idee ricerche programmi dell'istituto Gramsci piemontese dicembre 1986 B i Period. N.
INTERVISTA
a Mario Dianzani (*) a cura di Luciano Boriet U N I V E R S I T À E T E R R I T O R I OPiù volte, prima delia stia_ eiezione e durante il mandato, lei ha affermato che l'Ateneo torinese deve «recuperare centralità rispetto alla società». Che cosa significa centralità di un Ateneo rispetto alla società? Intendevo dire che
l'Università è il luogo naturale dove i problemi teorici sorgono e vengono discussi, la fucina che elabora i cervelli che devono lavorare e far prosperare la società, il luogo dove nascono e vengono dibattute le idee. Se queste idee nascono e vengono dibattute ad alto livello, ne verrà un riflesso ad altri settori della città. D'altra parte bisogna anche dire che noi universitari non possiamo elaborare soltanto teoria, abbiamo bisogno anche di applicarla. L'Università italiana deriva da quella tedesca del secolo scorso, la quale era imbevuta di positivismo. Grande ammirazione per la scienza, quindi l'Università che cerca di creare tanti piccoli scienziati. Bellissimo da un punto di vista culturale, ma poi questi scienziati,
imbevuti di tegria. mancano di pratica, e devono farsela a spese del prossimo. Se noi riusciremo a non dimenticare troppo la teoria, ed applicarla di più ai problemi concreti, il mondo che ci circonda si accorgerà di più di noi, dell'esistenza della struttura universitaria, in modo da creare una compenetrazione reciproca. È chiaro che per far questo occorrono sollecitazioni da parte del mondo della produzione: senza la scienza, senza un adeguato livello universitario una società non è una società civile. Inoltre, non dimentichiamo che all'Università ci si deve rivolgere comunque, perché è lo strumento che prepara i laureati, ossia coloro che occuperanno le posizioni di rilievo della società. Spesso non ci si preoccupa del loro livello di preparazione, ed è sbagliato.
Dopo due anni di mandato, ha la sensazione che questa centralità stia aumentando, avverte movimenti di fondo nella società locale che dimostrino, per così dire, un aumentato bisogno di Università?
In effetti, io non sono il miglior giudice: credo lo siano quelli che giudicano dall'esterno. Per quanto mi riguarda, il lavoro martellante che ho fatto (attraverso le inaugurazioni dell'anno accademico, le interviste, la presenza a riunioni dove dico in definitiva sempre le stesse cose), mi pare che abbia lasciato qualche traccia. Non c'è riunione di industriali o di politici in cui non si dicano in definitiva queste stesse cose, dunque sono idee che hanno raccolto consensi. Adesso bisogna però sviluppare ancora di più i rapporti, farli uscire
dal piano della impostazione teorica, farli entrare nel concreto.
In passato non sono certamente mancati i rapporti fra Ateneo e mondo della produzione, ma più che altro erano rapporti a livello personale, con singoli ricercatori. Quando l'industria mette gli occhi su un ricercatore, tende ad aiutare e sovvenzionare lui e basta, magari al di fuori delle strutture universitarie. Questo non è giusto, perché trascura le potenzialità che stanno dietro a quella persona, e che sono proprie della struttura di cui fa parte.
Allora, per dirla con una battuta, il mercato fa male all'Università...
In effetti il mercato, da un certo punto di vista, fa male all'Università. Non c'è dubbio però che, specie con la Facoltà di Scienze, i rapporti si sono molto incrementati. L'Unione Industriali ha pubblicato recentemente un Repertorio delle collaborazioni esistenti fra l'industria e l'Università: il fatto stesso dimostra che hanno sentito il problema. Parliamo allora di quantità e qualità delle domande rivolte dalla società civile, dal mondo della produzione all'Ateneo torinese, e di quantità di risorse investite nell'Università. Una valutazione molto sommaria delle convenzioni in corso, ci porta a concludere che il grosso delle richieste arriva dagli enti pubblici e, quanto ai privati, non risulta per il momento una grande qualità e quantità di rapporti. Se la tendenza, come lei dice, sembra essere espansiva, ciò dipende dall'attivismo delle varie parti, o ci sono ragioni di fondo?
Finora esisteva una specie di sistema di vasi non comunicanti. Io sono partito dall'idea di verificare che cosa sappiamo fare noi universitari, e che cosa vogliono gli altri: questo censimento è stato fatto, di questa prima fase sono soddisfatto. Ora bisogna però tradurre il tutto in iniziative. È stato un interesse soltanto
accademico? Ma allora tanto sarebbe valso rimanere chiusi nell'Università. Invece qualcosa si muove: per esempio, la Facoltà di Scienze sta per fare delle convenzioni, il cui testo deve però ancora venire all'esame del Consiglio di
Amministrazione. Qualcuno ricostruisce la storia di questa città, per lo meno nel dopoguerra, come storia di una one company 2
town, giungendo alla conclusione che la mono-coltura avrebbe prodotto una mono-cultura, anche fra i suoi avversari: si cita a questo proposito la tradizione operaistica del movimento operaio torinese. Altri hanno lanciato slogan polemici come: «una fabbrica, un giornale, un partito». Una situazione di questo genere può aver prodotto indifferenza, estraneità, diffidenza rispetto alla cultura e alla ricerca accademica?
Se c'è stato bisogno di un Rettore che facesse appello alla città perché si accorgesse che ha una Università, vuol dire che la città non se ne accorgeva. Per lo meno, i rapporti erano con alcuni settori dell'accademia, che facevano cose particolari, ad esempio con il Politecnico. Non so quanto i rapporti fossero con il Politecnico o piuttosto, come dicevo prima, con singole persone, ma c'era comunque un substrato. Con noi dell'Università c'era ben poco.
Ci sono però aspetti nuovi della politica culturale della grande industria che non depongono a favore di una sua particolare vocazione cittadina. Ad esempio, iniziative come quella di Palazzo Grassi a Venezia dimostrano la volontà, da parte della Fiat, di darsi immagine e strategie cosmopolite. In altre parole, una grande impresa che punti a diventare una vera multinazionale, ha davvero bisogno di mantenere un suo retroterra d'elezione? La Fiat ha collaborato a molte iniziative culturali, ma non in Torino, per lo meno molto poco in Torino. Anche I'Olivetti, del resto, ha puntato anch'essa su Venezia, sugli Etruschi, su tante cose, ma non su Torino. È da domandarsi il perché. D'accordo che Torino non è la capitale culturale d'Italia, e di questo bisogna rendercene conto. Ma neppure Milano lo è, dove invece iniziative sono state realizzate. Forse che a Torino non sono state fatte cose di grande rilievo? Per esempio, la mostra sulla Mesopotamia la esportiamo un po' dappertutto con grande successo, e l'hanno organizzata il prof. Gullini e l'Università di Torino. Eppure qui da noi ha trovato ostacoli di ogni genere. Poi la Provincia con il Centro Scavi l'ha un po' aiutata, ma gli enti economici cittadini molto poco.
Accennavo prima
ali'incontro-scontro politico,
sociale e culturale entro la monocultura della produzione e della grande industria. Da più parti si rileva però che la situazione sta mutando. A lei arrivano segnali che le differenziazioni sociali ed economiche in corso stiano davvero acquistando fisionomia, e stiano premendo per superare schemi e logiche tradizionali?
Se tra le forze economiche includiamo le banche, senza dubbio le banche torinesi si stanno muovendo: il San Paolo ad esempio sta facendo grossi sforzi per aiutarci, ed anche la Cassa di Risparmio. La Fiat per il momento no, e si dovrà vedere che cosa ha intenzione di fare, anche nell'operazione Lingotto. Gli altri industriali, tramite l'Unione Industriali, stando alle iniziative appena ricordate dimostrano, come dicevo, grande interesse: ma anche loro sono nella fase in cui devono concretizzare. Le sottopongo un altro tema di discussione. L'Università ed il Politecnico sono gli unici Atenei del Piemonte: il Politecnico ha una vocazione non solo regionale, ma interregionale se non addirittura nazionale; l'Università invece è frequentata per lo più da
studenti di Torino o della provincia di Torino. Non esiste dunque un sistema universitario regionale: di qui la richiesta per l'Università del Piemonte Orientale. Malgrado le pressioni localistiche e gli aspetti di forte campanilismo che
hanno punteggiato la vicenda, a suo giudizio siamo comunque in presenza di un progetto con una sua fisionomia, o si tratta di
sforzi ancora poco organici? Difficile dare una risposta. C'è stato indubbiamente il campanile che si è mosso, e poi il contro campanile che ha tirato a sé. In generale, • c'è la voglia di campanile
che pensa all'espansione della propria città, ad un fulcro culturale nell'interesse superiore della città, e poi ci sono quelli, magari gli operatori del settore, che hanno paura della concorrenza e cercano di essere il minor numero possibile.
