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preprint che, il 30-31 dicembre, firma sullo stesso giornale un ampio articolo, Attorno

ad un dramma. August Strindberg, che intende pedagogicamente preparare il pubblico a un autore difficile quanto importante.

Nel suo articolo, Lanza inquadra Strindberg nell’ambiente culturale scandinavo, del quale sono rievocate le diffuse polemiche sociali e sull’emancipazione della donna. Strindberg viene altresì descritto come discepolo di Darwin, Spencer, Schopenhauer e Nietzsche; dopo aver fornito delle sue opere un panorama abbastanza ampio, si accenna allo squilibrio personale ed estetico dell’autore, addirittura al suo rasentare la follia, comunque sempre con una evidente considerazione. Quindi, un annuncio: subito dopo Vitti, anche Ermete Zacconi si cimenterà a Torino nel Padre (e «quale sia l’interpretazione ne giudicheremo stasera»), con un invito al pubblico a non considerare Ibsen e Strindberg fenomeni che debbano inevitabilmente condizionare la cultura italiana, anche se vanno recepiti come «espressioni originali»86.

Attentissima pure la recensione che Domenico Lanza dedica allo spettacolo zacconiano sulla «Stampa» del 31 dicembre 1895, dopo averla fatta precedere da una nota nella quale invitava il pubblico ad accogliere Il padre, senza assolutismi, ma «come un’espressione a sé, originale, geniale, forte, sia pure, ma sempre come una delle tante forme di teatro che hanno diritto all’esistenza, specialmente quando possiedono la vitalità intima dell’arte» e una particolare sintonia con la contemporaneità. Lanza sottolinea che il copione va contestualizzato nella polemica «del buon senso contro le esagerate teorie emancipative della donna, che Ibsen predilesse nei suoi drammi», e che Laura è quindi soprattutto «una delle più tragiche satire della donna scandinava». Insomma, le posizioni di Strindberg possono essere comprese e condivise in questa chiave anche dai «popoli del mezzogiorno, dove la donna è per tanti rispetti, però sempre in maggior schiavitù intellettuale e sociale delle donne di lassù».

Venendo allo spettacolo:

ieri sera Ermete Zacconi ci diede un’interpretazione che ha raggiunto l’altezza delle sue maggiori creazioni rappresentative. Dalla prima scena all’ultima della tragica azione egli ha dimostrato tale studio del suo straordinario, eccezionalissimo tipo e tale potenza di estrinsecazione scenica da produrre forse una tra le poche e più profonde impressioni di commozione indefinibile, quasi di terrore che il teatro possa offrire. Furono ovazioni lunghe, interminabili quelle che l’accolsero dopo il primo ed il secondo atto. Il terzo, dove forse il

86 Tangenzialmente, si può notare che lo sciovinismo italiano nei confronti della

drammaturgia nordica fu molto meno rilevante di quello francese, forse perché, al massimo, solo un quarto circa del repertorio che girava sulle nostre scene fra Otto e Novecento era nazionale e tutto il resto straniero, maggioritariamente proveniente dalla stessa Francia. Vedi in merito S. Jacomuzzi, Gli anni Ottanta: il decennio naturalista nel teatro italiano, in AA. VV., Teatro dell’Italia unita, a cura di S. Ferrone, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 177.

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limite della commozione artistica è superato dalla terribilità del momento, non ha convinti tutti all’applauso, come non ha convinti molti il dramma intero.

Abbiamo conferma che, dopo Spettri, nel caso del Padre, Zacconi aveva spostato il baricentro drammaturgico sulla figura del protagonista, alleggerendo la non lieve entità del personaggio di Laura, di fronte al quale si deve comunque supporre consistente l’imbarazzo delle attrici dell’epoca 87. Osserva Lanza:

[…] Il carattere più aspro, più difficile del dramma è certo quello della moglie Laura […]. Si tratta nell’interpretazione di rendere meno odiosa, meno trista la figura di questa donna: la difficoltà quindi è per l’attrice grandissima.

Delle due interpretazioni che Torino vide del Padre, quella di ieri sera è senza dubbio e di gran lunga la migliore: che però la signora Moro-Pilotto abbia pienamente rappresentato nell’intenzione dello Strindberg la figura di Laura non lo potrei affermare. Essa ebbe ieri sera momenti assai buoni, altri invece di minor efficacia e di minor intuizione.

Forse il camminar su quel filo di rasoio che divide nel carattere di Laura la realtà dalla più assurda inverosimiglianza è d’una difficoltà superiore ad ogni tentativo; il fatto è però che la lettura semplice del dramma ci fa concepire una fisionomia diversa.

Lanza conclude il pezzo: «Un teatro bellissimo ieri sera, un trionfo di esecuzione per Zacconi: ecco infine riassunta la cronaca di questo dramma che potrà urtare, irritare, ma non essere considerato come singolare opera d’arte. Altrimenti si potrebbe dire che anche Amleto è una tragedia impossibile».

