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INTERPRETAZIONE DEL MITO DI BABELE (Gen 11,1-9)

1. Il testo nel suo contesto

1Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Iafet, ai quali nacquero figli dopo il diluvio.

2I figli di Iafet: Gomer, Magòg, Madai, Iavan, Tubal, Mesec e Tiras. 3I figli di Gomer: Aschenàz, Rifat e Togarmà. 4I figli di Iavan: Elisa, Tarsis, i Chittìm e i Dodanìm.

5Da costoro derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni.

6I figli di Cam: Etiopia, Egitto, Put e Canaan. 7I figli di Etiopia: Seba, Avìla, Sabta, Raamà e Sabtecà. I figli di Raamà: Saba e Dedan. 8Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. 9Egli era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: «Come Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore». 10L’inizio del suo regno fu Babele, Uruc, Accad e Calne, nella regione di Sinar. 11Da quella terra si portò ad Assur e costruì Ninive, Recobòt-Ir e Calach, 12e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città. 13Egitto generò quelli di Lud, Anam, Laab, Naftuch, 14Patros, Casluch e Caftor, da dove uscirono i Filistei.

15Canaan generò Sidone, suo primogenito, e Chet 16e il Gebuseo, l’Amorreo, il Gergeseo,

17l’Eveo, l’Archeo e il Sineo, 18l’Arvadeo, il Semareo e il Camateo. In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei. 19Il confine dei Cananei andava da Sidone in direzione di Gerar fino a Gaza, poi in direzione di Sodoma, Gomorra, Adma e Seboìm fino a Lesa. 20Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori e nelle rispettive nazioni.

21Anche a Sem, fratello maggiore di Iafet e capostipite di tutti i figli di Eber, nacque una discendenza. 22I figli di Sem: Elam, Assur, Arpacsàd, Lud e Aram. 23I figli di Aram: Us, Ul, Gheter e Mas. 24 Arpacsàd generò Selach e Selach generò Eber. 25A Eber nacquero due figli: uno si chiamò Peleg, perché ai suoi tempi fu divisa la terra, e il fratello si chiamò Ioktan.

26Ioktan generò Almodàd, Selef, Asarmàvet, Ierach, 27Adoràm, Uzal, Dikla, 28Obal, Abimaèl, Saba, 29Ofir, Avìla e Iobab. Tutti questi furono i figli di Ioktan; 30la loro sede era sulle montagne dell’oriente, da Mesa in direzione di Sefar. 31Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori, secondo le rispettive nazioni.

32Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie, nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio.

1Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.

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7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

[Traduzione CEI 2008]

2. Interpretazione

Il gesuita Jean Louis Ska, nato in Belgio nel 1946, è uno dei più famosi teologi e biblisti cattolici. Insegna esegesi biblica al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove ha conseguito il dottorato in Sacra Scrittura nel 1984. Ha scritto diversi testi di carattere esegetico, in particolare sul Pentateuco, e si è occupato anche del mito di Babele. Ci rifacciamo a questi studi per cercare di capire come dovrebbe essere interpretato questo testo biblico, molto noto nella nostra cultura occidentale. Quella di Ska è un’interpretazione originale rispetto a quelle classiche e più conosciute361.

Il testo di Genesi 11,1-9 racconta che gli uomini volevano costruire una città e una torre molto alta per non disperdersi. Dio vede cosa sta succedendo e pone fine a questo progetto, confondendo le lingue: gli uomini non riescono più a capirsi e quindi si disperdono. Per un gioco di parole in ebraico, il termine “Babele” indica “confusione”. Nei secoli, “Babele” è diventato per antonomasia simbolo di confusione, acquisendo un’accezione negativa.

