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4. Case Studies

4.1.6. Post 1978

I decenni che hanno seguito la morte di Mao sono stati teatro di considerevoli e incredibilmente veloci cambiamenti per la Cina, sia sul piano politico-economico, che su quello socio-culturale. Durante gli anni settanta, il rifiuto, da parte della classe intellettuale più conservatrice, di un ideale di diritto soggettivo ormai non più progressista, bensì in linea con lo sviluppo storico, economico e culturale della società cinese tempo, era ancora giustificato con la scusa che “human rights […] could not be a dominant slogan on a socialist society”.143 Il diritto, per definizione marxista, non era eterno, né assoluto, né universale; esso era piuttosto riflessione delle forze produttive della società e degli interessi della classe al potere. Così, coloro che si ostinavano a rivendicare a gran voce il riconoscimento dei diriti umani, venivano tacciati di opposizione al regime socialista e, secondo disparati metodi, messi a tacere. La Primavera di Pechino (culminata nel Movimento del Muro della Democrazia di Xidan, durante l’inverno 1978-1979) e le proteste di Piazza Tiananmen della primavera 1989 hanno segnato due punti di svolta senza precedenti per la storia del quanli discourse: le manifestazioni degli attivisti democratici cinesi, e le conseguenti reazioni da parte del governo cinese, funsero da richiamo per l’opinione pubblica nazionale e internazionale.

In the late 1980s China entered a new stage in the debate on human rights. A more affirmative official position, as exemplified by official statements in

                                                                                                               

141 Vedi ANGLE/SVENSSON (a cura di), The Chinese Human Rights Reader…, cit., p. 152. 142 Ibidem, p. 187.  

support of the Universal Declaration of Human Rights on the occasion of its fortieth anniversary, encouraged individual scholars who dared to express more liberal and positive views on human rights.144

Dopo un elenco di intellettuali e accademici, le cui prospettive aperte e moderne in tema dei diritti furono dovute, nella maggior parte dei casi, anche e soprattutto a un contatto con il mondo occidentale (contatto teorico, legato agli studi comparati, o pratico, nel caso di passata formazione all’estero), l’esempio conosciutissmo di Wei Jingsheng 魏京生 costituirà un’eccezione.

Wei era nato nel 1950 a Pechino; suo padre era un funzionario di Partito e Wei stesso a sedici anni si unì alle Guardie Rosse di Mao, nel pieno della Rivoluzione Culturale. L’esperienza nelle campagne del nord della Cina gli permise di toccare con mano i fallimenti e i danni delle politiche maoiste, e di smontare così, pezzo dopo pezzo, il castello di certezze politiche e ideologiche sul quale si era basata la sua gioventù e sul quale si fondavano le esistenze della maggior parte dei suoi contemporanei. Il 5 febbraio 1978 Wei prese parte al Movimento del Muro della Democrazia di Xidan, pubblicando un saggio rivolto esplicitamente a Deng Xiaoping, che chiedeva l’aggiunta di una “quinta modernizzazione” sull’agenda politica: la Democrazia (minzhu 民主). Il documento, rigorosamente firmato a suo nome e cognome, diede inizio alla sua carriera di temerario dissidente politico. In un famoso articolo pubblicato sulla rivista underground “Tansuo 探索” (Explorations) della quale lui stesso era editore, Wei scrive:

Dal momento in cui una persona nasce, egli [o ella] ha il diritto di vivere e [anche] quello di lottare per una vita migliore. […] Allo stesso tempo, i diritti umani (renquan) esistono solo in relazione ad altre cose, poiché le persone stesse […] sono circondate da altre cose e non possono che relazionarsi. Perciò i diritti umani non sono illimitati e assoluti, bensì limitati e relativi.145

                                                                                                               

144 Ibidem, p. 307.

145 WEI Jingsheng 魏京生, “Human Rights, Equality, and Democracy”. Citato in: James D. SEYMOUR

(a cura di), The Fifth Modernization: China’s Human Rights Movement, 1978-1979. Stanfordville, New York: Human Rights Publishing Group, 1980, p. 142

