PARTE PRIMA
1. CARATTERIZZAZIONE DEI VINI BIANCHI EVOLUTI
1.1 Premessa bibliografica
1.1Premessa bibliografica
L’ossigeno ha rappresentato il primo argomento di chimica studiato nell’enologia di qualità. Già nel 1866 Luis Pasteur infatti ne aveva intuita l’interferenza nella vinificazione e il suo ruolo strategico (“Èstudes sur le vin:
de l’influence de l’oxygéne de l’air dans la vinification”), ma solo nel 1930
Ribéreau-Gayon, anche grazie all’avanzamento tecnologico degli strumenti di misura, iniziò a valutare gli effetti di diversi quantitativi di ossigeno disciolti nel vino nel corso delle vinificazioni e a correlarne anche i risultati organolettici.
L’ossigeno che si ritrova nel vino deriva dalle diverse pratiche di cantina applicate nel corso della filiera produttiva come ad esempio travasi, trattamenti di chiarifica, affinamenti in legno (Ribéreau-Gayon, 2006) e filtrazioni.
L’utilizzo di antiossidanti chimici, seguito dall’impiego di barriere fisiche, dal migliorato know-how e dallo sviluppo di processi con migliorati approcci integrati di filiera, hanno promulgato, nel susseguirsi dei decenni, delle stilistiche produttive orientate al governo ragionato dell’ossigeno. I due estremi sono: l’iperossidazione, tecnica caratterizzata dalla sovrassaturazione di ossigeno nel mosto al fine di esaurire completamente o quasi la reattività dei composti reagenti prevalentemente polifenolici, e l’iperiduzione, tecnica antagonista, in cui viene escluso il contatto con l’aria del mezzo al fine di salvaguardare tutto ciò che può mutare a causa della reattività nei confronti con l’ossigeno. Tale tecnica però ha prodotto una serie di criticità imputabili alla conservazione dell’instabilità del mezzo e non ultimo, al fatto che il vino essendo consumato all’aria concede una mutazione del profilo organolettico proprio all’atto del consumo.
A scapito del riduzionismo e del pensiero semplicistico, oggi si deve necessariamente considerare un approccio tecnico relativista, fondato sulle caratteristiche costituenti del prodotto, dalla reazione del terreno del vigneto, alle specificità del clone e portainnesto, all’andamento climatico puntuale dell’annata, alla tecnica di coltivazione e qualità delle uve, alla maturazione e raccolta.
Tutto ciò dimensionato e tarato sulle caratteristiche tecniche del vino finito desiderabile e destinato ad un determinato mercato.
Concettualmente diviene quindi strategico analizzare, prevedere e conseguentemente programmare la quantità di ossigeno che il vino può
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digerire positivamente e la soglia di alterazione o decadimento qualitativo e commerciale.
È importante distinguere tra la dissoluzione, fenomeno che indica l'assorbimento dell'ossigeno ad un dato momento, ed il consumo dell'ossigeno conseguente all'attività ossido riduttiva del vino nel tempo (Dal Cin, 1991). Ovviamente un vino può dissolvere una quantità di ossigeno anche molto maggiore rispetto alla quantità consumabile dalle normali reazioni di produzione e affinamento.
Tutto il processo è temperatura dipendente, seppur in maniera opposta, infatti mentre si descrive un aumento della velocità di combinazione dell’ossigeno con i composti del vino all’aumentare della temperatura, si assiste invece ad un calo della dissoluzione all’aumentare del contenuto d’alcol e di sostanze colloidali. (Lanati et al., 2002).
Una volta portato in soluzione, l'ossigeno non si può eliminare, per cui è condannato ad ossidare i costituenti ossidabili del vino, modificandone quindi la composizione e le caratteristiche organolettiche. In concerto con quanto asserito precedentemente modalità e quantità sono funzione del vino specifico: i vini rossi, più ricchi di composti fenolici, hanno una velocità di consumo dell’ossigeno maggiore rispetto ai bianchi a parità di temperatura, come vini maggiormente dotati di catalizzatori di ossidazione come Fe2+ e Cu2+ consumano più velocemente l’ossigeno.
Il consumo di ossigeno è riconducibile a tre principali modalità (Dal Cin, 1991) che possono anche coesistere:
- microbiologica, attraverso il metabolismo dei lieviti durante il processo fermentativo per la produzione di acidi grassi insaturi e steroli utili alla funzionalità di membrana e durante il processo di affinamento sulle fecce in post-fermentazione;
- enzimatica, imputabile agli enzimi ossidasici presenti sulle uve di partenza che possono danneggiare le caratteristiche organolettiche del mosto;
- chimica, tramite una via ossidativa non enzimatica che risulta positiva in una certa misura nei vini a lungo affinamento in legno in quanto utile alla maturazione del complesso polifenolico, ma può rivelarsi negativa nello specifico dei vini bianchi giovani.
