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Politiche migratorie tra integrazione e acculturazione

Nel documento FRONTIERE IDENTITARIE (pagine 126-133)

Le migrazioni italiane tra dinamiche storico- politiche nazionali e d internazionali

4- Politiche migratorie tra integrazione e acculturazione

[…] la “storia parallela” delle comunità etniche italiane in giro per il mondo va poi avanti per conto suo e mette in luce, paese per paese e situazione per situazione, delle forme identitarie evolutive sempre più legate, bene o male che sia, all’acculturazione politica e nazionale.

(Franzina, 1999, p. 41).

All’interno della necessaria contestualizzazione storica, ho desiderato tracciare i punti salienti della storia migratoria dando ampio spazio al ruolo ricoperto dalle politiche italiane ed estere nel definire i contorni di un fenomeno complesso come quello in oggetto.

A tal proposito sembra di estremo interesse convogliare l’attenzione sulle politiche migratorie focalizzando l’attenzione non solo sulle norme e sui provvedimenti giuridici volta per volta approvati, ma sulle teorie alla base degli atti politici stessi, ovvero sulle idee che nei vari momenti storici sono scese in campo forgiando la legislatura e dunque la reale possibilità di movimento e/o di integrazione dei migranti italiani (e non solo).

Lo stesso sistema di riferimento identitario del singolo può essere fortemente influenzato dal sistema valoriale del paese ospitante ed è in quest’ottica che tale aspetto non può esulare dalla trattazione di una tesi che vede nello studio dei processi identitari la sua ragion d’essere (Smolicz, 1980).

4.1- Melting pot e Salad bowl: modelli d’integrazione a confronto.

A livello internazionale, ancora oggi, quando si discute di modelli di integrazione culturale si conduce sovente una lettura comparata delle politiche migratorie adottate da due paesi che, seppur confinanti, sono divenuti emblema di

due modi antitetici di intendere il rapporto con lo straniero e la sua “differenza” culturale: Stati Uniti e Canada.

In uno spot molto popolare in Canada34, tra le caratteristiche distintive dell’“identità” del paese che vengono elencate in antitesi a quelle statunitensi, viene enfatizzato il diverso approccio nei confronti delle differenze etniche interne ai due grandi paesi d’oltreoceano. Il protagonista dello sketch pubblicitario afferma a riguardo: “ I believe in […] diversity not assimilation”.

Si è soliti affermare infatti che i due paesi siano la culla di due modelli d’integrazione dei vari gruppi etnici definiti metaforicamente l’uno, statunitense, del

melting pot e l’altro, canadese, del salad bowl.

La teoria del melting pot, ovvero dell’amalgamazione culturale, deve il suo nome al titolo di una commedia di Israel Zangwill del 1909. Il termine, traducibile come “crogiuolo”, rimanderebbe alla composizione etnica di un paese in cui le differenti culture perdono le loro caratteristiche per dare forma, omogenea, ad un’unica popolazione americana. Tale impostazione, diffusasi a cavallo tra il XIX e XX secolo faceva seguito negli U.S.A. al modello Ottocentesco dell’Anglo-

conformity, ovvero la fiducia di un facile inserimento dei migranti nella società

d’accoglienza. Tale integrazione veniva letta come frutto di un processo spontaneo che avrebbe condotto gli stranieri ad una condivisione del paradigma culturale anglo- sassone, quel ex pluribus unum (uno a partire da molti) che per lungo tempo è stato il motto statunitense (Cohen, 2005). Negli Usa si susseguirono differenti teorie e spesso accesi dibattiti rispetto alle problematiche relative all’immigrazione.