“Quanli”, continua Wei, sono tutele di capacità o interessi fondamentali che ogni umano detiene e necessita per poter raggiungere i suoi obiettivi; ma quando queste capacità e interessi si modificano nel corso del tempo, ecco che anche ai quanli sarà richiesto di cambiare.146

Con l’inizio degli anni Novanta e fino ad oggi, i dibattiti accademici, domestici e internazionali, riguardanti l’accezione teorica e la tutela pratica dei diritti soggettivi in Cina, si sono fatti numerosi e consistenti. L’opinione mainstream filo-occidentale accusa il sistema legale cinese di non essere ancora in grado di attenersi a un’interpretazione “corretta” e completa della concezione dei rights. Dall’altra parte, gli esponenti della leadership cinese rivendicano la libertà di poter interpretare e mettere in pratica i quanli secondo le specifiche caratteristiche ed esigenze nazionali, appellandosi al riconoscimento dei cosiddetti “Asian Values”, e svincolandosi dall’obbligo di attenersi necessariamente a un modello interpretativo standard, o più specificatamente, a quello rappresentato dalla tradizione liberale occidentale.

Certain strands of the Confucian tradition paved the way for rights discourse in China; throughout its history, in fact, Chinese rights discourse should be understood as an ongoing creative achievement, rather than a reaction to or misunderstanding of Western ideas and institutions. Only by looking at key moments in this history we can decide what to make of claims about the distinctiveness of Chinese concepts of human rights.147

Nella pratica, quindi, il governo cinese riconosce e “concede sì graziosamente ai cittadini diritti e libertà sempre più consistenti, ma continua a intendere tali diritti e libertà non come un fine in se stessi, ma come un mezzo per governare in maniera efficiente.”148 Il secondo capitolo dell’attuale Costituzione cinese è intitolato “Gongmin de jiben quanli he yiwu 公民的基本权利和义务” ( Diritti e doveri fondamentali dei cittadini) e si apre con l’articolo 33 che, dopo l’emendamento del 2004, recita:

                                                                                                               

146 ANGLE, Human Rights And Chinese Thought, cit., pp. 214-215.   147 ANGLE, Human Rights And Chinese Thought, cit., p. 151.

148 M. NORDIO, P. POSSENTI (a cura di), “Governance globale e diritti dell’uomo”, in CAVALIERI

国家尊重和保障人权。

任何公民享有宪法和法律规定的权利,同时必须履行宪法和法律规定 的义务。

Lo Stato rispetta e protegge i diritti umani.

Qualsiasi cittadino gode dei dirittti previsti dalla Costituzione e dalle leggi, e allo stesso tempo deve adempiere ai doveri stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi.149

Segue l’elenco dei diritti di cittadinanza, civili e politici riconosciuti dallo Stato cinese, formulato attraverso espressioni come “Zhonghua renmin gongheguo gongmin you…de quanli 中华人民共和国公民有…的权利” (“I cittadini della RPC hanno il diritto di…”), “Zhonghua renmin gongheguo baohu…de quanli 中华人民共和国保 护…的权利” (“La RPC protegge i diritti di…”), e suggellato dal dibattuto articolo 51 che relega formalmente il riconoscimento dei quanli dei cittadini della RPC a una posizione subordinata rispetto ai fini politici (altresì chiamati “guojia de, shehui de, jiti

de yili 国家的、社会的、集体的利益”, ovvero “interessi statali, sociali e collettivi).

Sebbene la funzione del diritto soggettivo continui a rimanere sostanzialmente strumentale, la coppia dei caratteri di quanli ha intanto ottenuto una collocazione ben precisa all’interno del vocabolario legale cinese, e tutti i dubbi e ambivalenze interpretative ai quali il termine lascia ancora adito, non sono altro che i segni permanenti della sua evoluzione. Quanli ha potuto (e forse dovuto) veicolare più di un significato nel corso della storia, ma oggi, dopo quasi centocinquant’anni, espressioni come “Nin fang de quanli baokuo… 您方的权利包括…”, “Renmin de quanli…人民

的权利…”, o ancora “Ni mei you quanli…你没有权利…” non lasciano spazio a dubbi

interpetativi: “quanli” significa “diritto”.

