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CAPITOLO IV: LA LIBERTA’ RELIGIOSA

1. Premessa

In questo capitolo affronteremo il tema dei principi costituzionali e in modo particolare valuteremo, partendo dalla nostra Carta costituzionale, se è possibile trovare una compatibilità tra l’Islam e i principi che stanno alla base della democrazia.

2. L’ISLAM È COMPATIBILE CON I PRINCIPI CHE FONDANO LA DEMOCRAZIA?

Questa domanda è divenuta senso comune in Occidente dopo l’11 settembre del 2001, e cioè dopo il catastrofico attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono. È proprio con l’emergere del terrorismo jihadista, come protagonista globale, che si afferma l’idea della democrazia come unica via capace di evitare la deriva fondamentalista dell’Islam. È da quel momento che la domanda diventa sempre più urgente e la risposta a tale interrogativo sempre più importante. Sino alle Torri Gemelle l’Occidente aveva affidato ai paesi musulmani alleati il contenimento dei movimenti islamisti, ma ovviamente con l’attentato si è dimostrato il crollo di questa strategia e il suo fallimento. La democrazia appare allora oggi agli occhi dell’Occidente come l’unico rimedio alle sue esigenze di sicurezza e di stabilità: come arma decisiva per evitare che si

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giunga al sempre più evocato, e temuto, <<scontro di civiltà>>. Quindi la domanda se l’Islam è davvero compatibile con la democrazia risuona sempre più impellente, e posto che questa contaminazione politica sia un’esigenza del mondo musulmano, ci chiediamo quale tipo di democrazia è esportabile in quel mondo.

Una democrazia intesa come mero processo elettorale o allargamento della partecipazione politica; oppure come tessuto politico, giuridico, culturale, sociale fatto di diritti individuali e collettivi, eguaglianza tra i generi, separazione tra i poteri, pluralismo, affermazione del diritto positivo? Una democrazia “illiberale” o una democrazia “liberale”, per usare i termini in cui si è espresso Fareed Zakaria?37

Il termine democrazia “illiberale” è stato utilizzato da Fareed Zakaria nel 1997 su Foreign Affair: con questa parola egli vuole indicare una sorta di pseudo democrazia, democrazia parziale o democrazia vuota che indica un sistema di governo nel quale, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili. L’assenza di alcune libertà quali la libertà di parola o di assemblea rendono difficile qualsiasi tipo di opposizione; i governanti accentrano solitamente il loro potere sul governo centrale e il governo locale (non godendo della separazione dei poteri) si trova quasi escluso dal regime. I media sono controllati dallo stato e supportano perlopiù l’informazione data e il regime può applicare anche pressione e violenza contro i critici. Tuttavia

37 R. Guolo, Introduzione, in L’Islam è compatibile con la democrazia? Laterza, 2004.

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non si può annoverare tale sistema fra le dittature, dato che la figura di una sola persona accentra su di sé tutti i poteri. Con il termine, invece, democrazia “liberale”, lo stesso autore identifica la combinazione di democrazia, intesa come metodo di scelta del governo, e di liberalismo costituzionale, cioè la protezione dell’autonomia e dignità personale contro ogni forma di coercizione da parte dello Stato, della Chiesa o della società: la democrazia “liberale”, in questo senso, è tesa a promuovere e proteggere i diritti e le libertà individuali dei cittadini.

L’analisi che seguirà si incentrerà, quindi, sulla compatibilità dell’Islam con questa duplice accezione di democrazia, con particolare riferimento ai principi contenuti all’interno della nostra Carta costituzionale.