Ma c'è da chiedersi se ci si arriverà davvero
all'Università del Piemonte Orientale. Intanto sarebbe disastroso se lo Stato pensasse di procedere riducendo le risorse attualmente assegnate a Torino: Torino è già in condizioni così precarie che se le riducono una parte del personale per alimentare il nuovo Ateneo e le dimezzano le attuali
dotazioni, sarebbe una vera tragedia.
In realtà le nuove sedi universitarie sono nate in questo modo, sono state realizzate senza alcun aumento di organico e più o meno con gli stessi
stanziamenti, il che vuol dire che la torta è stata divisa fra più Università. Le vecchie restano con tutti i loro bisogni, che vanno aumentando via via che ci si deve modernizzare. Se è cosi, meglio non fare Università nuove. Se si fa diversamente, la situazione piemontese, che in definitiva ha una città sola sede dì cultura, può migliorare.
Riflettendo sulle politiche per l'Università, ci si trova di fronte a grandi dilemmi, a partire da quello classico: sistema accentrato,
ordinamenti tutti uguali, decentramento ed espansione «per clonazione» oppure, all'altro estremo, autonomia, differenziazione, autogoverno nella gestione e negli
ordinamenti.
Dico subito che sono per l'autonomia. Anche la Conferenza dei Rettori ha approvato all'unanimità la richiesta di aumento
dell'autonomia. Naturalmente bisogna intenderci: questa autonomia non deve essere una licenza di organizzare come si vuole i corsi di laurea. Se il titolo ha valore legale, la laurea deve avere contenuti uguali in tutto il paese. Inoltre, se vogliamo il riconoscimento dei nostri titoli di studio nei paesi CEE e questi hanno il riconoscimento legale, dobbiamo adeguarci. Non entro nel merito: prendo atto, registro il problema. Ma trovo difficile in questo momento arrivare
all'abolizione del valore legale della laurea: il discorso andrebbe per lo meno portato in sede CEE, e dobbiamo quindi essere all'altezza dei paesi CEE. Nell'ambito di un modello riconosciuto, vorrei comunque che ci fosse molta più autonomia, che fosse possibile decidere meglio delle proprie sorti, che l'Università non fosse una esecutrice passiva di ordini dall'alto, cui si assiste molte volte con raccapriccio. Organici scarsi, piramide del personale rovesciata, impossibilità di assumere personale tecnico (che nei paesi civili è ovunque in quantità superiore ai docenti). Da noi il personale
tecnico non c'è, siamo tutti generali. Come riusciamo a fare ricerca?
Sull'autonomia degli Atenei ha già posto un limite: il valore legale della laurea impone ordinamenti omogenei, specie a livello CEE. Ma volendo insistere sulla via dell'autonomia, come vedrebbe una prospettiva per cui al sistema: Ministero/Atenei si sostituisse una partnership: Regione/A tenei?
Si corre un altro tipo di rischio. Io personalmente ho l'esperienza della Toscana: proprio perché ha tre Università, la Regione tenta di sostituirsi allo Stato, in definitiva cercando di sopprimere l'autonomia reciproca delle singole Università. Lo si vede bene dove la Regione ha già ora più impatto, per esempio nelle convenzioni ospedaliere. Non so quindi se la Regione non finirebbe per fare le stesse cose che fa lo Stato. È una vocazione dei politici, o delle istituzioni di governo?
Non so se sia una specie di malattia, però si dice: lo Stato fa così, siamo un piccolo Stato e facciamo allo stesso modo. Il politico in genere cerca di entrare negli ambienti della cultura per imporre i suoi orientamenti. Sostituire allo Stato le Regioni potrebbe quindi non essere la soluzione. La soluzione dovrebbe essere invece nella
autonomizzazione dell'Università stessa, dandole più potere e capacità di autodecisione. Le chiedo ancora: la dimensione regionale, così come è disegnata nei nostro ordinamento, sarebbe idonea a fare programmazione universitaria, ha attinenza con un sistema di sedi che storicamente ha origini municipalistiche? Cerca di averla, di programmare. Del resto, a mio avviso proprio alle Regioni toccherebbe di programmare il numero di laureati. Se l'Università deve vivere per il proprio ambiente socio culturale e l'ambiente per l'Università, allora sono d'accordo che si debba ricercare una maggiore integrazione fra Regione e sedi universitarie. Come dicevo prima, temo le Regioni come governo, ma le accetto come dimensione socio economica.
Sorge però un altro problema: un sistema regionale universitario ha inevitabilmente zone di confine con le Regioni
contigue. Per concretizzare con esempi di casa nostra, Novara è Piemonte o Lombardia?
Il problema è inevitabile, non solo per il Piemonte. Quanto alla domanda, bisognerebbe rivolgerla ai novaresi. La mia impressione è che si considerino lombardi, ma l'Università del Piemonte Orientale racchiude in definitiva poli decisamente piemontesi: Vercelli e la Valsesia sono certamente piemontesi, Alessandria anche. D'altra parte si devono trovare argomenti per decentrare: se l'ambiente è uno solo, tanto vale avere una sola fonte di cultura; ma è proprio dove esistono differenziazioni che queste vanno sottolineate. Si è parlato prima di rapporto stretto fra Università e contesto socio economico. A proposito del secondo Ateneo piemontese, sia pure nello scarso dibattito, c'erano e ci sono però orientamenti diversi: alcuni sostengono il modello della clonazione, perché realistico rispetto agli attuali ordinamenti; altri sono fautori dell'aderenza alle
tradizioni e vocazioni strettamente locali; altri ancora invece propongono differenziazioni e, al limite, rotture con il contesto. Quando ero Preside della Facoltà di Medicina ho seguito la via della minor resistenza, non una dottrina o una teoria. A noi andavano meglio tante sedi satelliti più che una Università nuova: pensavamo ad assolvere i nostri scopi istituzionali. Dal punto di vista di un pianificatore regionale, seguire ciò che
esiste localmente mi pare possa essere una soluzione. In passato (penso agli studi dell'IRES), si era parlato di Scienze forestali nel Cuneese: andrebbe molto bene; si parlava di una Università tecnologica nel Biellese: andrebbe anche bene. Si parla ora di Scienza dei materiali: starebbe bene a Torino, ma anche ad Alessandria, dove esiste sufficiente insediamento industriale. Aderire alle realtà locali significa che le nuove sedi sarebbero più sentite nell'ambiente socio culturale.
Accennavo prima ai dilemmi delta politica universitaria. Eccone un altro: conformità alle procedure, legalismo, garantismo ed egualitarismo oppure logica per obiettivi, deregulation, responsabilità ed incentivi individuali. La mia esperienza è che non si riesce a fare nulla perché lo Stato non si fida degli amministratori universitari, mette tanti di quegli inghippi, partendo dal punto di vista che siano ladri, che in pratica non è possibile rubare solo perché non si , riesce a fare nulla. Ne viene
fuori solo immobilismo. In parte ciò deriva anche dalla congerie di leggi
contraddittorie che bisogna conciliare, ma soprattutto dalla miriade di controlli che lo Stato immette allo scopo di impedire che nascano possibilità di disonestà (e, fra l'altro, non so neppure se ci riesca). Io non penso però ad una completa deregulation, ma ad una attenuazione dei controlli. Compatibilmente con questa situazione, che cosa è comunque possibile fare, in
sede locale, sin da oggi? Quando c'è buona volontà da tutte le parti, si riesce ad accelerare notevolmente i tempi. Poi magari si inciampa in qualche norma non prevista, o in errori di percorso che fanno perdere mesi. Ci si dovrebbe organizzare meglio, a partire da noi: ma l'Università, per fare questo, ha bisogno di personale, e dovremmo poterlo assumere localmente. Tutto il settore del personale dovrebbe essere gestito localmente, ricorrendo al mercato.