Nella storia dell’esegesi si profilano tre principali filoni di interpretazione, ciascuno con diverse sfumature particolari. Secondo l’interpretazione più comune, il racconto descrive un peccato e il suo castigo; questo stesso schema di delitto-castigo riprende quello del peccato di Adamo ed Eva (Gen 3), quello di Caino e Abele (Gen 4), quello di Noè e il diluvio universale (Gen 6-9), ecc. In questo caso, il peccato sembra essere la presunzione e l’orgoglio di voler raggiungere il cielo: l’umanità cerca di diventare come Dio. Si tratterebbe della “religione” (nell’accezione del teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, 1906-1945), cioè dello sforzo dell’uomo di raggiungere Dio, al contrario della “fede” che indica invece l’accoglienza del dono di Dio. Ritroviamo questa interpretazione già nel Libro dei Giubilei, un testo apocrifo ebraico che risale al II secolo a.C. e che riprende il libro della Genesi, lo racconta e vi aggiunge diversi commenti.

Un’altra lettura antica di questo mito, risalente a Flavio Giuseppe (Antichità Giudaiche, II secolo d.C.) individua il peccato non tanto nell’orgoglio dell’uomo che vuole diventare come Dio, ma piuttosto nel più laico imperialismo. Si ricaverebbe questa

361 Cfr. J. L. Ska, Una città e una torre (Gn 11,1-9), in AA.VV., Ricomporre Babele. Educare al

cosmopolitismo. Atti del Convegno, Fondazione Intercultura, Milano 2011, pp. 19-34, disponibile su

Internet all’indirizzo web

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interpretazione facendo attenzione alle espressioni utilizzate nel testo: “Tutta la terra aveva un’unica lingua (letteralmente, “un unico labbro”) e uniche parole” è una frase che si ritrova nella propaganda regale dell’Impero neo-assiro e significa che in un regno c’è concordia solo quando tutti dicono le stesse cose, c’è “un solo labbro”, sono tutti d’accordo; non significa quindi che tutti parlano la stessa lingua, ma piuttosto che un re ha imposto la propria autorità col suo esercito, ha messo tutti d’accordo e fa regnare la pace. Per Flavio Giuseppe il costruttore della torre è Nimrod, che nel cap. 10 della Genesi è il fondatore di Babele (Gen 10,8-10). Questa interpretazione si ricava quindi leggendo il mito di Gen 11 come strettamente legato al capitolo precedente. Essa è stata ripresa da diversi studiosi e e biblisti ed è molto popolare nell’esegesi post-coloniale contro le forme di imperialismo: si tratta di una critica o satira nei confronti dell’Impero neo-assiro che stava costruendo una nuova capitale. È una critica alla massificazione, al dover vivere tutti insieme e all’essere tutti d’accordo, omologati e omogeneizzati. Dio pone fine a questo impero e lo fa sparire, disperdendone gli abitanti. Si ricordi che il testo parla non solo della costruzione di una torre, ma anche di tutta una città con la sua cittadella, con la sua rocca, il suo castello. Il riferimento è alle due cinte di mura degli antichi imperi: quella esterna che difendeva dai nemici e quella interna che proteggeva gli altri edifici più importanti dell’impero.

Secondo una terza linea di interpretazione, più recente, il testo sarebbe a favore della diversità e della particolarità delle culture. Precursori di questa chiave di lettura possono essere intravvisti nell’XI secolo in ambito rabbinico. Dio avrebbe disperso l’umanità per il suo bene, non per un castigo. Più che di “castigo” sarebbe infatti più corretto parlare di “errore”: l’umanità ha preso una decisione sbagliata e Dio ha corretto (non punito) l’azione dell’uomo. Tale azione infatti non avrebbe contribuito al benessere e alla felicità che per l’uomo è costituita dalla diversità e dalla ricchezza culturale: ogni regione, nel piano di Dio, avrebbe dovuto essere abitata da una popolazione con una sua propria cultura.

Ska propende per questa terza interpretazione per diversi motivi:

1. Diversamente da Gen 3, in cui è presente un divieto esplicito che non viene osservato dall’uomo, in questo testo non c’è ombra di peccato in quanto non c’è nessun comandamento, né implicito (come in Gen 4) né esplicito (come in Gen 3) con cui Dio ordini che ciascun popolo debba andare ad abitare nella propria regione. Qualcuno però potrebbe obiettare osservando che si parla dell’orgoglio dell’uomo di voler “raggiungere il cielo”; ma questa espressione è semplicemente un’iperbole, un’espressione che si trova altrove nella Bibbia362, una semplice immagine.

