2.3 L’ ACCOGLIENZA IN FAMIGLIA : ESPERIENZE , PROGETTI PILOTA , IL PROGETTO “P ROTETTO , RIFUGIATO A CASA MIA ”
2.3.3 Potenzialità e criticità
“L’accoglienza in famiglia è un valore aggiunto all’accoglienza promossa dagli enti locali. Esperienze di questo tipo sono utili ma vadano ponderate.”
Antonietta Nevigato (Servizio Centrale Sprar), 14 novembre 2014, Torino.
Dal materiale reperito riguardante le sperimentazioni che sono state attivate in Italia a partire dal 2008 è possibile trarre alcune considerazioni sulle potenzialità che, almeno a livello operativo, contraddistinguono questo tipo di accoglienza.
C’è innanzitutto da rilevare un elevato potenziale di attivazione della comunità locale: Si riesce a coinvolgere in prima persona i singoli abitanti e i cittadini di un posto in maniera più capillare e massiccia che in altre forme di accoglienza in cui in prima linea sono invece gli operatori, i mediatori o esperti linguistici, sanitari e legali. In particolare emerge il ruolo di mediazione che le famiglie hanno nei rapporti tra il beneficiario del progetto e la comunità locale. Un ruolo funzionale non solo alla conoscenza reciproca, ma anche alle dinamiche di inclusione sociale. Per di più, qualora le famiglie accoglienti fossero straniere, ciò dà anche la possibilità di coinvolgere cittadini stranieri in veste di mediatori sociali. Infine in diversi casi si è assistito alla nascita di reti di supporto costruite dal basso.
C’è poi un evidente economicità e convenienza rispetto ai tradizionali modelli di accoglienza di tipo comunitario.
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Ma soprattutto i risultati sono molto alti dal punto di vista del tasso di inserimento sociale (creazione di forti legami di vicinanza ed amicizia) e lavorativo (un numero alto di inserimenti in percorsi formativi finalizzati al successivo inserimento lavorativo che a sua volta ha portato ad assunzioni).
Dalle stesse sperimentazioni emergono però diverse criticità, anch’esse funzionali a ridefinirne l’operatività, ma anche a ripensarne il ruolo all’interno del sistema dell’accoglienza.
Il rischio principale è quello di un’accoglienza fondata unicamente sulla forza di generose scelte solidali, ma senza le necessarie competenze e capacità a supporto sia del beneficiario che della famiglia. Quest’ultima necessita infatti del supporto costante, a livello tecnico e psicologico, di una rete professionale: nella quotidianità, nelle fasi più critiche come quella di sgancio, ma anche nel caso di una rinuncia in corso d’opera. Si è molto lontani dalla codificazione di procedure, modalità e strumenti di intervento (selezione, formazione, supervisione e supporto alle famiglie; individuazione dei rifugiati secondo i singoli percorsi individuali; attività di monitoraggio e di verifica). Particolarmente complessa in questo ambito è la definizione di criteri per la selezione delle famiglie idonee in modo da filtrare e valutare le disponibilità. Le esperienze dimostrano che non tutti i titolari di protezione internazionale ed umanitaria e non tutte le famiglie possono intraprendere questa esperienza.
D’altra parta il considerevole abbattimento dei costi rispetto all’accoglienza più tradizionale registrato in tutte le progettualità attivate rischia di rendere attrattiva questo tipo di accoglienza anche laddove non ci siano i presupposti e gli strumenti perché questa sia effettivamente funzionale agli obiettivi di integrazione per cui è stata pensata. Inoltre la predisposizione di un contributo alle famiglie ospitanti può, se questo non è ben calibrato, creare i presupposti per un “mercato delle accoglienze”, soprattutto laddove le famiglie accoglienti siano anch’esse in situazione di disagio economico.
Ci sono poi degli interrogativi sulla riproducibilità nel tempo sullo stesso territorio: sono pochissime, infatti, le famiglie che si sono riproposte per una seconda
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accoglienza. Tale continuità è quindi subordinata al reperimento di nuove famiglie per ogni annualità di progetto, un’operazione non facile, soprattutto se filtrata nelle maglie di un’attenta selezione.
In ultimo bisogna considerare lo scarsissimo impatto che questo tipo di accoglienza sembra poter avere, anche in prospettiva, in termini numerici (di richiedenti beneficiari coinvolti). In un sistema di accoglienza già profondamente diseguale e aleatorio si rischia di produrre ulteriore disuguaglianza, fornendo ulteriori strumenti di
integrazione a quei pochi che già hanno avuto la possibilità di fare un percorso più strutturato ed efficace.
Sono una serie di criticità che impongono molta cautela rispetto all’inserimento delle accoglienze in famiglia nella prospettiva di un sistema unico di accoglienza. Allo stesso tempo, però, senza tale prospettiva, sembra impossibile coltivare la vera potenzialità dell’accoglienza in famiglia: quella di costruire una “civiltà dell’accoglienza”27, che veda
un’effettiva collaborazione, corresponsabilità e sussidiarietà tra istituzioni, terzo settore e società civile.
27 (CIAC ONLUS) “A chi tocca l’accoglienza. Riflessioni a margine del progetto “Rifugiati in famiglia””
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L’analisi della gestione dei rifugiati può rivelarsi astratta se non si prendono in considerazione le specificità del territorio. Infatti, se a livello gestionale rifugiati e richiedenti asilo risultano essere una categoria a sé, in particolare rispetto a quella delle migrazioni che non seguono l’iter della richiesta di protezione internazionale, nel discorso pubblico le diverse forme migratorie spesso si confondono e si
sovrappongono, influenzando anche la realtà concreta dell’accoglienza. Non si tratta di un’influenza diretta, perché i soggetti direttamente implicati nella gestione, sia a livello istituzionale che del privato sociale, hanno un’expertise che permette loro di evitare la suddetta confusione. Nella percezione dei cittadini invece le dinamiche
dell’accoglienza si confondono con le precedenti esperienze di migrazione del
territorio influendo, assieme alle condizioni sociali ed economiche del territorio, sulla maggiore o minore disponibilità dei cittadini e delle amministrazioni locali nei confronti dell’arrivo di rifugiati. (Dal Zotto & Scotto, 2014) Per questo, prima di analizzare sarà utile una breve descrizione del contesto della provincia di Padova e della sua storia di immigrazione.
3.1.1 Il contesto socio-economico: la Provincia di Padova tra città e campagna
Il contesto regionale
Il territorio di riferimento per l’implementazione locale del progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia”, oggetto dello studio di caso, corrisponde, in linea teorica, al territorio su cui si estende la Diocesi di Padova. Quest’ultima, però, per quanto comprenda buona parte della Provincia di Padova, si estende in modo irregolare includendo anche territori afferenti ad altre 4 provincie venete. La diocesi conta, infatti, su circa un quinto della popolazione regionale.