Nonostante le diverse critiche mosse ancora nei confronti della traduzione di questo termine, va notato come, nel suo ruolo di traduttore legale, Martin adottò un approccio piuttosto coraggioso. Egli scelse, infatti, di allontanarsi da una mera traduzione letteraria del termine espresso nella source-language, ritenendo più efficace operare una traduzione libera. Ipotizzando, infatti, che la scelta dei caratteri cinesi da                                                                                                                

149 Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, trad. in italiano a cura di Giorgio Melis. In

impiegare nella traduzione di “rights” fosse stata operata da Martin tenendo conto delle caratteristiche della cultura legale d’importazione, dobbiamo riconoscere che essa sia stata una scelta audace, poiché non basata su una certezza interpretativa da parte della società-target. Essa lasciò, piuttosto, una sorta di “spazio vitale” al legal transplant. L’accusata ambivalenza e l’ambiguità del polimorfema furono – secondo l’ipotesi assunta da questo studio – le esatte caratteristiche che permisero a quanli di mutare, scomporsi e adattarsi secondo i vari contesti socio-politici della Cina del Ventesimo e Ventunesimo secolo, di sopravvivere così alle evoluzioni storiche e sociali, e quindi, in ultima analisi, di radicarsi indissolubilmente nel lessico legale cinese. Va ricordato che la nozione giuridica legata a questo termine è uno dei principi cardine della cultura legale occidentale. Il trapianto in questione, dunque, non ha coinvolto una legge di diritto commerciale, o una nozione in materia economica, bensì uno dei principi fondamentali del diritto civile occidentale. Ricordando ancora una volta la tesi di Crepeau, per il quale aree del diritto come quelle riguardanti le persone, o istituti come la famiglia e la proprietà, essendo troppo vincolate alle differenze di cultura legale dei Paesi coinvolti nello scambio, faticano a diventare oggetto di trapianti legali di successo,150 possiamo affermare che la sfida rappresentata dalla traduzione legale di quanli, non è stata delle più facili.

Il grande respiro interpretativo lasciato a questo termine (e concesso anche, e soprattutto, grazie alle peculiarità della lingua cinese stessa) sembra essere proprio uno dei fattori che hanno facilitato alla nozione di “rights” il graduale assorbimento all’interno della cultura legale cinese, permettendo alla comunità linguistica target di sviluppare un riferimento emotivo e cognitivo legato al neologismo. Il LT si è accomodato e radicato all’interno della società cinese e, divenuto un termine di uso comune, ha naturalmente stimolato un certo grado di “rights consciousness”. Questa consapevolezza diffusa ha a sua volta creato le basi necessarie affinché il popolo cinese iniziasse a riconoscere e proteggere i suoi “quanli”.

 

                                                                                                               

4.2.

“Fazhi” - Rule of Law

Il secondo termine che verrà introdotto in questo studio è espressione di un altro famosissimo caso di trapianto legale cinese: esso infatti è la traduzione dell’inglese “rule of law”. Quando, durante il ventesimo secolo, le nozioni occidentali di “democrazia” e “rule of law” bussarono alle porte cinesi, non ci fu bisogno di coniare un nuovo termine o di adottare un calco semantico, poichè il concetto si pensò potesse essere espresso da un termine che apparteneva al vocabolario legale cinese già da millenni.151 Questo equivalente semantico fu trovato in “fǎzhì 法治”152. Di nuovo ci troviamo di fronte a un polimorfema bisillabico, composto da “法 fǎ” (legge), e “zhì 治”, che traduce la forma predicativa “governare, amministrare” 153, ma anche il significato di “punire, trattare, curare”. Ancora una volta, le peculiarità linguistiche cinesi confondono una chiara interpretazione del termine tradotto. Ma prima di andare ad analizzarne le ragioni, cerchiamo di ricostruire quale fosse il significato espresso dal termine “fazhi” all’interno della cultura legale cinese, prima del (sopr)avvento della nozione legale filo-liberale occidentale.