2.1 DEMOCRAZIA “ILLIBERALE”

Il principio che caratterizza questa forma di democrazia è quello democratico, che lo ritroviamo enunciato all’articolo 1 della nostra Costituzione:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

La formula <<L’Italia è una Repubblica democratica>> ha anzitutto il senso di enunciare la forma dello Stato italiano. Si potrebbe ipotizzare che quella accolta nell’art. 1 sia una nozione <<sostanziale>> di Repubblica, intesa come sistema di governo

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in cui i pubblici poteri derivano dai governati ed hanno carattere rappresentativo o, in termini ancor più vaghi, come evocativa di uno spirito repubblicano, di un necessario orientamento al bene comune e all’interesse pubblico, in cui siano sintetizzati i valori comuni ai cittadini. Ma il senso della parola Repubblica nell’art.1 è più ristretto, e va definito in contrapposizione alla forma monarchica che aveva retto lo Stato italiano sino al 1946. Per Repubblica si deve intendere pertanto una forma di Stato in cui il capo dello Stato non sia ereditario ma elettivo e abbia un mandato a durata predeterminata e non vitalizia.

Nella determinazione del significato del principio democratico, occorre chiedersi se democrazia e sovranità popolare siano espressione di un medesimo principio o se esse veicolino contenuti normativi diversi. Quest’ultima tesi è stata ad esempio sostenuta da chi ha affermato che la sovranità popolare definirebbe la spettanza al popolo del potere costituente, ed individuerebbe pertanto il fondamento ultimo del potere statale, ma non direbbe nulla sulla concreta organizzazione dello Stato, che potrebbe essere retto anche da un principio monarchico o da un sistema monarchico-rappresentativo sul modello di taluni Stati Europei dell’Ottocento.

Con la formula <<la sovranità appartiene al popolo>> si vuole indicare che ogni potere appartiene al popolo, ovvero che il potere sommo, quello costituente, risiede unicamente in esso e che tutti i poteri costitutivi derivano, non solo politicamente, ma anche giuridicamente, dal popolo medesimo.

Occorre adesso tentare di ricostruire le coordinate di una nozione giuridica del principio democratico, filtrando i dati

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ricavabili dalla teoria costituzionale. Una delle più celebri definizioni della democrazia risale al discorso tenuto a Gettysburg dal Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln il 19 novembre del 1863: <<government of the people, by the people, for the people>>. Essa esprime pienamente l’ideale dell’autogoverno popolare e sottolinea che un sistema democratico richiede la derivazione, diretta o indiretta, delle decisioni dei membri del gruppo che si qualifica come democratico (ovvero, in uno Stato, dal popolo).

La derivazione delle decisioni dal corpo elettorale non risolve il problema della modalità di adozione delle stesse da parte di un’entità composta da una pluralità di persone. Il principio democratico risolve tale problema declinandosi come principio

maggioritario, ovvero imputando al popolo (e agli organi da esso

derivanti) la volontà della maggioranza dei soggetti abilitati a partecipare alla decisione o effettivamente partecipanti ad essa (rispettivamente maggioranza assoluta o semplice) ed esclude, pertanto, tecniche decisionali diverse come l’unanimità, la maggioranza qualificata o il cosiddetto consensus. Il voto di maggioranza è solo il momento terminale di un processo decisionale complesso, di cui occorre garantire la genuinità, anzitutto mediante una serie di garanzie interne al processo decisionale. Ciò significa che il processo decisionale democratico deve essere formalizzato, trasparente ed aperto.

La formalizzazione della procedura decisionale democratica consiste nella soggezione di essa a regole predeterminate e non modificabili nel corso della singola decisione. Essa deve investire il novero dei soggetti abilitati a partecipare al processo decisionale e le facoltà ad esse riconosciute nel corso di tali

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processi in termini di potestà di emendamento e di discussione, modalità di voto ecc.

La trasparenza o pubblicità è la seconda caratteristica di un processo decisionale democratico: la democrazia è stata definita <<il governo del potere visibile>> o <<il governo del potere pubblico in pubblico>>. La pubblicità si articola in due versanti: uno in entrata (funzionale alla corretta formazione della decisione), che richiede la libertà di pensiero e di informazione e la trasparenza dei processi decisionali; ed uno in uscita (funzionale al controllo dell’opinione pubblica), in relazione all’output dei processi decisionali.