Di fatto lungo la filiera, come già precedentemente ricordato, si possono individuare diversi ambiti di interesse rilevanti per il governo dello stato di ossidazione del vino finito:
- interazione varietà/sito di coltivazione/tecnica viticola; - tecnica di vinificazione;
- dotazione in metalli di transizione; - dotazione in conservanti;
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- interazione tempo/temperatura/radiazione luminosa tra imbottigliamento e consumo.
Nel processo di caratterizzazione dei vini bianchi evoluti si sono indagate in prima battuta le risultanze di una rappresentanza campionaria di rilievo delle denominazioni storicamente più autorevoli della regione Friuli Venezia Giulia. Comprendere quali siano i descrittori analitici che meglio identificano i vini bianchi maturi può contribuire al miglioramento tecnico del settore vitivinicolo.
Fig.41- Curva di evoluzione della piacevolezza del vino in bottiglia (Dubourdieu, 1992).
Le numerose sostanze responsabili dei caratteri organolettici dei vini sono dunque in continua evoluzione dinamica e sono responsabili sia dell’adeguamento normativo del prodotto nel caso dei disciplinari di produzione delle Denominazioni di Origine, che della soddisfazione edonistica del prodotto al consumo. Nonostante il giudizio sulle proprietà sensoriali possa sembrare soggettivo, in realtà viene oggettivizzato grazie ad esperienza e tarature dei panel con metodi degustativi certificati con produzione di referti analitici al pari di quelli chimici e microbiologici. Il colore del vino è una conseguenza dell’interazione tra le radiazioni luminose del visibile (400-700nm) e gli elettroni della materia. La percezione del colore è un’esperienza soggettiva risultante da rilevazioni dell’occhio interpretate dal cervello con l’intervento di fattori fisiologici e psicologici individuali. L’assorbimento selettivo delle radiazioni luminose dipende dalla costituzione chimica delle sostanze. La naturtale colorazione dei vini è dovuta esclusivamente ai pigmenti di natura organica dispersi nel mezzo; la
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manifestazione del colore è riconducibile alla presenza di particolari gruppi atomici detti cromofori provvisti di doppi o tripli legami di un sistema coniugato in cui gli stessi possono oscillare originando risonanza. In questa condizione, gli elettroni de localizzati e mobili, non più legati strettamente agli atomi di partenza e appartenenti ad orbitali molecolari, e quindi estesi, risultano essere facilmente eccitabili anche da radiazioni elettromagnetiche a bassa energia come quelle luminose. I sistemi coniugati estesi rendono il vino in grado di assorbire e riemettere energia nel visibile. Il colore può venire intensificato da auxocromi, ossia ulteriori gruppi chimici coadiuvanti del colore che accettano o donano elettroni. Elettroni dei doppietti liberi di azoto, zolfo e ossigeno, specie se situati in estremità delle molecole, contribuiscono al fenomeno della risonanza in quanto dotati di elevata mobilità. I pigmenti organici naturali vengono di solito classificati in base alla struttura chimica e quindi al gruppo cromoforo e si dividono in:
Polieni (carotenoidi, xantofille e al.); Chinoni;
Eterocicli ossigenati (antocianine e antoxantine o flavonoidi); Pigmenti pirrolici (clorofille e complessi porfirine-Fe); Flavine;
Derivati indolici (melanine).
Nel corso dell’affinamento del vino i primi tre gruppi, caratterizzanti il prodotto, subiscono una serie di evoluzioni ossidative che possono essere rallentate o governate con una serie di sollecitazioni chimiche e fisiche. Successivamente al colore il vino si qualifica per l’aroma, ossia per quella complessa sensazione percepita dalla somma delle caratteristiche individuate dai sensi del gusto, dell’olfatto, e dai recettori tattili e dolorifici della cavità orale, così come elaborate dal cervello.
Il vino distingue edonisticamente e tecnicamente olfatto, e quindi odore, e gusto, come somma dei sapori.
La sensazione odorosa, molto rilevante anche nella definizione del gusto, è determinata dalla presenza di molecole volatili nella cavità nasale. La stimolazione della mucosa olfattiva che ne deriva, nella parte superiore della cavità nasale di superficie prossima a 2,5cm2 per narice nell’adulto, produce lo stimolo nervoso che una volta rielaborato dal cervello identifica l’odore. La mucosa olfattiva ricoperta da un leggero strato di muco è costituita da cellule sensoriali, basali e di sostegno. Le sensoriali, di fatto cellule nervose cigliate, possiedono dei recettori proteici con metallo (rame-zinco) che vengono attivate dalla sostanza odorosa e trasmettono l’impulso nervoso, una volta superata la soglia di stimolazione, col nervo olfattivo sino al cervello che riconosce l’odore. Nella teoria stereochimica di Amoore le molecole odorose devono presentare contemporaneamente alta volatilità, liposolubilità e tendenza a legarsi con le proteine.
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