima non è più definibile come uno strumento razionale di soluzione dei problemi della collettività.

uesta situazione è dovuta ad un circolo vizioso tra politica e poteri privati, che è

consustanziale al nostro tipo di società, ma che

ultimamente si è avvitato su se stesso, stritolando la mediazione istituzionale. Il potere politico, dovendo competere con quello privato, anziché esaltare il proprio tratto peculiare (l'essere fondato sul consenso e l'essere il solo legittimato a orientare pubblicamente l'attività degli organi dello Stato, del governo locale e, in genere, delle istituzioni pubbliche), è sceso sul terreno di quello politico, spinto dal desiderio di dare a se stesso una base concreta, come appunto quella del potere privato: la disponibilità (finale) dell'uso della ricchezza.

A tal fine ha privatizzato l'uso della ricchezza pubblica facendone non solo il proprio strumento, ma la propria stessa base. Il potere c.d. politico non è più tale immediatamente (in quanto fondato sulle risorse proprie della politica), ma è tale solo in modo mediato, in quanto dispone privatamente delle risorse pubbliche. Non si tratta cioè solo di usare tali risorse per sostenere l'organizzazione politica, ma di fondare il potere politico stesso, di identificarlo, con la disponibilità immediata di quelle risorse (o degli strumenti che le producono). In questo senso si può dire che i partiti tendono a diventare immediatamente potere bancario, editoriale, amministrativo... È questo il «luogo» della questione morale come questione istituzionale e democratica. Questa situazione degrada la politica, perché cancella i momenti di valutazione generale degli interessi, in quanto il potere politico orientato sulla propria autoriproduzione ed utilità privata (personale o partitica) è essenzialmente interessato e strutturalmente funzionalizzato alle decisioni finali relative alla allocazione delle risorse (nomine, individuazione «personale» dei contraenti della p.a. e dei destinatari delle erogazioni, assunzioni,...). In questo consiste la «questione democratica»: l'esistenza di un «ceto politico» legittimato a fare ciò che non fa, e che fa ciò per cui non è legittimato, e che in questo si autoriproduce e si garantisce fino a svuotare il circuito dell'investitura democratica.

Una crisi, dunque, della stessa forma di Stato. Non una crisi da «partitocrazia» ma, paradossalmente, da deficit di direzione politica (partitica) in senso proprio. In questo contesto il potere politico diventa sempre più omogeneo e più

indistinguibile da quello 38

privato, e pertanto sempre meno legittimabile. Il partito-macchina che non sviluppa politica, ma che si autogarantisce attraverso l'uso immediato delle risorse, appare al più come un mediatore/spartitore (ancora utile in quanto

«ammortizzatore» delle spartizioni) oppure solo come un percettore di taglie, e dunque insieme inutile e dannoso.

Le basi di un programma di riforme politico-istituzionali

Al di là delle contingenze occorre vedere nelle critiche a questa situazione un movimento profondo che sta riproponendo (e rischia di farlo in modo vincente) una concezione del potere politico come

tendenzialmente ridondante e oppressivo, se non

ricondotto nei suoi minimi limiti «naturali».

In questi anni il ruolo del potere politico è stato pesantemente attaccato dalla critica c.d. «neo-liberista». Si è detto spesso che tale critica non contiene solo elementi ideologici e che, seppure non condivisibili nelle premesse e negli sbocchi, presenta elementi di verità. Senza affrontare problemi più generali (relativi alla crisi (?) del compromesso Keynesiano), si può dire che tali elementi di verità consistono — innanzitutto — proprio in quelli che coincidono con i dati di fondo della «questione

morale/democratica»; e cioè l'ampiezza e la disorganicità della spesa pubblica e dei suoi spazi discrezionali gestiti politicamente, e la parallela ampiezza delle occasioni di corruzione e di spreco. Divergono i giudizi di valore, perché la critica neo-liberista propone una riduzione secca della spesa e della discrezionalità attraverso una diminuzione delle dimensioni

dell'intervento pubblico (o comunque attraverso una diminuzione delle sue dimensioni «amministrative» in senso stretto, affidandone funzioni tradizionali alle imprese). Per quanto ambigue (i «liberali» italiani si sono sempre tenuti ben abbarbicati al denaro pubblico), le proposte di questo genere possono essere ricondotte all'impostazione classica del liberalismo, che considera il comando politico come tendenzialmente ridondante, e chiede la sua riduzione al minimo necessario, oltre il quale intralcia l'autoregolazione della società e la sua ricerca delle posizioni d'equilibrio. Per la sinistra queste

B a i g s p a s , j a * p a s s e le pièinier

Oa esl" la lumière?

li impostazioni sono

11 inaccettabili perché essa, alla q politica, assegna il compito b di realizzare «artificialmente» u un equilibrio diverso da p quello nel quale

sboccherebbe il darwinismo >2 sociale. La politica è, per la 12 sinistra, strumento essenziale b di razionalità sociale. E 'I l'intervento pubblico deve b dunque essere tanto ampio p quanto richiesto da questo ì fine equilibratore ed 0 ordinatore. il Ma quale politica è 3 essenziale? E quale invece, s anche per la. sinistra, può a essere considerata ridondante, j pericolosa?

J E essenziale quella politica 3 che si esprime nelle grandi :i istituzioni dell'eguaglianza ) (che realizzano, per un r verso, la democrazia politica 3 e, per l'altro, la

1 redistribuzione delle risorse i in funzione della garanzia 3 del principio della «pari 5 opportunità»), e nei i movimenti e nell'azione che i innanzi tutto si instaurano e 3 difendono queste istituzioni, a e che ne guidano l'attività. I È invece ridondante, inutile 3 e dannosa quella politica che l pretende di affermare il

proprio primato su ogni altra attività umana, e che, in particolare, per quel che qui interessa, pervade il funzionamento delle istituzioni oltre il punto della individuazione dei fini della loro attività. Questa politica disconosce l'autonomia della tecnica amministrativa e dello stesso principio di legittimità, perché pretende di piegare il complessivo funzionamento degli apparati, anche minuto, ai propri fini immediati. Tale pervasivìtà è alcune volte favorita dallo stesso assetto istituzionale, sulla base dell'erronea convinzione che ogni micro-decisione pubblica debba avere a proprio fondamento una mediazione politica (anche nel senso nobile di una reinterpretazione puntuale dei bisogni da soddisfare). Ad esempio: è essenziale che la sanità sia diretta da organi politici al fine di evitare che la medicina si rinchiuda sotto il dominio di una logica interna tesa solo alla ricerca e alla

applicazione di tecniche di cura, e si preoccupi invece della prevenzione, della diffusione uguale del

Nel documento Sisifo 9 (pagine 35-40)

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