L’apertura è espressione delle dinamiche inclusive tipiche della decisione democratica, che richiedono di oltrepassare la dimensione formale del processo decisionale democratico, aprendolo alla partecipazione, mediante forme di ascolto e consultazione, dei soggetti interessati alla decisione, ma formalmente non abilitati all’adozione di essa, e, ove possibile, alla cittadinanza organizzata38.

2.2 DEMOCRAZIA “LIBERALE”

Riprendendo la definizione di democrazia “liberale” precedentemente enunciata da Fareed Zakaria, adesso seguirà la rassegna dei principi che stanno alla base di questo istituto e che trovano la loro collocazione nella nostra Carta Costituzionale. Essi sono l’articolo 2, 3 e 11 della Costituzione. Inoltre analizzeremo anche il principio di laicità, che sebbene non trovi

38 AA.VV., volume primo, artt. 1-54, in Commentario alla Costituzione, Utet Giuridica, 2006.

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una corrispondenza precisa in un articolo specifico della Costituzione, esso rappresenta un principio supremo del nostro ordinamento.

2.2.1 ART. 2 COST.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

In questo articolo sono contenuti tre principi diversi ma nello stesso tempo connessi tra loro, essi sono: il principio personalista;

il principio del pluralismo sociale e il principio di solidarietà.

Cominceremo la nostra analisi dal primo, espresso dalle parole con le quali si apre la disposizione.

Il principio personalista, << il primo dei principi fondamentali degli ordinamenti costituzionali del mondo occidentale>> , trova il proprio fondamento nelle parole <<la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo>>, pur non esaurendosi in esse: secondo qualcuno, detto principio <<caratterizza tutte le disposizioni costituzionali che tutelano una sfera della personalità, fisica e morale>>, sottolineandosi come <<il concetto stesso di Costituzione, in senso moderno, e la tecnica del costituzionalismo contemporaneo sono nati con un forte finalismo verso i diritti della persona>>.

Per quanto riguarda la disposizione in esame, gli aspetti da considerare sono quattro:

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b) la portata dell’espressione <<diritti inviolabili>>; c) l’ambito di estensione di detta categoria;

d) il significato da attribuire alla titolarità all’<<uomo>> di tali diritti e la connessa possibilità di distinguere in tale ambito la posizione dei cittadini da chi cittadino non è.

Il primo punto è stato oggetto di un forte dibattito in merito al <<fondamento>> dei diritti inviolabili che la disposizione in esame intenderebbe affermare e di cui è significativa la scelta del verbo << riconosce>> utilizzato. Punto comune del dibattito è dato dall’affermazione, ricavabile dalla disposizione, non soltanto della centralità dei diritti umani, ma anche della precedenza o anteriorità di tali diritti rispetto all’ordinamento giuridico ed in particolare di quello statale: in sostanza con questa espressione il costituente avrebbe voluto affermare che <<non è l’uomo in funzione dello Stato, ma quest’ultimo in funzione dell’uomo>>. Quindi il verbo <<riconoscere>> deve essere inteso come il contrario di inventare o creare dal nulla, ed in positivo come il frutto di un’opera di scoperta ed estrazione di elementi che sono interni alla trama costituzionale.

Il secondo punto è quello che concerne il significato da attribuire all’espressione <<diritti inviolabili>>. Se infatti <<riconosce>> significa precedenza o anteriorità, ciò comporta un limite preciso all’intervento dell’ordinamento giuridico: così come l’affermazione di esse come <<inviolabili>> comporta l’idea di una loro qualche intangibilità. L’espressione <<inviolabili>> deriva dall’espressione tedesca <<unverletzlich>> cui faceva richiamo la Costituzione tedesca di Weimar, che sta ad indicare la giuridica impossibilità di determinare l’eliminazione o anche

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la sostanziale compressione dei diritti qualificati come tali. Pertanto occorre ritenere che l’inviolabilità sottrae tali diritti al potere di revisione costituzionale regolato dall’articolo 138 Costituzione, almeno per ciò che attiene al loro nucleo essenziale, sulla base del presupposto per il quale essi formano il nucleo intangibile, destinato a contrassegnare la specie di aggregazione sociale cui si è voluto dar vita.