Come anticipato nel secondo capitolo, la tradizione occidentale di rule of law è radicata nel precetto aristotelico secondo il quale la legge deve detenere un’autorità maggiore rispetto alla volontà di qualsiasi individuo. Il dovere di onorare e rispettare le leggi, anche quando queste ci trovano in disaccordo o interferiscono con i nostri personali interessi, è considerato il fondamento della società civile occidentale.154

E’ preferibile, senza dubbio, che governi la legge, più che un qualunque cittadino e, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi. […] Quindi chi raccomanda il governo delle leggi sembra raccomandare esclusivamente il governo di dio e della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo, v’aggiunge anche quello della bestia, perché il capriccio è questa bestia, e la passione sconvolge,

                                                                                                               

151 Vedi SHEN Yuanyuan, “Conceptions and Receptions of Legality”, in Karen G. TURNER / James V.

FEINERMAN (a cura di), The Limits of the Rule of Law in China. Seattle and London: University of Washington Press, 2000, cap. I, p. 24.

152 Le future diciture di fǎzhì appariranno trascritte in pinyin, ma senza l’indicazione dei toni.

 

quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione senza passione.155

In Cina, invece, fino agli inizi del ventesimo secolo (o potremmo dire durante l’era imperiale) il termine fazhi si riferiva specificatamente a uno dei termini chiave della dottrina legista che, insieme a quella confuciana, costituiva il pilastro della filosofia legale classica.Il punto di partenza della teoria confuciana coincideva con l’assunto che ogni uomo potesse essere educato in base alla morale (li 礼) e che soltanto ciò costituiva la premessa alla creazione di un ordine sociale ideale, fondato sul valore della virtù (de 德), rappresentata dalla figura del sovrano, un saggio capace di benevolenza (ren 仁) e giustizia (yi 义), che avrebbe funto da esempio di condotta morale per i suoi sudditi. Il fine ultimo del governo confuciano era il mantenimento dell’equilibro gerarchico verticalizzato, specificato dai cinque tipi di relazioni umane: sovrano-suddito, padre-figlio, marito-moglie, fratello maggiore-fratello minore, amico-amico. A tale scopo, gli unici strumenti validi sarebbero stati l’educazione morale e il ruolo esemplare del superiore. Per contro, la legge (fa 法) era considerata uno strumento inefficace e inadatto all’ottenimento di un equilibrio sociale duraturo, poiché la sua funzione - diversamente da quella svolta dalla morale li - non era di prevenzione al crimine, bensì si limitava a punire il soggetto ormai già colpevole. In netto contrasto con il Confucianesimo, invece, la scuola Legista sosteneva che tutti gli uomini fossero di natura cattiva e che perciò la legge – intesa prevalentemente in forma di sanzione penale (xing 刑), e esplicitata per mezzo di severe punizioni corporali – era necessario e supremo strumento di prevenzione agli atti illeciti. I Legisti ritenevano, infatti, che né l’educazione morale, né l’esempio virtuoso del sovrano potessero bastare a garantire un corretto ordine sociale, e che solo un sistema uniforme di leggi avrebbe permesso il governo dello stato. L’individuo, venuto a conoscenza della pena corrispondente all’eventuale crimine, avrebbe desistito dall’infrangere la legge. La fa legista era universale ed equa: tutti erano soggetti a essa, anche colui il quale ne era fonte, ovvero il sovrano (l’imperatore). “The ruler creates the law; the ministers abide by the law; and subjects are punished by the law. All (the

                                                                                                               

ruler, the minister, the superior, the inferior, the noble and the humble) are subject to law”.156

In contrast with the Western legal tradition, traditional Chinese law was not attributed to any divine origin […]. Both Confucianism and Legalism were primarly concerned with determining and maintaining a desired social order. Thus law in China was first and foremost a political tool, operating in a vertical direction, with its primary concerne being state interests, rather than on a horizontal plane between individuals. As such as it was not very interested in social regulations among autonomous individulas, and least of all in defending individual rights against the state. In this sense, the initial stimulus of traditional Chinese law was therefore also unrelated to economic development.157

Se, quindi, l’ideale di governo confuciano è stato descritto come un governo di “rule by man”, nel quale la responsabilità della riuscita di un buon governo – ovvero dell’ordine sociale - apparteneva al singolo individuo, quello legista corrispondeva invece alla definizione di “rule by law”, dove la legge penale scritta deteneva un ruolo meramente strumentale di affermazione e istituzionalizzazione dell’ordine sociale.158 “In the Chinese classical era, the early Legalists most strongly argued for law as a means to secure institutional continuity and control the emperor and his bureaucrats in the interest of preserving the resources and stability of the state.” 159