2. Qual è allora il problema per cui Dio interviene, se non è l’orgoglio? Questo problema non è l’imperialismo, il totalitarismo, il fatto che c’è un re che crea un

362 Anche quando il popolo di Israele entra nella Terra Promessa, tutto appare grande, e anche le torri sembrano arrivare fino al cielo.

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impero basato sul terrore. Qui non si parla di re, bensì di persone che decidono insieme di costruire una torre; non sono costretti da nessuno, né sono oppressi da un re. Si tratta di una scelta libera. Dio interviene per un altro motivo. Gli uomini non vogliono essere dispersi, vogliono vivere insieme nella stessa città; vogliono costruire una torre per farsi un nome su tutta la terra (v. 4). Voler farsi un nome significa cercare di diventare immortali, grazie alla città; in diversi passi biblici si afferma che un monumento o una città permettono di raggiungere l’immortalità (2Sam 18,18; Ger 54; Sir 40,19). Si ricordi che anticamente gli ebrei non credevano nella resurrezione, nella vita nell’aldilà, e pensavano che si potesse eternarsi, in qualche modo, attraverso i propri discendenti o attraverso monumenti, mura o città. L’individuo perisce, mentre il nome legato ad una città o ad un monumento permane. La stessa idea si trova anche nell’epopea di Gilgamesh il quale, alla ricerca dell’immortalità trova la pianta che dà la vita eterna, ma un serpente gliela mangia mentre lui si ferma a bere presso; Gilgamesh ritorna quindi nella sua città di Uruk e si consola contemplando le mura della città (l’idea di fondo è che mentre l’uomo è mortale, non così accade per una città, che può sopravvivere a molte generazioni). L’umanità, quindi, vuole conquistare l’immoralità. L’accenno alla dispersione ricorda poi la distruzione della città: la popolazione si disperde (esilio) quando la città è stata distrutta (Cfr. Lv 26,33; Dt 28; Ger 40,15). Dispersione e morte sono quindi due sinonimi.

3. Più che punire un peccato o una trasgressione, Dio corregge un errore. Nel cap. 10, nella cosiddetta “tavola delle nazioni”, avviene la medesima cosa viene descritta in Gen 11,9 (gli uomini parlano molteplici lingue), ma in modo molto sereno e pacifico. In questa genealogia molto particolareggiata, infatti, si descrive come l’umanità, dopo il diluvio, abbia popolato il mondo: ogni popolo ha abitato in una regione diversa, parlando ciascuno la propria lingua e distinguendosi per la propria cultura. E tutto ciò avviene senza un intervento di Dio: si tratta di un evento di ordine naturale, non ci sono conflitti.

4. Come interpretare il ruolo di Dio in questo racconto? Se non c’è alcun delitto/peccato, se si tratta di un fenomeno del tutto naturale, perché allora c’è un intervento di Dio? Come già affermato, quella di Dio è piuttosto una correzione: Dio non punisce, ma raddrizza, corregge l’umanità che ha un sogno impossibile. La vocazione dell’umanità è di vivere la storia, non di raggiungere l’immortalità. Non c’è via diretta che permetta di raggiungere l’immortalità; l’unica via per l’uomo è di costruire il mondo della particolarità delle lingue, nella ricchezza delle culture. L’uomo cerca di acquistare l’immortalità (dimensione verticale), mentre quella in cui deve vivere e operare è una dimensione orizzontale: è questa la sua vocazione. Il senso del testo, quindi, è che Dio vuole proteggere la particolarità di ogni nazione, a partire da quella di Israele, perché ciascuna ha qualcosa di

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specifico e di prezioso che non può e non deve essere cancellata da qualcosa di universale che uniforma.

Lo scopo del racconto della torre di Babele è quindi quello di riconciliare l’umanità con la propria condizione terrena e di valorizzare la naturale diversità e diversificazione delle lingue e delle culture.

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APPENDICE 2

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APPENDICE 3