Il terzo punto è quello che riguarda l’individuazione della categoria dei diritti inviolabili e il suo contenuto che origina un problema per il quale devono essere individuati due aspetti: il primo si riferisce all’individuazione di quali, tra i diritti espressamente previsti e riconosciuti dalla Costituzione, siano da considerare inviolabili; e il secondo che riguarda invece il carattere <<chiuso>> o <<aperto>> della fattispecie cui si riferisce la disposizione.

Quanto al primo aspetto, è noto che la Costituzione attribuisce espressamente il carattere della inviolabilità a quattro diritti: la libertà personale (art. 13), di domicilio (art. 14), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15), il diritto alla difesa (art.24, 2 comma). Questo però non vuol dire che altri diritti riconosciuti dalla Costituzione siano esclusi dalla garanzia dell’inviolabilità, infatti la Corte costituzionale si è espressa annoverando tra tali diritti anche il diritto alla vita,, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, il diritto di contrarre il matrimonio ecc. ecc., così che si può affermare che la categoria debba estendersi a tutti quei diritti il cui riconoscimento è intrinseco all’adozione della forma di Stato democratico, sociale e di diritto.

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L’altro aspetto sul quale la dottrina e la giurisprudenza hanno a lungo dibattuto è dato dall’estensione della categoria di diritti inviolabili oltre quelli riconosciuti dalla Costituzione: si tratta in sostanza di scegliere tra le due tesi contrapposte di chi ritiene che la formula in questione abbia un carattere riassuntivo dei diritti espressamente previsti e riconosciuti, e che quindi la norma si debba considerare come a <<fattispecie chiusa>>; e chi, all’opposto, sostiene che la portata della disposizione consenta e anzi imponga interpretazioni di tipo estensivo, sì da far rientrare nella garanzia da essa apprestata anche diritti non enumerati nel testo costituzionale. La giurisprudenza ha ormai da qualche anno risolto la disputa in favore della teoria della fattispecie aperta anche se permangono giuristi che simpatizzano per la tesi contraria. Questo dibattito incontra oggi tentativi di superamento della logica dicotomica <<aperta>> o <<chiusa>> proiettando la categoria dei diritti inviolabili nella prospettiva della pienezza della persona umana.

L’ultimo aspetto che rimane da trattare circa questa parte della disposizione attiene ai soggetti cui essa debba essere riferita; se il riconoscimento dei diritti inviolabili debba essere garantito solo a coloro che appartengono all’ordinamento giuridico statale (quindi ai cittadini) o se invece esso debba estendersi a tutti, indipendentemente dal vincolo della cittadinanza.

Anche questo problema appare assai delicato sebbene si possa ritenere che in forza della considerazione della dignità umana quale valore che qualifica tutte le libertà costituzionali, non appare ammissibile una sottrazione del godimento della dignità umana e sociale a soggetti che, privi della cittadinanza, si

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pongono in posizione di eguaglianza rispetto agli stessi cittadini. Così è pacifico che i diritti che la Costituzione proclama inviolabili spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, come la stessa formula dell’articolo 2 lascia intendere (riferita all’uomo e non ai cittadini).

Detto questo possiamo dunque affermare come l’unico criterio guida che può tracciare una linea di confine tra diritti riconosciuti a tutti (cittadini e stranieri) e diritti garantiti ai soli cittadini non può che essere quello della ragionevolezza, dato che, come ha affermato la Corte costituzionale, il legislatore in materia ha un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli.

Adesso analizzeremo l’altro principio contenuto nella disposizione e cioè il principio del pluralismo sociale.

Per quanto riguarda la nozione di <<formazione sociale>> ci sono stai molti dibattiti che in verità non hanno portato a conclusioni unanimemente condivise, infatti qualcuno ha sottolineato come nella inesistenza di un concetto unitario e pacifico è il contesto che governa l’ambito del concetto.

