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Il post-esperanto e le lingue artificiali universali nel Novecento

dell’aggettivo, rendeva facoltativo il caso accusativo, preferiva parole internazionali a quelle agglutinate derivate, ecc. Questo non fu comunque l’unico tentativo di creare una nuova lingua a partire dalla semplificazione dell’esperanto, avvicinandolo di più alle lin-gue naturali e rinunciando così alla sua regolarità e alla struttura agglutinante79: esso fa parte di una tendenza più generale dei glottoteti del ‘900 che tendevano a lavorare in “comitati” per creare una nuova lingua anziché operare da soli. Nonostante la sua rile-vante diffusione80, l’ido non ha potuto vincere contro la potente organizzazione dell’espe-ranto. Quest’ultimo è diventato così popolare perché non è solo una lingua, ma è anche un messaggio, quello del fondatore: lo stesso nome, infatti, rimanda alle speranze più o meno coscienti di ogni uomo.

2.4. Il post-esperanto e le lingue artificiali universali nel Novecento

Sono state centinaia le LAI proposte nel Novecento, anche se solo pochissime sono state di fatto divulgate e usate. Di queste, solo cinque sono le più rilevanti e, se includiamo anche l’esperanto (inventata nel secolo precedente ma molto diffusa nel XX secolo e ancora oggi) e la sua appendice (l’ido), solo tre possono essere considerate a tutt’oggi le più diffuse: l’esperanto, appunto, l’occidental e l’interlingua.

Al matematico italiano Giuseppe Peano (1858-1932), in linea con il progetto lin-guistico di Leibniz, si deve il “latino sine flexione” (LsF, 1903), rinominato poi “interlin-gua”. Si tratta di una lingua prevista solo per l’uso scritto e unicamente nell’ambito scien-tifico, il che esclude la possibilità della sua diffusione in un contesto in cui era necessario comunicare soprattutto a fini commerciali. Il lessico del LsF si ricava per semplificazione da quello latino: per i nomi si prende l’ablativo, per gli aggettivi l’ablativo maschile e per i verbi la radice ottenuta dall’infinito togliendo la vocale tematica e il suffisso –re. Questo progetto linguistico non ebbe molto successo; infatti, venne usato solo dai membri della scuola di Peano e durò fino alla morte dello stesso. Molti fattori concorsero a decretarne la decadenza; oltre alla presenza di italianismi incomprensibili da un non italofono e alla fallacia etimologica (per cui Peano pensava che si potesse ricavare l’etimologia a partire dal significato con cui una parola veniva utilizzata nel presente), va sottolineata la sua struttura instabile: il LsF si proponeva come lingua povera di grammatica, ma questa

79 Cfr. A. Bausani, op. cit., p. 129.

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mancanza tendeva ad essere colmata spontaneamente dai parlanti che vi introducevano strutture morfo-sintattiche della propria lingua madre (come l’introduzione dell’articolo determinativo da parte degli italofoni e la forma futura con il “will” dal calco inglese81).

Edgar de Wahl (1867-1948), adepto prima del volapük e poi esperantista, fallita la proposta di riforma dell’esperanto nel 1894, cominciò a progettare una nuova lingua artificiale e nel 1922 ne pubblicò i punti programmatici. La lingua da lui inventata si chiama “occidental” (termine che tradisce le idee eurocentriche di de Wahl82) e riprende molti elementi dell’inglese (per esempio la forma del futuro con “will”) e soprattutto del francese (come la posizione dell’aggettivo rispetto al nome). Uno dei pregi di questa lin-gua sta nel fatto che, in funzione di una maggiore regolarità, l’infinito dei verbi è derivato non dall’infinito dei verbi internazionali corrispondenti, ma dal supino, con opportuni aggiustamenti normati dalle cosiddette “tre regole di de Wahl”83 (ad esempio, da “diri-gere” deriva il verbo infinito “direc-ter” e, dal verbo, il nome “direc-tion”). Un altro punto a favore è la facilità con cui un qualsiasi studioso europeo occidentale poteva compren-dere le parole. A de Wahl si deve la distinzione tra lingue artificiali che vanno verso una direzione di regolarità o di naturalità. Al primo gruppo appartengono le lingue che se-guono il principio di una grammatica e di una derivazione regolari e precise, mentre all’al-tro quelle che prediligono l’uso di parole già note o internazionali a scapito anche della regolarità; così, per esempio, l’occidental propende per la naturalità perché vi possiamo trovare anche quattro suffissi che esprimono lo stesso concetto e che dipende dal tema (liber-tà, propri-età, elegant-ie, polit-esse, come i derivati corrispondenti nelle lingue na-turali), mentre l’esperanto e l’ido in questi casi mantengono il medesimo suffisso. Anche questa lingua è caduta in disuso, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché un’altra lingua artificiale ha guadagnato terreno al suo posto: l’interlingua di Gode.

Nel frattempo, il linguista danese Otto Jespersen (1860-1943), sostenitore dell’ido, dopo la pubblicazione dell’occidental, propose una lingua che riprendesse e uni-ficasse quelle artificiali internazionali precedenti. È il 1928 quando pubblicò il Nov-ial (nuova lingua artificiale internazionale), che presenta molti elementi angloglotti

81 I will publish diventa Me vol publica.

82 Alla morte di de Wahl il nome di questa lingua è stato cambiato in “interlingue” proprio per attenuarne la connotazione eurocentrica.

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sen è un anglofilo), ma che persegue l’obiettivo di una maggiore regolarità nella grafiz-zazione, nonostante nella derivazione diretta da verbo a sostantivo preveda più modi, in linea con l’orientamento naturale delle lingue. Questo miscuglio tra regolarità e naturali-smo convinse Jespersen ad apportarvi delle modifiche in senso naturalista negli anni ’30. La lingua cadde in disuso dopo la morte del suo inventore.