La successiva età progressista portò con sé nuove teorie antropologiche; all’interno del nuovo spirito venne introdotto il concetto di pluralismo culturale, adottato per la prima volta in un articolo di Horace Kallen nel 1914 proprio in polemica con le teorie assimilazioniste imperanti e a favore del mantenimento e della tutela della cultura dei differenti gruppi etnici. Una tale visione, seppur nata nel clima dei primi decenni del Novecento, dovette attendere la fine degli anni Sessanta per trovare maggiore visibilità e soprattutto un numero crescente di consensi. Ed è in questo clima che prende corpo la metafora del salad bowl, ovvero dell’insalatiera in

34 Sito internet in cui è possibile prenderne visione: http://it.youtube.com/watch?v=BRI-A3vakVg.

cui trovano spazio i vari sapori che, pur rimanendo distinguibili, riescono ad “insaporirsi a vicenda”. Come un’insalata così la società che forgia una nazione trova la propria ricchezza e la stessa unità dalla mescolanza etnica plurisfaccettata in cui le culture si avvicinano, ma non si fondono.

Compiendo dunque un’analisi diacronica si potrà facilmente affermare che il concetto del melting pot, ovvero la teoria dell’amalgamazione, si diffuse prima del modello del salad bowl, modello che, pur avendo trovato nel Canada uno dei paesi più attenti e pronti a recepire e tutelare le diversità, è figlio di un’epoca, la fine degli anni Sessanta, che ha inaugurato in varie parti del mondo, Stati Uniti compresi, un nuovo interesse per le storie e le culture dei diversi migranti tanto da essere ricordata, come abbiamo avuto modo di rammentare (cap. I), come l’epoca dei Revival etnici (o revival dell’ethnicity) (Audenino e Tirabassi, 2008).

In realtà, piuttosto che vedere i due modelli come dominanti, ancora oggi, in due contesti territoriali differenti, sarebbe più corretto storicizzare l’uso stesso dei due modelli.

Diversi paesi nelle differenti parti del mondo hanno adottato, spesso alternandole in base alla bandiera politica del momento, le due visioni. Non è semplice prendere posizione a favore dell’una o dell’altra come potrebbe semplicisticamente derivare dal presentare una teoria come “contraria all’altrui cultura” e l’altra come “rispettosa delle differenze”. Lo stesso multiculturalismo, istanza progressista, ha svelato spesso la sua “doppia natura” inevitabile come tutti i fatti umani in cui non esiste solamente “giusto o sbagliato”, ma esistono strumenti più o meno validi e soprattutto usi e fini più o meno efficaci di medesimi strumenti. È interessante ricordare a tal proposito che, in opposizione a quella che per molti sembrava una nuova moda (il multiculturalismo appunto), nel 1964 uscì in Canada un testo di John Porter dal titolo emblematico “The vertical Mosaic” (1964) che, come si evince dal titolo, associa la distribuzione in classi all’appartenenza etnica. Per l’autore, l’unico modo per ovviare a questo inconveniente è l’assimilazione, in modo da evitare che le affiliazioni etniche, figlie artificiali della divisione in classe, perpetuino lo status quo. Alle numerose critiche sorte nel tempo rispetto al

multiculturalismo35, cercò di rispondere l’opera del filosofo Will Kymlicka, Finding

Our Way: Rethinking Ethnocultural Relations in Canada (1998) che, dati alla mano,

mirò ad affermare che le politiche non solo non hanno eretto barriere di classe e divisione tra i differenti gruppi, ma hanno invece agito contro i razzismi imperanti in un passato non ancora tanto lontano. Una ricerca compiuta nell’Ottobre del 2005 afferma che i due terzi dei Canadesi vedono nelle politiche multiculturali un baluardo contro terrorismo ed estremismo piuttosto che, come vorrebbero invece le critiche del concetto, un loro focolare.

La questione è aperta e controversa (Cesareo, 2006); certamente uno Stato che aspira, nei principi fondamentali, al rispetto della e nella differenza si pone, almeno sulla carta, come più liberale e rispettosa dei diritti civili ed umani e dovrebbe essere visto come modello esemplare delle stesse politiche migratorie, è questo il caso del Canada che ho volutamente scelto come terreno di indagine. È però doveroso ricordare, qui come in altre parti del mio lavoro, che quando si analizza o studia “la cultura” tale analisi non può essere svincolata dalla complessità socio-economica del contesto studiato. Di certe teorie dunque è necessario considerare gli usi e soprattutto le conseguenze sul medio e lungo periodo e ribadire che differenti prospettive e differenti usi di medesimi modelli in contesti altrettanto vari, possono mutare intenti e soprattutto l’efficacia delle politiche realmente perseguite.