Ormai Strindberg non era più sospinto solo dai buoni uffici del prof. Rindler, ma amorevolmente adottato dai grandi attori che, nei suoi tormentati personaggi maschili, vedevano anche un’opportunità di bilanciare l’obiettivo predominio scenico delle prime donne, in linea di massima favorite dal repertorio ibseniano88.

2. Sulla «Stampa» del I gennaio 1896, si legge: «Un buon teatro anche ieri sera alla seconda del Padre. La stessa dolorosa impressione e le stesse calorose ovazioni allo Zacconi, che rappresentò la sua faticosissima parte con l’efficacia già ieri notata e lodata»89. Anche «L’Arte Drammatica» del 4 gennaio ha una corrispondenza da Torino del solito Momus:

87 Appare forse emblematico un aneddoto narrato dallo stesso Vitti nelle sue memorie:

«Quando si trattò di rappresentare Padre di Augusto Strindberg, l’attrice che sosteneva la parte della moglie del capitano, si rifiutò energicamente di recitare… Figuratevi, il marito, in un accesso di collera da lei provocata, le scaraventava la lampada a petrolio accesa sulla testa…» (A. Vitti, Storie e storielle del teatro di prosa, Milano, Vecchi, 1926, p. 86).

88 Molinari ha evidenziato che all’epoca «le fortune di una compagnia dipendevano

soprattutto dalla prima donna» e che «fu caso mai, auspice Giovanni Emanuel, il realismo naturalista e patologico a creare nuovi spazi per i primi attori» (C. Molinari, L’attrice divina cit., p. 43 ss.).

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All’Alfieri Zacconi ha rappresentato Il Padre che Vitti già ci aveva fatto conoscere. Fu un gran successo per Zacconi, il quale infuse nella sua parte tutta la sua anima di grande artista.

L’ultimo atto fece accapponare la pelle agli spettatori, ancora poco abituati – per la somma loro fortuna – alla camicia di forza, dalla quale Zacconi ottenne effetti meravigliosi…

La cosa non stupisce affatto: Ermete Zacconi (1857-1948), «fido alunno della scuola lombrosiana», come ebbe modo di definirlo l’ostile Piero Gobetti90, non era per niente alieno da una concezione romantica del teatro, sicché i critici hanno potuto tramandare interpretazioni caratterizzate da una «nervosità ansiosa, misteriosa, un poco magica che pareva effondersi fluidamente da lui quando si moveva o quando parlava», rievocando un’«arte semplicemente meravigliosa» e di «tremendo rapimento e insieme di animazione della materia scenica» (così Renato Simoni)91. Si trattava decisamente di un interprete che aveva profonde affinità culturali con l’aspetto psicopatologico di certo naturalismo strindberghiano.

Zacconi fu anche l’attore che forse più d’ogni altro contribuì all’affermazione di Ibsen in Italia; il grande interprete moderno, che, molto attento al panorama teatrale d’oltralpe, aveva opposto allo stile neoclassico di Tommaso Salvini il verbo naturalistico-positivista. Un corrispondente romano dell’«Arte Drammatica» del 27 ottobre 1894 è esplicito: «compagnia […] e repertorio sono messi insieme per porre in evidenza un attore solo: lo Zacconi», che pure è «attore vero» e «moderno, fortemente intelligente e mirabilmente studioso»92. In questo bilanciamento di tradizione grandattoriale e scientifica modernità, tuttavia, il suo repertorio appariva «monocordemente lugubre», aggettivo che non intenderemmo in termini piattamente negativi, considerando la vacua gaiezza di tanti cartelloni del tempo, e che implica anzi una certa ansia sperimentale nella definizione delle opere da affrontare scenicamente.

89 Zacconi avrebbe portato Il padre a Torino ancora nell’ottobre dello stesso anno, ma «La

Stampa» del 29 ci comunica che, questa volta, il Teatro Alfieri «non era molto affollato, causa forse del cattivo tempo, forse anche dell’indole del lavoro» che, in ogni caso, «suscitò le medesime impressioni e discussioni dell’anno scorso: a parte le quali, lo Zacconi confermò la sua singolare intuizione e forza d’interprete».

90 P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, Torino, Einaudi, 1974, p. 148.

91 Cit. in G. Pardieri, Ermete Zacconi, Bologna, Cappelli, 1960, pp. 130; 133.

92 Il critico aggiunge: «necessariamente a lungo andare lo Zacconi che è pure il magnifico

degli attori moderni, pesa, pesa ed il pubblico vorrebbe, se il repertorio glielo consentisse, divergere un po’ l’attenzione, dirò meglio, l’ammirazione da lui per sentire, per godersi un po’ tutto l’insieme degli altri attori».

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