Tra le LAI più rilevanti del Novecento viene solitamente citato anche il “Basic English” del linguista e filosofo Charles K. Ogden (1889-1957), il quale propose, più che una nuova lingua artificiale, una semplificazione della lingua naturale inglese (si tratta quindi di una sua varietà di apprendimento). L’operazione compiuta da Ogden consiste nell’aver scelto 850 parole di base, a partire dalle quali poter formulare tutti i concetti complessi mediante parafrasi (“to descend” viene più semplicemente espresso con “to come/go down”). Nonostante le lingue artificiali che derivano dal Basic English siano molte, non si può non rilevare i difetti più evidenti di questa lingua che è stata scimmiot-tata anche da Orwell nel romanzo “1984”: la fallacia etimologica e il fatto che se non posso utilizzare parole complesse al di fuori di quelle di base non potrò nemmeno usarne i derivati (“to wander” è considerato un termine complesso, e quindi non posso ottenere nemmeno “wanderer”, cioè vagabondo).

Una lingua artificiale che ha avuto molto successo è invece l’interlingua del lin-guista tedesco-americano Alexander Gode (1906-1970), del 1951. Il punto di forza di questa LAI sta nel fatto che è frutto di una commissione di persone, non di un solo glot-toteta, e che è il prodotto di un lungo periodo di gestazione. Nel 1924 la moglie di un ricco ambasciatore americano, la signora Alice Vanderbilt-Morris (1874-1950), ha fon-dato l’associazione internazionale IALA (International Auxiliary Language Association), che continuò il lavoro del Comitato del 1907. Il principio propedeutico che venne formu-lato prevede che l’apprendimento di una LAI come L2 faciliti e velocizzi a sua volta l’apprendimento di una L2. Esperimenti condotti dimostrarono che ciò era vero per lingue come l’esperanto, in quanto più regolari di quelle storico-naturali. Successivamente si formarono due gruppi di lavoro con l’intento di formulare nuove lingue artificiali. Da uno dei due gruppi, quello capeggiato da Alexander Gode, venne formulato l’interlingua, una LAI appartenente al filone naturalista (molto più dell’occidental), che superò brillante-mente il confronto con gli altri progetti vagliati da circa 3000 accademici. I principi su cui si è basato Gode sono fondamentalmente due: il lessico di una lingua artificiale deve

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basarsi su statistiche di frequenza e la morfosintassi deve prendere come riferimento gli studi di Benjamin Lee Whorf e il suo concetto di SAE (Standard Average European)84. Così, per esempio, le parole dell’interlingua derivano da quelle che hanno significato ed etimo comune ad almeno tre lingue del gruppo anglo-romanzo (nei casi in cui non ci sia questa comunanza, si ricorre al latino, come per il termine ocular, da “oculus”). Alla base del SAE sta anche l’ipotesi Sapir-Whorf, secondo la quale esiste un forte legame tra la semantica di una lingua e la sua visione del mondo. Dopo la pubblicazione del dizionario interlingua-inglese con la descrizione della grammatica dell’interlingua (1951), la IALA venne sciolta (1953) e un altro organismo sorse e si assunse il compito di sostenere l’in-terlingua: la UMI (Union Mundial pro Interlingua, 1955). Questa lingua artificiale ha avuto un buon successo fino ad oggi e il suo lessico si è arricchito nel frattempo di parole più moderne, in luogo di alcune più latineggianti, favorendo così l’autonomia linguistica85 dell’interlingua (per esempio, si usa comprar anziché emer per indicare l’azione di “com-prare”), nonostante la grammatica non sia tra le più semplici (vi sono tre coniugazioni, i tempi piuccheperfetto, futuro perfetto, condizionale perfetto, ecc.).

Concludendo questa sommaria rassegna delle principali lingue artificiali a poste-riori, come già detto solo poche sono arrivate fino a noi e godono di una notevole diffu-sione ancora oggi. Semplificando, possiamo dire che quella che incarna maggiormente la regolarità è l’esperanto, mentre quella che si avvicina di più alla naturalità è l’interlingua.

Nel ‘900 non sono spariti i progetti di lingue a priori, ma essi sono decisamente molto pochi; un esempio recente di tale lingua è l’unilingua di Noubar Agapoff del 1965, che si propone come lingua filosofica e cibernetica a priori. Lo scarso numero di progetti di lingue a priori evidenzia come questa strada sia ormai ritenuta poco praticabile e inge-nua da chi cerca una lingua internazionale, soprattutto se si considerano i più recenti studi di linguistica sulla struttura del linguaggio umano. Inoltre sembra che alla base di questo filone di ricerca stia ancora la fiducia cieca in una logica assoluta, oltre all’incoerenza

84 Il linguista americano Benjamin Lee Whorf ha raggruppato le lingue del mondo in base a parametri strutturali (forma del perfetto, presenza dell’articolo definito, ecc.), così da creare delle “leghe linguistiche” formate dalle lingue che hanno più tratti in comune tra di loro. Le quattro grandi leghe individuate da Whorf sono quella romanza, la germanico-occidentale, la baltica e la slava. L’interlingua si rifà alla lega romanza, a cui viene aggiunta la lingua inglese, su cui Gode modella la grafizzazione etimologica (si distinguono infatti morfemi come -phyll- e –phil-, mentre per esempio in esperanto abbiamo un unico corrispondente morfema, -fil-).

85 Più una lingua si basa sulle lingue fonte per il lessico, più esse sono eteronome e poco vitali; va ricordato che il discente non sempre è un glottologo e quando apprende il lessico non sempre si rifà all’etimologia delle parole. Questo aspetto rappresenta un punto a sfavore della naturalità.