Se avessimo autonomia potremmo assumere più gente, valutarla meglio, evitando il sistema dei concorsi nazionali, con i suoi punteggi che spesso invece di produrre giustizia producono ingiustizie. Potremmo anche pagare stipendi migliori: attualmente concorrono all'impiego quelli con meno risorse sul mercato, soprattutto quelli delle regioni meridionali, che appena assunti chiedono il trasferimento alle loro città, e se viene loro negato si mettono in mutua senza possibilità di controllo da parte nostra. Di casi di tal genere è piena l'Università. Lei ha aperto uno spiraglio su una questione grave. Uno degli argomenti forti contro la concessione di sostanziali autonomie, è che ciò quasi certamente farebbe aumentare il divario già esistente fra Atenei del Nord e del Sud. Possiamo ipotizzare che un aumento di autonomia sarebbe liberatorio per energie presenti al Sud, o non farebbe che peggiorare le cose?
'(Domanda difficilissima, nllndubbiamente il clientelismo éilà è certamente spinto al rumassimo. L'ambiente di Jfquelle Università è ihdifficilmente modificabile, è iqpiù forte delle leggi, più Jìiforte di qualunque tipo di ^.organizzazione. Da questo qjpunto di vista, l'autonomia Sjgià esiste di fatto, ed è ^difficilissima da penetrare. 'Ilio ho conoscenza diretta bidelle Università sarde, per il qiperiodo trascorso a Cagliari, siche considero in fondo la nimia esperienza accademica j;più gratificante. Lì ci sono s altri problemi: di parentela, >• di faide terribili fra I professori. Ma mentre i Sassari era considerata sede > di passaggio, a Cagliari il [ problema era di sardizzarsi • completamente, e
; gradualmente ci sono riusciti: i questa loro autonomia
conquistata di persona la considero molto positiva. In altre parole, è molto difficile generalizzare.
Quali sono le frontiere prossime dell'Ateneo torinese, che cosa possiamo ipotizzare per i futuri 5/10 anni?
Per il momento vanno risolti il problema edilizio e quello del personale: sono problemi concreti. Quello del personale non possiamo risolverlo noi, ma solo Io Stato. Quello edilizio possiamo risolverlo noi, ma dobbiamo essere aiutati. Ho impostato un programma volto a superare un gap di 100 anni: oltre a Palazzo Nuovo, in cent'anni non si è fatto altro. Penso ad un Ateneo di livello europeo per ; lo meno nella struttura
edilizia. Poi bisognerà metterci gli apparecchi e le teste. Non ci riuscirò io, nemmeno il mio successore e neppure quell'altro ancora, ma ad un bel momento i risultati si dovranno vedere. Prof. Dianzani, ma Torino è davvero in crisi economica, sociale, di identità, e comunque è davvero così provinciale?
Dipende da dove si guarda: non è in crisi, né
provinciale, per l'industria dell'auto, anzi è la capitale. Dal punto di vista culturale , rischia di diventare
provinciale, se tutto si addensa a Roma, un po' perché è la capitale e un po' perché quello che non si riesce a ottenere per forza di diritto lo si ottiene con la ; clientela. Qua è molto più difficile: direi che c'è molto meno clientela a Torino che ' in qualunque altro posto
d'Italia, il che è molto j positivo. Quanto a iniziative
e centri culturali, qui ce n'è più che in tante altre città. Una delle prime cose che
Jacques Tardi
più mi ha sorpreso quando ventuno anni fa arrivai a Torino, fu che le Accademie, quella di Medicina per esempio, si riuniscono dopo cena (il che è inconcepibile anche in Toscana, dove pure siamo lavoratori). Si va all'Accademia come nel salotto, e ciò vuol dire che c'è afflato culturale, che si cerca la cultura. Non credo insomma che Torino sia così periferica come si dice: ha bisogno ogni tanto di essere risvegliata, perché sennò va alla monocultura davvero. È tutta orientata attorno all'automobile, e questo non è giusto. Ad ogni convegno il prof. Matteoli dice che Torino non è la città dell'automobile, è un sacco di altre cose. Io penso invece che ci sia il fiero rischio che lo diventi davvero.
L'Università potrebbe diventare dunque una specie di contraltare?
In un certo senso, sì. Purché anche gli altri capiscano che questo contraltare è utile a loro stessi. Naturalmente, non un contraltare in lotta, ma un contraltare di pensiero, questo sì. Da! suo osservatorio, che consigli o critiche si sente di rivolgere alta sinistra, in tema di politica universitaria?
Per esempio, in merito alle proposte della Falcucci sugli ordinamenti universitari, nella conferenza dei Rettori mi sono trovato molto vicino alle posizioni di Luigi Berlinguer e Ruberti, che fra l'altro scavalcavano a destra, per così dire, le posizioni della sinistra e le stesse mediazioni già raggiunte fra i Rettori. Un altro esempio: ho partecipato alla
consultazione di accademici e uomini di cultura fatta dal PCI prima dell'ultimo suo Congresso nazionale. In quella sede Natta riconobbe che posizioni prese in passato dal partito (per esempio sull'abolizione degli
assistenti e sulla
liberalizzazione degli accessi), attualmente non sarebbero più sostenibili. Ciò vuol dire uscire da posizioni
dogmatiche, confrontarsi con la realtà, il terreno dove tutti si incontrano. C'è stata in un certo periodo, specialmente a sinistra, una lotta di bandiera. Mi sembra viceversa che ora si vada verso i problemi concreti, e mi pare una linea da perseguire, l'espressione di una pragmaticità molto valida. Far problemi di impostazione teorica può portare ad involuzioni. Non per polemica, ma per capire: di fronte alla crisi del sistema universitario, di fronte alte enormi difficoltà di interagire con una società anch'essa in crisi epocale, lei accusa la sinistra di avere inseguito bandiere, invita alla concretezza, e con gli esempi citati suggerisce che, misurandoci sulle cose, non hanno ragion d'essere le discriminanti destra/sinistra. È proprio così. Il
Sessantotto, che considero un momento di pensiero, fu molto utile perché la situazione era cristallizzata e ci volevano dei cambiamenti. Ha però commesso il peccato, per così dire, di mancanza di concretezza: ha distrutto sulla base di un principio, però non ha saputo proporre. La sinistra non è sempre stata così, però in quel periodo ha corso talvolta dietro bandiere. Non accuso solo la sinistra, ma anche la destra conservatrice. Prendiamo la questione del Dipartimento: se uno era di sinistra lo voleva, se di destra no. Invece era giusto perché dava autonomia alla ricerca, riducendo notevolmente le pastoie burocratiche. Il Dipartimento era una questione di efficienza, non una guerra tra destra e sinistra: ne è risultato un compromesso, un sistema ibrido. Quello che mi piace di più nelle persone di sinistra con cui sto collaborando, è proprio la concretezza, l'andare allo scopo.
(*) Rettore dell'Università di Torino.
M A T E R I A L I D I D I S C U S S I O N E
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LA CITTÀ PROMESSA.
RIFLESSIONI
SULLA POLITICA
URBANISTICA (1975-85)
di Raffaele Radicioni li scritti comparsi su Sisifo n° 8 a firma di Silvano Belligni e di Carlo Socco sollecitano a tornare sulle seguenti questioni: 1) in quali termini i piani formulati dal Comune e dal Comprensorio di Torino potevano assolvere alla esigenza di «progetto unitario affidato alle sinistre nel '75»?2) cosa significa che «venne a mancare il contesto politico» in grado di sostenere quei piani? È utile rammentare che l'assetto della città è principalmente funzione: del ritmo di crescita (o di declino) dell'economia locale e delle componenti sociali relative;
della modalità di distribuzione ed appropriazione dei valori della rendita fondiaria. Può sembrare ovvio riconoscere che la componente economica sia alla base della
trasformazione fisica e sociale della città. Per comprendere però l'incisività del «progetto unitario», interessa valutare la politica della sinistra e delle amministrazioni di Torino nei confronti di detta componente.
Nel '75 appartenevano ormai al passato il gigantismo industriale e le componenti urbane relative: la concentrazione economica e sociale, gli elevati ritmi di crescita demografica. Da tempo (ben prima del '75) si imponeva l'esigenza di diversificare la struttura produttiva torinese, di sviluppare e comunque arricchire i servizi a favore delle famiglie e delle imprese.