È indubbio inoltre che le politiche adottate in tema di integrazione dialoghino fortemente con quello che è stato definito “approccio generazionale” alla problematica migratoria, ovvero l’importanza attribuita all’interno di una visione dell’integrazione ad ampio spettro, alle differenti generazioni di migranti implicate nel processo stesso: migranti di prima generazione, di seconda, di terza, etc., con i distinguo che abbiamo avuto modo di analizzare (cap. I).

Sembra ora necessario compiere una lettura diacronica delle politiche adottate in Canada a partire dal Secondo dopoguerra periodo nel quale, in diversi scaglioni di tempo, sono giunti in questo paese gli emigrati oggetto del mio studio.

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Si vedano inoltre: Bissoondath N., Selling Illusions: The Cult of Multiculturalism in

Canada (1994), o le critiche alle conseguenze di alcuni aspetti della politica multiculturale contenute

in opere quali quelle di Gwyn R., Nationalism without Walls (1995), e di Granatstein J., Who Killed

Canadian History? (1998).

4.2- Lungo la rotta tracciata dalle politiche multiculturali canadesi.

A questo punto conviene ricordare che ne va dell’immigrazione e dell’integrazione (degli immigrati), di tanti altri fenomeni sociali e soprattutto di quegli stati mentali in cui si inizia a “volere ciò che non si può volere”, secondo una bella formula di Jon Ester. Sarebbe come voler dimenticare, o voler essere spontanei, o voler dormire. Basta voler dimenticare per non poterlo fare. Basta voler essere spontanei per non sembrarlo e per dare l’impressione che si stia cercando di esserlo. Anche l’integrazione appartiene a questo ordine di cose: per inseguire un’integrazione che per l’esattezza non dipende oggettivamente dalla volontà dei soggetti, si rischia di far fallire tutto. Come per tutti gli altri stati, l’integrazione che inseguiamo ha la caratteristica di potersi realizzare solo come effetto secondario di azioni intraprese con altri scopi. Anche se non si considera l’integrazione come una semplice forma di promozione sociale, essa sta alla fine di azioni e di sforzi che non hanno bisogno di porsi l’integrazione come obiettivo (Sayad, 2002, p. 297).

Il Canada, emblema per molti della società multiculturale per eccellenza, nell’arco della sua storia ha adottato differenti politiche migratorie che hanno scandito, in un climax crescente di attenzione verso la problematica, la tutela della diversità e la lotta contro il razzismo. A partire dall’Ottocento, il governo federale ha adottato sette Immigration Acts ed una serie di emendamenti correlati alla questione migratoria.

La politica adottata dal paese durante l’Ottocento rispondeva all’esigenza di popolamento delle vaste praterie e veniva attuata grazie ad uffici dislocati in tutta Europa il cui scopo era quello di reclutare contadini nello specifico dell’area nord del vecchio continente. Gli unici limiti posti agli ingressi di stranieri avevano colpito il

mondo asiatico concretizzandosi, così come era avvenuto negli Stati Uniti, nel

Chinese Immigration Act del 1885. Col tempo ai Cinesi, come stranieri non accetti, si

aggiunsero italiani, “neri” ed ebrei. Nel 1906 la lista dei non graditi venne ampliata includendo, all’interno del secondo Immigration Act, i malati ed i criminali. Ma anche in Canada è dagli anni Venti che si manifestò in maniera più forte e chiara il desiderio di selezionare la tipologia dei migranti in maniera rigidamente regolamentata: nel 1922 venne infatti approvato l’Empire Settlement Act il cui scopo era quello di favorire l’immigrazione dei paesi del Commonwealth, politica che sarà resa ancora più rigida a partire dal 1931 da una legge che decretò come unici ingressi possibili solo quelli di statunitensi e britannici (Audenino e Tirabassi, 2008).