Il composto cinese al quale è stato affidato il compito di veicolare la nozione legale occidentale di “rule of law” coincide, perciò, con la coppia di caratteri che rimanda al significato di “rule by law”. Il cambiamento della preposizione responsabile della determinazione nominale (“of” o “by”, “di” o “con”) comporta evidentemente una cruciale differenza di significato: se in un sistema di “rule by law” la legge è concepita come strumento politico e amministrativo utilizzato dal potere governante per perseguire i suoi obiettivi, in un sistema di “rule of law”, invece, la legge, elevata a un ruolo super-partes, detiene la funzione di principio-guida imparziale e supremo. Ovviamente questa distinta specificazione può essere facilmente resa dalle preposizioni della lingua inglese, o da quelle dell’italiano; ma la lingua cinese, come illustrato nel terzo capitolo, specialmente nel caso in cui si tratti di un polimorfema creato per                                                                                                                

156 Guan Zi (Kuan Tzi), citato in: CHEN, Chinese Law…, cit., cap. I, p. 15.   157  CHEN, Chinese Law…, cit., cap. I, p. 20.  

158  CHEN, Chinese Law…, cit., cap. I, pp. 10-16.  

coordinazione, rende difficile stabilire il tipo di determinazione presente tra i due o più caratteri portatori di significato e definire nella pratica il legame sintattico al centro del composto.

Appare dunque estremamente chiara la prima delle due criticità linguistiche legate a questo secondo caso di LT: il termine “fazhi 法治” può essere allo stesso tempo tradotto in “rule of law” (“governo della legge”), così come in “rule by law” (governo per mezzo della legge). Non soltanto “fazhi 法 治 ” offre una possibile doppia traduzione, ma va sottolineato anche come, rispetto all’espressione “rule of law”, la traduzione “rule by law” affondi radici ben più solide all’interno della cultura legale di ricezione, poiché ancorata a uno dei concetti legali fondamentali della storia e della filosofia legale cinese.

La seconda problematicità linguistica, che pone la traduzione legale cinese di “rule of law” al centro del dibattito sui LT, ricorda il caso di “rights”. Come per “quanli”, infatti, anche “fazhi” vanta un omofono scomodo: stessa pronuncia e stessi toni, si tratta di fǎzhì 法制. Composto da “fa 法” (“legge”) e “zhi 制” di “zhidu 制度” (“sistema”), significa appunto “sistema legale, sistema di leggi”. L’assonanza di questo vocabolo, a sua volta appartenente al lessico della disciplina legale, va a sommarsi alla già doppia valenza del bisillabico fazhi, rendendo ancora più complessa e confondibile la referenza di questo significante fonetico. La scelta di utilizzare un termine le cui ambivalenze appaiono tanto evidenti, è stata motivo di discussione per anni e tutt’oggi costituisce uno dei temi centrali per il dibattito accademico internazionale. Gli studiosi legali occidentali, e in particolar modo quelli statunitensi, sostengono a gran voce che l’ambigua nomenclatura di fazhi rappresenti una sorta di giustificazione formale – o di pretesto – allo scarso livello di conformità che il governo cinese vanta nell’effettivo nei confronti di questo precetto legale.

Quando, agli esordi del ventesimo secolo, la nozione di “rule of law” penetrò l’impero cinese, risultò evidentemente molto utile ed efficace potersi servire di un termine già connotato di un significato legale in forte antitesi rispetto al principio di “rule of man”. Sebbene la rule by law legista avesse poco in comune con la rule of law delle grandi democrazie occidentali, “fazhi 法治” comunicava efficacemente l’idea di un governo basato sulle leggi e non soltanto sulle persone (o sulla persona, con richiamo alla figura

dell’imperatore) e questa evidentemente costituiva la componente di novità “trapiantata” più importante o, per meglio dire, caratterizzante. In realtà, all’esordio del suo “trapianto” durante il Decennio di Nuove Politiche, la nozione di “fazhi 法治 - rule of

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