Il tema dell'occupazione, non ancora in forma drammatica, unitamente al problema del «cosa produrre», impegnava riflessioni e proposte per una fase dello sviluppo, nella quale appariva necessario raccordare condizioni e luoghi della piena occupazione con quelli del ristagno e della marginalità, nella regione e nel paese.
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a constatazione della fine di una fase storica non solo nazionale, caratterizzata dalla concentrazione in pochi luoghi del paese delle risorse umane e materiali e ad un tempo l'individuazione di nuove politiche economiche, fondate sulla ricerca di nuovi prodotti come di nuove modalità di produzione, inducevano la sinistra (ma non solo essa) a considerare conclusa la fase dello sviluppo per aree metropolitane.
Le nuove linee coinvolgevano anche l'ordinamento dello Stato: puntavano a decentrare vieppiù i poteri, anche dopo l'istituzione (1970) delle Regioni a statuto ordinario. Il sistema economico e sociale di Torino — al pari delle altre aree metropolitane — assolutamente
incontrollabile da alcun comune, per quanto grande, sembrava governabile solo nel sistema regionale, il cui ordinamento, articolato dal '75 in Piemonte per Comprensori, investito del potere di programmare e di legiferare, almeno in alcuni settori, appariva in grado di incidere anche sulla realtà metropolitana, fin ad allora in balìa solo delle scelte del grande capitale industriale. In ogni caso l'assetto urbano era ed è determinato oltre che dalla quantità dello sviluppo, anche dalla sua modalità di distribuzione territoriale.
La collocazione specifica degli interventi, conseguenti allo sviluppo, avviene (è bene ricordarlo ai distratti e ai pentiti) tramite la distribuzione spaziale della rendita fondiaria urbana. I suoi valori costituiscono le coordinate economiche dello spazio geografico; si formano e si propagano per effetto ad un tempo della domanda di insediamenti e degli investimenti pubblici, fra cui soprattutto quelli per i trasporti e le
comunicazioni; si fissano in modo differenziato su ogni lembo di suolo ed attraverso ad esso, incidendo sul costo d'uso degli immobili, ne caratterizzano destinazioni, tipologie, densità.
Gli effetti sono noti: i valori della rendita selezionano le famiglie e le attività economiche; specializzano i luoghi; sono variabili nel tempo, per effetto del mutare (anche culturale) della domanda e del flusso degli investimenti sul territorio.
La distribuzione della rendita, e quindi le condizioni strutturali per insediare o trasferire attività e popolazione, dipende così in larga misura dalle decisioni degli enti locali. D'altro canto gli aspetti sovrastrutturali, concernenti cioè l'appropriazione dei valori della rendita stessa, sono invece regolati dai provvedimenti giuridico-normativi, attinenti soprattutto al regime dei suoli.
seguito di un ^ f l s confronto culturale e
politico durato circa quindici anni, nel '75 un movimento ampio, sostenuto dalla sinistra, appariva in
njjrado di portare a o;;ompimento la riforma del isvegime dei suoli. Si erano 'rimossi infatti i primi passi o:;onsideratì decisivi nella
ìtBirezione di conferire agli wjnti locali il potere di aitìecidere quando, dove, in Jfljuale modo trasformare la ù:sittà: ovunque, nelle aree iiiibere come in quelle già «edificate.
^•Slel '75 vi era dunque piena ^coscienza che il governo >i£lella città avrebbe richiesto '¿decisioni che coinvolgessero lispecificatamente tutta ' l'articolazione
bell'ordinamento dello stato: i livelli di vertice (Stato centrale e Regioni), più i;incidenti sul meccanismo fcdell'accumulazione; i livelli Giocali (Regioni e Comuni), ¿istituzionalmente operanti nel »«settore dei servizi e delle ^infrastrutture, quindi cmaggìormente inerenti lo >x<stato del benessere». W è dì più. Alla metà degli sannì '70 nel PCI sembra sgiungere a maturazione, ssorretto da un consenso ¿sempre più ampio, un idisegno ambizioso ed aentusiasmante. Esso non è iquello — dejà vu — di saccedere alla stanza dei ¿bottoni, ovvero di estendere »soltanto la responsabilità di sgoverno a qualche altra j.grande realtà amministrativa,
oltre a quelle tradizionali, e pure gloriose, dell'Emilia e del centro Italia.
Quel disegno mira alla riforma della base
produttiva, dell'ordinamento dello Stato, delle condizioni di vita delle grandi masse del paese. Il disegno è ricco e complesso. Non può essere scambiato in nessun modo per l'aggiornamento della teoria leninista della presa del potere.
ppure, attraverso un w s cammino che si
intravvede lungo e difficile, la trasformazione «molecolare» della società civile e dello Stato sembra rendere concreta la formulazione teorica della «via italiana al socialismo» (la terza via).
E parte di tale disegno il compito attribuito sia allo Stato centrale che al sistema delle autonomie di operare in modo interdipendente nel pieno e totale rispetto e tuttavia fino al limite della legge, per radicare ed estendere anche per questa via gli «elementi di socialismo», avvalendosi costantemente del movimento più ampio di tutti gli strati sociali.
In tale temperie, in una fase della storia, nella quale
l'ambiente urbano sembrava costituire l'unico assetto possibile della società moderna, rispetto a quel disegno, non potè
considerarsi né settoriale, né illuminista voler ripensare la condizione stessa della città. Se infatti nella città convergono i sistemi principali in cui si articola società e stato, ripensare la città in termini concreti, in sede amministrativa e non puramente teorica, significa voler modificare a ritroso detti sistemi e quindi confluire con apporti specifici nella più ampia azione riformatrice. In questo solco va ricercata la risposta al primo quesito ripreso all'inizio dallo scritto di Socco. on soltanto la proposta di piano regolatore, elaborata a Torino fra il '75 e l'80 quale strumento
amministrativo previsto dalla legge, ma più in generale la politica in tema di governo del territorio, muovevano dal presupposto della esistenza delle condizioni oggettive e soggettive per ripensare la città.
Se la metropoli era stata il luogo modellato ad immagine ed a somiglianza del gigantismo industriale, una nuova città sarebbe sorta da un sistema urbano di dimensione regionale, fondato su presupposti economici di risanamento e di sviluppo, ad un tempo locali e nazionali.
Se nella metropoli il potere economico aveva potuto prevalere, anche in virtù dei vuoti lasciati
dall'ordinamento dello Stato, una nuova città sarebbe stata retta da un potere democratico, che, articolato in specifici istituti, avrebbe stabilito e fatto funzionare i collegamenti necessari: dal quartiere al vertice dello Stato.
Se la metropoli era stata il luogo della segregazione in dipendenza del reddito o della origine sociale (anche razziale), una nuova città sarebbe stata il luogo degli uguali e ciascuno, in virtù del sistema di trasporto, sviluppato a partire dalle periferie, avrebbe potuto liberamente scegliere la propria residenza. Se nella metropoli la logica del massimo profitto aveva concentrato in poco spazio, in modo abnorme e congestionante i grandi servizi del credito, del commercio specializzato delle pubbliche amministrazioni, giungendo non di rado a distruggere beni e caratteri preziosi del passato, ebbene una nuova città, dotata di una diversa geografia dei
valori fondiari, di un sistema di trasporto meno centripeto, avrebbe distribuito quelle attività riducendo la congestione, garantendo migliori servizi, valorizzando i beni storico-culturali. Se la metropoli aveva mortificato e smentito le esigenze più elementari di spazio per la scuola, per il verde, per il parcheggio, per vivere degnamente anche da fanciulli e da anziani, una nuova città avrebbe trovato le risorse di suolo necessarie, rinnovando se stessa a più bassa densità e ad un tempo ampliando le proprie dimensioni.
Se la metropoli era stata il luogo del massimo degrado, dell'inquinamento, del saccheggio delle risorse naturali, della privatizzazione dell'ambiente collinare, una nuova città avrebbe curato quei mali, in una prospettiva né breve né facile, ma sicuramente non più ostacolata dalla
appropriazione privata della rendita urbana.
Se nella metropoli l'anonimato, la periferia erano assurti a simbolo della condizione urbana stessa, una nuova città, grazie al radicale ripensamento di tutte le proprie componenti economiche, istituzionali, infrastnitturali, avrebbe via via favorito anche l'invenzione di una nuova immagine urbana.
ggi ritengo non m M rispondente al vero
affermare (come afferma Socco) che «quel progetto al momento di tradursi in azioni concrete si è bloccato».