Il secondo conflitto mondiale che, come visto, anche da una prospettiva internazionale, ha inevitabilmente segnato un periodo di maggiore stanzialità, si concluse inaugurando quello che sarebbe stato l’iter delle successive politiche migratorie di una società sempre più multiculturale. È necessario prestare attenzione all’espressione “società multiculturale” ricordando almeno quattro accezioni che possiamo dare a tale espressione. Da un punto di vista descrittivo, la multiculturalità è un fatto sociologico, in senso prescrittivo, l’espressione rinvia ad un’ideologia, da una prospettiva politica, rimanda alle normative attuate o, in ultimo, può essere intesa come un set di dinamiche di intergruppo e dunque in questo caso il multiculturalismo sarebbe da legarsi prima di tutto a dei processi culturali in atto.

Come “dato di fatto”36, il multiculturalismo canadese rinvia alla presenza di differenti etnie all’interno della società che definiscono se stesse (e vengono definite) a partire da una unicità che è fonte di una forte identificazione di gruppo. Da un punto di vista ideologico, il multiculturalismo si struttura a partire da idee relativamente coerenti che traggono la loro linfa vitale nel celebrare la diversità culturale interna come uno degli emblemi stessi di un’identità canadese. Le politiche che si possono ricondurre all’aggettivo sono legate alle iniziative e alle norme formulate ai vari livelli governativi (federale, provinciale e municipale) per gestire i diversi tratti culturali. Inoltre il multiculturalismo è un processo attraverso cui minoranza etniche cercano il supporto delle autorità centrali col fine di ottenere

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qualche beneficio. È di grande interesse, per il mio studio, focalizzare l’attenzione sul multiculturalismo visto come una determinata politica perseguita ai differenti livelli amministrativi perché è questo l’aspetto che risulta maggiormente interessante all’interno dello studio delle dinamiche di inserimento degli italiani in Canada e, nello specifico, a Vancouver.

Although there are two official languages, there is no official culture, nor does any ethnic group takes precedence over any other.

(Kobayashi, 1992, p. 205).

Queste sono le parole con cui il Primo ministro canadese Pierre Elliott Trudeau inaugurò, nel 1971, la politica ufficiale sul Multiculturalismo. Con tale atto politico veniva affermata in maniera chiara l’importanza del mantenimento dell’eredità culturale di tutti i gruppi etnici all’interno di una popolazione multiculturale e la parità di diritti tra tutti i membri dei gruppi minoritari. Gli studiosi che si occupano del modello multiculturale canadese sono soliti ravvisare tre fasi all’interno delle politiche adottate dal paese federale attraverso cui si è forgiata la

policy multiculturale: il momento demografico, quello simbolico e, da ultimo, il

momento strutturale.

Il momento demografico (The Demographic multiculturalism, Kobayashi, 1992, p. 212) o incipiente (incipient37) portò con sé i germogli e le spinte di quella che si

sarebbe profilata come la svolta multiculturale del periodo successivo.

Durante il momento demografico, la situazione di diversità etnico- culturale, aumentata fortemente a partire dai forti flussi migratori del Secondo dopoguerra, non era affiancata a nessuna politica ufficiale coerente. Negli anni che seguirono la fine del conflitto, infatti, si ampliò il flusso di immigrati provenienti dall’Europa centro-orientale; nonostante ciò, l’immigrazione rimase fermamente legata alla nozione di assimilazione, definita soprattutto a partire dalle differenze razziali percepibili ad occhio nudo, primo tra tutti il colore della pelle.

37 Il termine incipiente è tratto dal sito:

Tale migrazione dal carattere spiccatamente urbano, ebbe comunque tra le conseguenze più visibili la forte concentrazione areale di alcuni gruppi etnici nelle grandi aree metropolitane, si veda il caso di Toronto, a cui farà seguito l’istituirsi in maniera più o meno ufficiosa di organizzazioni su base etnica. Questo lasso cronologico inoltre coincide con lo svilupparsi, anche in ambito internazionale (tab. 6), di quella che è stata definita come la “rivoluzione mondiale” dei diritti umani. I principi legati ai diritti fondamentali dell’uomo, che diverranno poi norme, presero corpo proprio a partire dagli anni Sessanta, anni che, come accennato nel precedente paragrafo, possono essere letti dunque a buon diritto come anni cruciali di transizione.

Nel documento FRONTIERE IDENTITARIE (pagine 126-133)