Innanzitutto dobbiamo domandarci se la disposizione abbia l’intento di tutelare e promuovere il pluralismo sociale o semplicemente ne prenda atto, se non addirittura ne intenda rilevare gli elementi negativi sul piano della tutela dei diritti della persona. Una parte isolata della giurisprudenza abbraccia quest’ultima posizione ma la comune valutazione è che l’intento della disposizione è quello di promuovere il pluralismo,

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riconoscendone il valore fondativo dell’assetto costituzionale e sociale italiano.

La ratio che sta alla base del pluralismo sociale nella Costituzione consiste nelle finalità riconosciute alle formazioni sociali di favorire la socialità della persona, il suo inserimento nel contesto sociale mediante una rete di relazioni che ne consenta la partecipazione alla vita collettiva e quindi la sua piena realizzazione: il riconoscimento delle formazioni sociali tende ad offrire una risposta alle ragioni opposte di angoscia in cui si muove la condizione umana, sospesa tra la paura dello Stato e il deserto della solitudine. Favorire lo sviluppo della personalità dei singoli significa infatti garantire loro la possibilità di essere parte attiva nella società: da un lato favorendo la loro partecipazione ad aggregazioni in grado di determinare la politica nazionale, e dall’altro promuovendo il coinvolgimento in organizzazioni preposte a realizzare gli obiettivi propri di uno Stato sociale.

Il terzo e ultimo principio sancito dalla disposizione è il principio di solidarietà, che attiene come si è detto al concetto/valore della solidarietà, ricavabile dall’espressione secondo cui (la Repubblica) << richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>.

Tale formulazione connota la solidarietà quale ratio giustificatrice di detti doveri, in quanto il principio personalista impone l’affermazione del primato dei diritti della persona e la loro tendenziale incomprimibilità se non in forza di un valore costituzionalmente rilevante. Il principio di solidarietà così

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delineato viene recepito dalla costante dottrina e dalla giurisprudenza anche costituzionale: ciò non significa tuttavia che esso rappresenti la ratio giustificatrice di tutti i doveri che la Costituzione prevede. I doveri cui la disposizione in esame si riferisce sono quelli (e soltanto quelli) ispirati e finalizzati alla solidarietà politica, economica e sociale: ciò non esclude che altri doveri possono essere previsti dalla legge, purché essi esprimano interessi costituzionali meritevoli di tutela e che abbisognino per essere realizzati di quel tipo di imposizione39.

2.2.2 ART. 3 COST.

Anche il principio di eguaglianza rappresenta uno di quei principi che stanno alla base della democrazia “liberale”: inizieremo la nostra analisi dal primo comma di tale articolo:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

L’eguaglianza costituisce <<un principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura>>. Le parole utilizzate dalla Corte costituzionale ci fanno capire che ormai l’eguaglianza costituisce un principio supremo, implicito nell’assetto stesso dell’ordinamento, assolutamente non più messo in discussione circa la sua immodificabilità o la sua sottrazione a revisione costituzionale. Anche se si volesse

39 AA.VV., volume primo, artt. 1-54, in Commentario alla Costituzione, Utet Giuridica, 2006.

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escludere una gerarchia tra i valori costituzionali, l’eguaglianza costituisce un << principio generalissimo>>, una << supernorma>>, destinata ad operare come norma di chiusura dell’ordinamento, nel senso che costituisce un principio che influenza e orienta in maniera decisiva l’interpretazione delle altre disposizioni costituzionali, il punto di riferimento primario per cogliere il rapporto tra la nostra forma di Stato e la tutela dei diritti fondamentali. Possiamo ormai ritenere che in ogni ordinamento di ispirazione democratica vi è un principio generale non scritto che sancisce una eguale libertà di tutti gli esseri umani: tutti sono ugualmente liberi di fare e di pensare qualunque cosa se non è vietata dalla legge. Quindi anche se venisse abrogata la previsione normativa dell’articolo 3, 1 comma, il principio di eguaglianza formale continuerebbe ad operare nel nostro ordinamento in maniera pressoché identica. L’individuazione dei beneficiari dell’eguaglianza è ormai uno << pseudo-problema>>: inizialmente ci si rifaceva ad

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