Non è questa la sede per trarre un bilancio nei vari campi di azione della Amministrazione di sinistra a Torino nel periodo '75-'85. Tuttavia non sarei così sicuro che mettendo a confronto realizzazioni ed obbiettivi di quella Amministrazione con realizzazioni ed obbiettivi di altre Amministrazioni, precedenti e seguenti l'intervallo '75-'85, siano i primi a doverne scapitare. Ritengo pertanto sbrigativo il bilancio che, analogamente ad altre occasioni, è operato in termini di «capacità progettuale offuscata». La questione che interessa trattare, la seconda di quelle prima richiamate, verte allora non sulle capacità amministrative delle giunte di sinistra a Torino, che ritengo ampiamente provate dai fatti, né sugli effetti tutti soggettivi di un eventuale offuscamento, ma sulla possibilità-capacità di attuare quegli obbiettivi ben più ambiziosi, che esse stesse formularono in tema di
costruzione di una nuova città.
La questione verte cioè sul significato e sulle ragioni del «mancato contesto politico», come del resto afferma Socco, capace di sorreggere piani e programmi di profonda trasformazione, in particolare a Torino. Si è appena sottolineato come la politica per la città si avvalesse fra l'altro della chiara individuazione delle componenti e delle istituzioni che avrebbero dovuto essere coinvolte nell'azione riformatrice, in vista di un nuovo assetto urbano. Questo compito si presentava certamente impegnativo e difficile, in particolare per l'ampiezza e la complessità del fronte investito.
^ a stagione prorompente M del '75 aveva spinto gli My enti locali, specialmente i comuni (certo Torino) ad esaltare i temi
maggiormente legati allo stato del benessere: i servizi, le condizioni sociali ecc. Emergeva però anche il tema dell'accumulazione e diventava via via più acuto, a partire dalla seconda metà degli anni '70, con l'aggravarsi della crisi di ampi settori produttivi. La stagione dell'unità nazionale si infranse prima che fossero date risposte durevoli ai problemi vecchi e nuovi del paese.
Dall'80 il tema dell'accumulazione divenne altresì il tema dell'occupazione anche a Torino. Sopravvissero ali'80 le Amministrazioni di sinistra, anche perché il governo locale meno era esposto al conflitto su occupazione e accumulazione.
Tutto questo non fu privo di conseguenze: si formò infatti una frattura netta fra i due tronconi dell'iniziativa politica. Da un lato le elaborazioni e le iniziative generali, dall'altro quelle locali, chiuse dentro questioni amministrative soprattutto dei comuni. Il PCI stesso pose sempre più l'accento sul fatto che in coalizioni di sinistra, specie nei comuni, amministrava ben oltre il 50% della popolazione nazionale e comunque le principali agglomerazioni, dove si concentrava il maggiore potenziale economico e sociale del paese. In forza di ciò rivendicò il massimo di iniziativa a quel livello ed il passaggio dei poteri direttamente ai comuni: dalla casa alla sanità, quasi che il potere negli enti locali fosse acquisito alla sinistra una volta per sempre. La realtà locale, il livello della gestione amministrativa
diventò il terreno su cui operare per riconquistare la legittimità al governo nazionale.
Questo stato di cose non fu irrilevante — a mio vedere — addirittura sulla revisione , : della strategìa delle alleanze: dal compromesso storico alla £ alternativa di sinistra.
^ ^ partire dall'inizio degli ' il t / t y anni '80 la metropoli
fu riscoperta dal PCI 1 e divenne nuovamente la
cornice più ampia che si fu disposti a ritagliare attorno alle grandi concentrazioni urbane.
Tanto più acuta si faceva la i crisi tanto più penetravano
nelle realtà locali i temi dell'accumulazione e quindi dell'occupazione.
La spaccatura fra i due tronconi dell'impegno politico si fece sentire con sfasature e contraddizioni profonde.
Il livello della gestione
amministrativa si caricava di t significati impropri. Si
accreditò la tesi che dalla realtà locale fosse possibile incidere direttamente sull'occupazione senza valutare adeguatamente la carenza di strumenti di governo. In quel modo le Amministrazioni locali divenivano responsabili della crisi e del calo
dell'occupazione.
Tipica fu la discussione sulle 5 aree di trasformazione
industriale a Torino, da tutti : ii viste come occasioni di
rilancio dell'accumulazione. In buona sostanza la spaccatura dei due tronconi generale-locale, stato del benessere-accumulazione
interruppe la dinamica aperta b: con la politica delle riforme. Il livello locale divenne prigioniero del quadro economico, legislativo, istituzionale esistente; valga per tutti la condizione della finanza locale, l'involuzione della legislazione sui suoli urbani. Dentro quel quadro sempre più ferreo in virtù della crisi, della
trasformazione delle imprese, ; delle modificazioni sociali, quanto più ampi erano conclamati i poteri, tanto più si riducevano i margini di azione del governo locale. Le scelte furono spinte a tornare nell'alveo del possibile/compatibile con gli interessi della rendita urbana.
r
ivalutata la metropoli, ,i anche l'articolazione dei poteri locali, malgrado affermazioni rituali, non potè che esercitarsi a spese dei governi regionali: si sollecitarono e sìinstaurarono rapporti diretti Stato centrale-grandi comuni. ,i 8
1 Prendendo le mosse dalla 3 crisi e dalla ristrutturazione b delle attività produttive, a dalla conseguente riduzione :> dell'occupazione nella città e i nella provincia, sì 3 abbandonarono le scelte 1 precedenti, giudicate s anacronistiche, in quanto 1 legate ad un programma di i sviluppo economico e i territoriale dì dimensione [ regionale sbrigativamente ; giudicato non più • opportuno.
La crisi e la ristrutturazione di interi settori produttivi spinsero la sinistra ad abbandonare i precedenti programmi torinesi di decentramento economico e demografico ed invece a privilegiare le aree di Torino, numerose ed estese, già sedi della produzione; valga per tutti il caso Lingotto.
In queste condizioni, con il mutare cioè delle politiche economiche e territoriali della sinistra, che era stata l'anima ed il nerbo della estesa e complessa politica delle riforme, al progetto della città, elaborato da Torino negli anni precedenti, vennero a mancare i presupposti stessi su cui si fondava.
Così ad esempio il decentramento di popolazione, di attività, soprattutto di servizio, nel progetto significava non tanto l'esportazione delle componenti dello sviluppo torinese — per altro già cedente alla metà degli anni '70 — quanto piuttosto il presupposto per la riorganizzazione dell'ambiente progressivamente dalla tranvia verso la metropolitana classica, incentrata su poche linee limitate dentro i confini di Torino, in grado di inchiodare per sempre tutta la centralità torinese sul nocciolo tradizionale della zona aulica.
Dopo gli interventi di trasformazione urbana realizzati dal '75 all'82 sicuramente poco valorizzati, ma significativi della possibilità di controllare quantità, valori economici, densità, livelli ambientali, ogni prospettiva di uscire dall'eccezione per entrare nella norma fu colpita al cuore dal naufragio della legislazione nazionale sul regime dei suoli e dalla breccia aperta anche nelle file della sinistra dal mito della deregulation. Dopo anni di discussione (dall'80) sull'opportunità di decentrare le sedi dell'attività giudiziaria, la soluzione improvvisata allo spirare della Giunta monocolore PCI (fine '84) tolse definitivamente ogni credibilità ad una politica di decentramento o almeno di contenimento della centralità nel cuore di Torino. In quelle condizioni il passo fu breve: il progetto per una nuova città uscì dalla sfera dell'azione amministrativa per rientrare nell'utopia. Ripensare la città oggi credo significhi non soltanto riscoprire quel progetto, ma soprattutto muovere dallo stesso presupposto: cambiare la città è cambiare la società.
urbano. Dichiarare invece superata la fase del decentramento — come si continua tuttora ad affermare — per effetto della crisi economica e sociale torinese, ha significato in realtà rivedere la politica di assetto territoriale.
Infatti se i contenuti e gli obbiettivi di questa politica fossero rimasti validi, allora il decentramento, come manovra territoriale, avrebbe dovuto apparire tanto più ! praticabile nella fase, nella
quale esso si presentava ; concretamente perseguibile, i in virtù della rarefazione del i contesto urbano.
