1.2.2. Casi Italiani
1.2.2.2. Il Politically Correct in cucina: ricette e alimenti cambiano nome
Come spiegato nel capitolo precedente, il politicamente corretto, entrando nel linguaggio di tutti i giorni, sta cambiando il modo non solo di dire ma anche di pensare di un paese in tutti gli ambiti socioculturali, ultimo fra tutti quello gastronomico.
L’articolo scritto da Roberto Zottar sulla rivista Civiltà della tavola analizza il caso dei famosi dolcetti svizzeri chiamati “Mohrenkopf”71- “testa di nero” in italiano, che la ricercatrice Franziska Schutzbach dell’università di Basilea ha chiesto di cambiare il nome al fine di
“decolonizzare la [nostra] lingua per evitare un futuro di nuovi drammi legati alla migrazione”72. Il nome quindi proposto sarebbe “Schokoküss”73, ovvero “bacio di cioccolato”.
L’autore dell’articolo fa quindi una riflessione sui nomi di alcuni alimenti e piatti tipici della cucina italiana, chiedendosi quindi se anche in Italia bisognerebbe cambiare il nome dato che contiene la n word – come viene definita negli Stati Uniti: il gelato “moretto”, il vino Negroamaro, l’amaro Montenegro, la birra Moretti e così via.
Un caso invece che è stato erroneamente preso in causa dalla stampa italiana riguarda il famoso piatto italiano Spaghetti alla puttanesca. Il tutto risale all’articolo del Corriere Della Sera che resosi conto dell’errore, ha successivamente cambiato i toni dell’articolo74 - si è riversato contro la scelta della food blogger inglese Nigella Lawson di definire questo piatto
“Slattern Spaghetti” (ovvero spaghetti dei pigri) per indicare il fatto che non sono necessari ingredienti troppo specifici ma che si può fare con ingredienti già a disposizione, senza il bisogno di comprarli appositamente. Questa scelta però ha comunque influenzato la gastronomia del bel paese, infatti in molti ristoranti di Napoli, il nome del piatto sia stato cambiato in Spaghetti Belladonna proprio per evitare di offendere qualcuno. Il motivo per cui non è ancora stato stilato un dizionario culinario con i termini aggiornati di tutti i piatti che potrebbero recare offesa, è il fatto che un paese così legato alla tradizione come l’Italia, non
71 Zottar Roberto, Il “politicamente (s)corretto” in cucina, Civiltà della tavola, luglio 2020, n. 328, pp. 6-7
72 Zottar Roberto, op. cit., pp. 6-7
73 Zottar Roberto, op. cit., pp. 6-7
74 Vassallo Marco, Nigella Dawson: “Non li chiamo più spaghetti alla puttanesca”, Corriere della Sera, 8 settembre 2021 https://www.corriere.it/cook/news/21_settembre_08/nigella-lawson-non-chiamiamoli-piu-spaghetti-puttanesca-offensivo-cf71d6f6-0ee5-11ec-9614-5f4fa1f949f6.shtml
accetterebbe mai di cambiare i nomi di ricette e piatti che si tramandano da generazioni e generazioni e che raccontano la storia non solo di un paese, ma anche delle varie regioni che compongono la grande varietà culinaria, marchio del belpaese nel mondo.
1.2.2.3. “Green washing”, “Pink washing” e “Rainbow Washing”: il finto Politically Correct nel marketing
Per seguire l’onda del politicamente corretto, anche le aziende multimilionarie più famose hanno iniziato ad applicare nelle campagne marketing atteggiamenti politicamente corretti con lo scopo di sensibilizzare i clienti su determinati temi. Tre sono quelli usati per la maggiore nelle campagne marketing e di seguito verranno analizzati singolarmente: green washing, pink washing e rainbow washing.
Tutti e tre derivano dal fenomeno del “White washing”75, dove in questo specifico caso la parola “White” viene sostituita con i termini sopra elencati per “dare una passata di attivismo”76 a determinati prodotti commerciali. Il primo termine è definito green washing77 e si riferisce al fenomeno secondo il quale molte aziende proclamano che i loro prodotti sono costruiti usando materiale biologico ed ecosostenibile per ridurre l’inquinamento ambientale.
Il secondo termine si chiama pink washing78, in riferimento all’emancipazione femminile e alla presa di posizione in favore delle donne. Il terzo termine è il rainbow washing e viene utilizzato quando le aziende creano prodotti “arcobaleno” per sostenere la causa LGBTQI+.
I termini sopraelencati, come il termine da cui derivano, hanno un’accezione negativa, in quanto si tratta, nella maggior parte dei casi, di strategie marketing per aumentare il numero di clienti e/o per “ripulirsi la coscienza”. Nel caso del green washing, è interessante il caso della Shell – multinazionale di petrolio, riportato nell’articolo di bossy.it79 che ha dichiarato di utilizzare 300 milioni di dollari per la deforestazione, quando in realtà il restante del fatturato (24 miliardi di dollari) viene utilizzato per cercare ulteriori riserve di carburante.
75 Letteralmente significa “imbiancare”, sta ad indicare la pratica usata al cinema di far interpretare ad un attore caucasico il ruolo di un personaggio di etnia diversa (eg. Liz Taylor nel ruolo di Cleopatra o Johnny Depp nel ruolo del nativo americano Tonto nel film The Lone Ranger)
76 Geddo Benedetta, Pinkwashing, greenwashing, rainbow washing: oltre la superficie, Bossy, 1° febbraio 2021 https://www.bossy.it/pinkwashing-greenwashing-rainbow-washing.html
77 Termine coniato negli anni Ottanta da Jay Westerveld come critica alle compagnie alberghiere che invitavano i clienti a ridurre il consumo di asciugamani al fine di diminuire l’impatto ambientale di lavaggi
78 Termine coniato negli anni Duemila per sensibilizzare alla lotta contro il tumore al seno, successivamente associata alle lotte femministe e all’emancipazione della donna
79 Geddo Benedetta, op. cit.
La dichiarazione “green” della multinazionale è strategia aziendale che mira ad evitare di essere etichettata come una delle aziende più inquinanti del mondo. Un esempio di pink washing è quello usato dalle pubblicità di prodotti estetici, come creme per viso e rasoi che usano attrici e modelle che appaiono “perfette” costruendo le imperfezioni tramite l’uso della computer grafica, dando così un’immagine erronea della donna e anche imponendo determinati canoni estetici. Per quanto riguarda il rainbow washing invece, questa strategia viene messa in atto dalle varie aziende soltanto durante il Gay Pride. Ad inizio giugno iniziano sponsorizzare prodotti “gay friendly” in tutti i negozi e i social per poi toglierli ad inizio luglio, con il solo scopo di mostrarsi a passo con i tempi e di aumentare il numero di clienti, includendo anche persone appartenenti alla comunità LGBTQI+.