. In effetti, invocando la crisi
e le sue conseguenze, come Jacques Tardi: copertina di « B. D. Polar» © Casterman ragione del mutamento delle
politiche a suo tempo elaborate, il nuovo corso non solo consentiva di rinchiudere nuovamente la città dentro i luoghi delle economie esterne, direttamente utili alla produzione, ma trascurava altresì le altre componenti del progetto urbano, riguardanti ad esempio il potere di governare la formazione e l'acquisizione delle rendite urbane.
Torino non tardò a manifestarsi sempre più marcato il divario fra strategìa generale per la città ed azioni
amministrative.
Condannata fin dall'80 ogni sopravvivenza
dell'ordinamento
comprensoriale, nessun ente realmente capace di governare su un'area vasta avrebbe potuto formarsi in tempi utili per realizzare almeno parti del complesso sistema urbano, tutto proiettato fuori dai confini di Torino.
Una nuova rete dei trasporti e delle comunicazioni, coerente con gli obbiettivi di distribuzione territoriale della centralità, aveva tardato troppo a porre anche solo i germi della propria esistenza. Di contro i progetti, più volte allestiti per contrattare con gli organi ministeriali la legittimità di accedere ai finanziamenti dello Stato (del resto assolutamente aleatori), presentavano un livello tecnologico, che evolveva
STATI E R U O L I N E L C I C L O D I V I T A D E L L E P O L I T I C H E P U B B L I C H E di Alessio Lo Faro ^ i va sempre più diffondendo l'abitudine a gestire l'attività politica e le campagne elettorali con l'assistenza di esperti del marketing; ciò denota la consapevolezza latente che i «grandi ideali» hanno perduto parte della loro capacità di mobilitare le coscienze e di conquistare consensi, e fa nascere un nuovo filone della tecnica della comunicazione, che assume le politiche pubbliche come un prodotto da promuovere: e come tale lo tratta seguendolo nell'arco del suo ciclo di vita. A questo stile si dovrebbero adeguare anche le analisi delle politiche pubbliche. Infatti, una politica pubblica, comunque la si voglia definire, evolve e si manifesta nel tempo, secondo modalità diverse, ed è osservata da punti di vista differenti; l'elettore, il politico, l'imprenditore, il filosofo, il sociologo, il metodologo e lo storico sono, ad esempio, altrettante figure che valutano una politica pubblica in tempi, con metodi e con criteri solitamente non coincidenti. È raro il caso in cui si analizzi una politica pubblica che abbia esaurito gli effetti; solitamente si interviene nel corso del suo ciclo di vita: e allora il giudizio, più che provvisorio, dovrà essere mirato, dichiarando il momento, i metodi e la prospettiva secondo cui si procede alla valutazione. Le politiche sono costituite da enunciazioni, da azioni e da risultati: non si può dare per scontato che esista coerenza tra le varie fasi, né che, in termini operativi, sia automatica la compatibilità tra le azioni differenti che dovrebbero produrre risultati in specifiche e separate politiche settoriali; né si può escludere che, alla fine del ciclo di vita, le azioni di immediato successo di una politica settoriale si rivelino un insuccesso e si scopra, invece, che azioni meno appariscenti, in altri settori, abbiano provocato svolte irreversibili in direzione della politica complessiva che, all'origine, si era dichiarato di volere realizzare. Si potrebbe dimostrare, ad esempio, che l'urbanistica del «decennio rosso» nella Regione Piemonte ha esaurito da tempo — e con pochi risultati — il suo «effetto dimostrativo» (ma si era parlato di politica costituente!), mentre l'impostazione «problem solving» data, nella stessa sede, alla politica sul commercio ha generato azioni i cui effetti di riforma — già avviati — per ora si intravedono appena, ma si manifesteranno
LE PTÉRODACTYLE A ENCORE TUÉ ! 5 MORTS
NUIT DERNIÈRE.' 7 Demander LA GAZETTE DE BIARRITZ ! NOUVELLE GF AGRESSION F L DU MONSTRE! L OU'ATTEND LE F> GOUVERNEMENT R FTEUR PRENDRE DES M MESURES? LA CAPITALE TREMBLE! LE MONSTRE FAIT ^ RÉGNER F • w r ^ M U R l / LA SITUATION C EST IHTOLÉRABU ! LE GOUVERNE-^ MENT SE R E N D E I R E 5 f t * S A B l £ y f S m ± a w fVtoMOYU! IA FBLICE EST IMPUIS-SANTE! LÉPINE , DEMISSION.1
3 compiutamente, senza i richiedere ulteriori q provvedimenti, entro i 3 prossimi quattro anni. > Ciò non stupisce gli esperti i di marketing, poiché il 3 destino della «politica delle J predicazioni» (dimostrativa) è i il cosiddetto «trickle effect» ) (esaurirsi goccia dopo ! goccia), mentre quello della • «politica delle realizzazioni» i è il suo mutamento in «bene • di cittadinanza» (in i componente, cioè, della
cultura che cambia). Il problema di base non consiste, però, nello stabilire «a posteriori» se una polìtica pubblica sia stata solo dimostrativa o sia diventata (o si avvii a diventare) valore essenziale di una società trasformata; semmai, il vero problema risiede nella stima «a priori» della probabilità che essa si concretizzi o nell'una o nell'altra delle due possibilità.
Una politica pubblica sceglie assai presto una strada al bìvio tra i due diversi destini che le si prospettano; ad esempio: quando assegna il peso ai vincoli posti dall'ambiente (in confronto con quelli, artificiali, costruibili con un sistema dì norme); quando valuta (e programma) il grado di preferenza da attribuire alle azioni di equilibrio (in confronto con le azioni che provocano situazioni di squilibrio); quando riduce (o allunga) l'orizzonte temporale rispetto al quale sono «pre-detti» i risultati; quando attribuisce uno specifico ruolo ai politici e ai tecnici nel corso del processo decisionale.
Molto brevemente, perciò, si può dire che gran parte del destino di una politica pubblica è determinato già nel momento in cui si sceglie la metodologia (e il modello di razionalità) che presiede alla formazione delle decisioni.
^ a flessione delle m tendenze aggregative ^ intorno ai grandi ideali
potrebbe essere assunta come premessa — e giustificazione — di un «indebolimento» del modello di razionalità globale (o sinottica); questo modello, infatti, implica il dominio e la sintesi di una gamma troppo ampia di informazioni — e delle interconnessioni tra esse — che richiedono non solo capacità sovrumane, ma comportano anche l'assoluta congruenza tra gli scopi e i sistemi di valutazione di tutti i soggetti; perciò quanto meno un gruppo sociale è permeato da dogmi e da grandi ideali, tanto più si rivela impraticabile il
modello della razionalità globale.
Questo, tuttavia, può non significare come qualche segnale rivela, l'abbandono completo del modello di razionalità globale a favore di altre concezioni della razionalità; la scelta dei fini coerenti con una visione politica e la determinazione dei criteri di valutazione dei risultati conseguiti, possono essere — forse, dovranno essere — il frutto di deduzioni rigorose (e tendenzialmente definitive) ottenute applicando un sistema di sillogismi collocabile nel modello della razionalità globale. Devono, invece, stare fuori da tale modello le procedure per il cui tramite ci si propone il raggiungimento degli scopi: esse, infatti, non possono essere
predeterminate in modo definitivo, poiché devono tenere conto della instabilità dell'ambiente e della forza (di pressione e dì resistenza) degli interessi in campo, dei tempi necessari per produrre i primi risultati (e delle scadenze elettorali), della precarietà dei sistemi informativi pubblici (e delle imprecisioni delle stime), dell'incompletezza dello spettro delle variabili che possono essere considerate, ecc.; piuttosto che il modello della razionalità globale sembra sia preferibile, perciò, quello della razionalità processuale (o delle comparazioni limitate successive).
L'impostazione
«processuale», consistente, per lo più, nel confronto continuo delle politiche proponibili con lo status quo, e nella scelta di quella che produce incrementi (di decisioni e di politiche) in presenza del massimo consenso degli interessi coinvolti, presenta anch'essa importanti controindicazioni. Un rischio che si corre è che il problema cessi d'essere quello che si voleva affrontare e si trasformi in quello della gestione del consenso, con tutte le implicazioni del caso; ad esempio: si paga il prezzo della ridefinizione dei fini e non solo dei mezzi ed in tale modo la sequenza di aggiustamenti successivi non rappresenterà più la messa a punto delle azioni da intraprendere (nell'ambito dei fini che non si pongono in discussione), ma la ridiscussione della «politica» a vantaggio dei gruppi organizzati, che impongono il loro sopravvento nei confronti degli interessi delle categorie sotto-privilegiate. Possiamo, perciò, convenire con DROR, quando afferma la necessità di un superamento di entrambi i modelli di razionalità, attraverso forme di «razionalità creativa», da favorire metodologicamente attraverso la progettazione delle «procedure decisionali che sono necessarie per poter decidere».
Questo rinvia al ciclo di vita della politica pubblica; infatti, a seconda della fase considerata, cambiano gli argomenti sui quali si deve decidere e cambiano anche i soggetti ai quali compete tale responsabilità. La confusione dei ruoli e dei temi da trattare è, probabilmente, la causa principale
dell'ambiguità e
dell'inefficienza (rispetto agli obiettivi prefissati) che si rilevano nelle politiche pubbliche.
La fase che si può chiamare della scelta delle finalità, comporta l'enunciazione di giudizi di valore che l'appiattimento delle piattaforme elettorali rende sempre più simili, anche tra partiti assai diversi ed in tempi tra loro lontani (si pensi, ad esempio, alle problematiche connesse al rilancio del Mezzogiorno, alla lotta contro la
disoccupazione giovanile, alla tutela dell'ambiente, ecc.): in questa fase decide il politico. La fase successiva investe le scelte strategiche: qui, operando con razionalità sinottica, si scelgono le variabili, i tempi i modi e le quantità attraverso cui si può misurare il
conseguimento dei fini; il contributo tecnico diventa indispensabile, ma rimane preminente il ruolo del politico: ed i programmi si differenziano da partito a partito.
Segue la fase tattica, che comporta una pre-analisi del problema che si vuole risolvere, per l'individuazione dei vincoli imposti
dall'ambiente e della matrice delle incompatibilità; tenuto conto di tutto ciò si definiscono le priorità e i pesi da assegnare alle «mete» già fissate in sede strategica; il politico continua a svolgere un ruolo preminente ma, a questo punto, deve fare i conti con il tecnico che esamina le scelte tattiche per accertarsi che, dati i vincoli e le risorse, gli obiettivi prefissati siano ancora raggiungibili. Il «fare i conti» non ha nulla di conflittuale; tecnico e politico operano in stretta alleanza: oscillando tra razionalità globale,
razionalità processuale e altre forme di razionalità. La preminenza dei ruoli si ribalta nella fase successiva. La definizione del piano operativo, ossia della sequenza dei tempi e del complesso delle azioni e dei mezzi — sinteticamente: il
progetto — messi in campo per il raggiungimento delle mete prima determinate, non mette in gioco solo la sensibilità del politico ma anche — e in misura totale — l'abilità e la credibilità del tecnico: è il tecnico, infatti, il garante del conseguimento dei fini. In questo schema le decisioni tecniche non seguiranno il modello della razionalità globale, né avranno modo di collocarsi nell'ambito del modello della razionalità processuale; ogni progetto ha vita autonoma: o fallisce un suo obiettivo o lo realizza; riprendendo dalla fase tattica, ad esso seguiranno altri progetti per la realizzazione delle tappe successive, cosi come sono state delineate nella fase delle scelte strategiche. La successione dei progetti non è razionalità processuale. Lo schema fin qui esposto nega la validità del modello di razionalità processuale: alle cadenze dettate dalla necessità di procedere ad aggiustamenti successivi è sostituito l'asse dei tempi su cui sono posti gli obiettivi da raggiungere; il feed-back non è confuso con un processo di continua ricontrattazione, ma è inglobato come parte essenziale del progetto; le incertezze non sono viste come pericoli incombenti che possono deviare un ciclo di lavoro, ma sono stimate e ricondotte nell'ambito di rischio controllato dalla professionalità di chi decide.
9 1 rifiuto del modello ^ della razionalità
processuale poggia anche su altre, e forse, ancora più solide
motivazioni.
Questo approccio, essendo basato sul continuo adeguamento del piano operativo al mutare dell'ambiente, potrebbe far sperare nella conquista dei massimi livelli di efficienza per ogni azione intrapresa; esso cela, invece, una filosofia basata sui piccoli passi, che producono piccoli cambiamenti, i quali — si suppone — accumulandosi produrranno anche i grandi cambiamenti.
La supposizione si rivela, però, il più delle volte, infondata: per almeno due ragioni.
La prima di queste risiede nel fatto che nulla ci garantisce contro il rischio che ogni aggiustamento muova in direzione del mantenimento dello status quo e, quindi, delia politica «dimostrativa» e del fallimento della politica «delle realizzazioni». La seconda ragione, certamente decisiva, pone in
evidenza le contraddizioni sistematiche esistenti tra gli obiettivi di lungo periodo ed i risultati conseguibili a breve termine, tra obiettivi a scala macro e trasformazioni necessarie a scala micro: perciò la politica dei piccoli passi non si può valutare sulla scorta dei piccoli cambiamenti, ma solo riferendosi alla congruenza con lo stadio delle trasformazioni previsto, per quel momento, da chi scommette sul risultato finale la propria credibilità. Ragionando secondo questa logica ci sarà facile portare allo scoperto quello che forse è il principale inganno ideologico di cui è permeata la maggior parte delle politiche pubbliche degli ultimi decenni: l'obiettivo dell'equilibrio e del riequilibrio.
Lo stato di equilibrio duraturo e perfetto può essere riconosciuto solo alle cose morte poste in un ambiente morto: negli altri casi l'equilibrio non esiste o è solo provvisorio; non è immaginabile, inoltre, una situazione in mutamento senza che attraversi stati di squilibrio.
Lo squilibrio è la regola, l'equilibrio è l'eccezione; lo squilibrio è, necessariamente, un obiettivo intermedio nella progettazione di una politica, l'equilibrio può essere, poco più che simbolicamente, un fine ultimo delle politiche pubbliche.
Ma giacché non si tratta di misurare e valutare stati fisici di equilibrio/squilibrio, sorge il sospetto che, in definitiva, per equilibrio si intenda la congruenza con un modello organizzativo (del territorio, dell'economia, dei servizi) ritenuto
preferibile rispetto ad altri; poiché l'organizzazione implica gerarchie, non si tratta, perciò, di equilibrio in senso stretto, ma di uno squilibrio auspicato, che sarà bene rendere esplicito e realizzabile.
Se ci si limita, invece, a generiche enunciazioni si corrono gravi rischi di insuccesso.
Ad esempio: le leggi, piuttosto che individuare e codificare le condizioni che favoriscono il mutamento (politica delle realizzazioni), propongono norme che, come una sequela di giaculatorie pagane, evocano lo scopo ultimo (politica delle predicazioni) senza consentire le azioni necessarie per conseguirlo. Oppure: la strategia dei piccoli passi (che non producono squilibri percettibili) si trasforma in una successione di azioni irrilevanti, poiché non si modificano in misura apprezzabile né la situazione
attuale, né la prospettiva. Con ciò non si vuole affermare che i mutamenti — e gli squilibri che scandiscono i vari tempi della transizione — discendono necessariamente solo da «gesti» clamorosi; casomai si afferma il contrario: non è
l'appariscenza di un'azione che garantisce il risultato; questo dipende, invece, dalla capacità di individuare i punti di maggiore sensibilità del sistema e di agire su essi con azioni mirate e tempestive; usando il linguaggio della «teoria delle catastrofi» si potrebbe dire che il probelma da risolvere consiste sempre nello scoprire «tra le strategie di variazione delle entrate quelle che sono più adatte a provocare comportamenti significativi nelle uscite». L'abilità non risiede, quindi, nel dosare gli incrementi delle azioni (cosa, forse, più congeniale al politico che agisce con razionalità processuale), ma nel definire lo stato esatto della situazione su cui si interviene e nel pensare le «azioni minime» che possono provocare il mutamento desiderato (cosa, certamente, più congeniale alle competenze del tecnico che scommette il proprio prestigio sull'avverarsi delle previsioni).
Ma anche questo modello, secondo cui la razionalità è misurata, soggettivamente, in base alla posta messa in gioco dal professionista che decide, richiede la
preesistenza di condizioni che non sono necessariamente garantite; ad esempio: che ci si trovi di fronte a politici «ispirati»: e non, invece, a qualche occupante del potere, impegnato a promuovere la propria mobilità sociale; e che il tecnico abbia davvero qualcosa da giocarsi e l'acquisizione dei lavori non dipenda, invece, dal grado di adattività rispetto ai suggerimenti del politico di cui sopra.
^ ^ h i abbia svolto attività ^ ^ professionale per le
aziende private e per le pubbliche amministrazioni ha esperienza di due diversi modi di coinvolgere il tecnico da parte dei detentori del potere. Nel primo caso ci si può sentire come dei «soldati di ventura», cui è affidato il compito di raggiungere un obiettivo prestabilito entro tempi, con mezzi e in presenza di vincoli chiaramente definiti: il tecnico opererà nella più assoluta autonomia, aspettandosi un giudizio sulla scorta dei risultati che il suo 12
> operato permetterà di ' conseguire.
Nel caso delle pubbliche : amministrazioni il ' coinvolgimento è maggiore:
si diventa, quasi, compagni di strada con il committente; ma il tecnico, troppo spesso, perde autonomia e gli è chiesto di trasformarsi in braccio esecutivo delle fantasie del pubblico amministratore: si rischia, allora, di perdere di vista i risultati di medio e lungo periodo e di inseguire ossessivamente il consenso immediato e l'appetibilità della forma con cui si presentano i provvedimenti. Un aneddoto può servire a testimonianza di quanto sia grave il rischio che si corre operando adattivamente in questo secondo caso. Alcuni anni orsono, in una cittadina del Piemonte, fu chiesto all'estensore del Piano Commerciale di ridurre alla metà il numero di bancarelle di un mercato: gli
ambulanti, secondo l'assessore, guadagnavano poco e i prezzi erano alti. . Siccome la soluzione
ipotizzata avrebbe peggiorato le cose anziché migliorarle, il tecnico, con grande fatica, convinse l'assessore dell'opportunità di triplicare (e non di ridurre) la consistenza del mercato; cosa che avvenne, tra le proteste generali. Oggi quel mercato è uno dei migliori di tutta la sua provincia.
Si ha l'impressione che anche per il Piano Regolatore di Torino qualcosa di analogo debba avvenire: il cosiddetto «caso Gregotti», infatti, sta delineando una situazione in cui non sono stati dati con chiarezza gli obiettivi (forse perché la fase strategica delle decisioni è stata ignorata?) e si afferma la riserva, da parte dei politici, di intervenire, sull'ipotesi di piano per «correggere il lavoro del professore»! Ma chi firmerà il piano? Che poi quel lavoro debba essere, come molti urbanisti vorrebbero, così meticoloso da decidere subito, isolato per isolato e prato dopo prato, i destini futuri della città è tutt'altro dire. Oggi, qui, tenuto conto dei vincoli tipici del nostro ambiente e del nostro ordinamento costituzionale, si potrebbe anche ipotizzare, invece, che il miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia dell'urbanistica richieda : l'indebolimento drastico dei
poteri dell'urbanista: solo se i vincoli artificiali, che oggi i si usa enumerare ad uno ad
uno, si trasformeranno in i struttura logica di criteri, il
«piano» resterà nell'ambito della sua definizione: e i progetti realizzatori del piano si riveleranno possibili.
Nel caso contrario si dovrà ammettere l'esistenza dell'urbanista «onnipotente e profeta», che realizza le sue scelte e sceglie nel modo migliore tra i miliardi di miliardi di miliardi di alternative possibili. Salvo poi lamentarsi per l'impotenza dell'urbanistica e verificare, mestamente, che il profeta non c'è.
LA QUESTIONE
ENERGETICA
IN PIEMONTE:
UN TENTATIVO
DI COSTRUZIONE
DI UNO SCENARIO
SENZA CENTRALE
NUCLEARE
di Mercedes Bresso 0 1 dibattito in corso jm sull'abbandono del Mj programma nucleare inItalia pone, per il Piemonte, una serie di problemi particolari: nella nostra regione infatti è in corso — ma appena agli inizi — la costruzione di una centrale nucleare. Uscita dal nucleare potrebbe voler dire fermare la costruzione anche delle centrali in corso, ma potrebbe anche voler dire terminarle. Con la conseguenza che la centrale di Trino — che doveva essere la prima del famoso PUN (progetto unificato nucleare) — resterebbe un inutile e costosissimo prototipo di una serie che non verrà mai più continuata. E con i rischi che comporterebbe l'avere in casa un prototipo sul quale non si investirebbe più in termini di conoscenza e di miglioramento della sicurezza.
La posta in gioco è quindi particolarmente alta per il Piemonte. È probabile che sull'opzione Trino si/Trino no si scateni l'essenziale della battaglia in sede di conferenza energetica. Chi spera ancora nella
continuazione (in futuro) del programma nucleare tenterà di tenere aperta la porta attraverso la decisione di non fermare i lavori di Trino. Ed è probabile che fra gli argomenti vi sia quello del forte deficit energetico del Piemonte e della difficoltà di trovare soluzioni alternative per la sua copertura.
In questo articolo riprenderò alcune delle considerazioni che ho svolto ad un recente convegno della CGIL Piemonte (Pianeta Energia, Torino 30-31/10/86) tentando di dimostrare che se si utilizza un'area di riferimento non troppo angusta — il compartimento di Torino, che comprende il Piemonte, la Liguria e la Valle d'Aosta — per mantenere un certo equilibrio fra produzione e consumo, è del tutto possibile disegnare per il prossimo futuro uno scenario energetico alternativo che consenta di provvedere a un ragionevole incremento dei fabbisogni per tutto il compartimento. Inoltre buona parte della potenza aggiuntiva può essere localizzata in Piemonte in modo da provvedere anche a riequilibrare l'apporto delle tre regioni alla produzione energetica del compartimento stesso (oggi il Piemonte è la sola in deficit delle tre regioni, mentre il compartimento è attivo grazie a un surplus delle altre due).
Alcune considerazioni preliminari
Quando si parla di scenari nel campo elettrico si pensa in sostanza ad un quadro dello stato dell'offerta, a una serie di previsioni di andamento della domanda (in diverse ipotesi di crescita dell'economia e di
corrispettiva crescita dei consumi elettrici, tenuto conto delle tendenze dell'intensità energetica) e quindi a delle ipotesi di copertura dell'eventale deficit.
Tale, ad esempio, è la via seguita dall'ENEL per presentare i bilanci energetici nazionali e delle regioni: stato dell'offerta, domanda attuale, tasso di incremento prevedibile per il decennio successivo in diverse ipotesi di crescita dell'economia e piani di copertura del deficit eventuale con nuovi impianti.
Se si parte invece dalla decisione, che molte forze politiche e sociali hanno preso in questi mesi dopo Chernobyl e cioè di non costruire più centrali nucleari e smantellare quelle esistenti, l'impostazione di un piano energetico nazionale (o regionale/compartimentale) cambia completamente rispetto alla prassi corrente. Tecnicamente si tratta di costruire uno scenario contrastato, cioè uno scenario che delinea una situazione sulla «frontiera dei possibili» e determina le condizioni che Io rendono realizzabile. In questo tipo di scenario la costruzione avviene a rovescio: non si proiettano cioè le tendenze attuali verso il futuro ma si disegna un futuro voluto, ne si verifica la realizzabilità e si programmano le azioni necessarie per renderlo possibile.
Non si tratta più, cioè, di ipotizzare un passivo adeguamento dell'offerta a delle previsioni neutrali di aumento della domanda largamente sovrastimate, che porterebbe a
immobilizzazioni di enormi capitali in strutture inutili (considerazione che ci obbliga a essere contenti dell'inefficienza dell'ENEL che non ha permesso che questo adeguamento a previsioni sbagliate avvenisse nella realtà). Dobbiamo invece valutare
realisticamente le potenzialità di aumento dell'offerta in assenza del nucleare, non trascurando le necessarie cautele relative alla protezione dell'ambiente per tutte le altre possibili produzioni energetiche, e orientare la domanda (attraverso le tariffe, le azioni per la sostituzione dei consumi elettrici non