con i mezzi del teatro naïf…276.
Lo spettacolo durava quattro ore e Ronconi usava la triplicazione (con sei attrici) del ruolo della Figlia di Indra. Trattandosi di un saggio,
Il sogno fu presentato solo per poche
repliche.
Nel 1984, un attore estroso e geniale come Carlo Cecchi, assieme ad Anna Bonaiuto e Paolo Graziosi, affrontava Creditori, con la notevole regia di Italo Spinelli277:
uno spettacolo rapido e incalzante – scriveva Tommaso Chiaretti sulla «Repubblica» del 17 maggio –, e rapidamente chiuso appena giunto al segno. Soprattutto […] uno spettacolo insolitamente strindberghiano. Insolito, lo ripeto, forse più insolito in Cecchi, che rivela qui una misura che comprime, ma forse stimola la sua voglia antica di strafare, per costringerlo nelle movenze, nei gesti, e nelle parole di un autore terribilmente ostile, e che non si presta a futili giochi verbali.
Ormai non bastava più il pur ricco repertorio teatrale strindberghiano e, nel maggio dell’86, persino Inferno veniva adattato da Dario Della Porta sulle scene per la Compagnia del Teatro Belli con la regia di Antonio Salines. La fortuna di Strindberg è evidentemente allo zenit. Se Adamaria Terziani aveva potuto parlare, nell’84, di un’«impennata ascensionale» di Strindberg
276 R. Tian, De la Contessa cit., p.. 63 .
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«degli ultimi quindici anni, non a caso iniziata nel periodo della contestazione e non a caso ulteriormente accresciuta nel cosiddetto riflusso», quando l’autore tornava «tanto attuale […] in un periodo di equilibri instabili»278, affacciandosi sull’ultimo
decennio del Novecento, si deve però verificare un certo effetto di rebound (a riprova che sui riflussi non è mai il caso di contare) o anche un lentissimo declino delle rappresentazioni, pur non mancando ancora (persino in altri ambiti spettacolari)279
contributi di rilievo e importanti eventi editoriali280.
Infatti, sul bordo del decennio, nel 1989, Roberto Guicciardini affrontava ancora una
Sonata di fantasmi, ricca di echi
beethoveniani e accentrata su un eccezionale Sergio Graziani, che – secondo Giovanni Raboni, sul «Corriere della Sera» del 18 febbraio – disegnava «con calibrata enfasi la 278 A. Terziani, La fortuna di Strindberg in Italia: cinque anni di escalation , in «Svezia Oggi», n. 2, giugno 1984, p. 31.
279 Si potrebbe ricordare che nel 1990 il Teatro alla Scala riprende La
signorina Giulia di Birgit Cullberg, che il corpo di ballo aveva in repertorio dal
1981, con Oriella Dorella e Gheorghe Jancu, e che, a Trieste, nel ’93, lo stesso testo di Strindberg viene presentato in versione di melodramma con musica di Antonio Bibalo, compositore locale trasferitosi in Norvegia.
280 Nella prima metà degli anni Novanta, Strindberg viene accolto nei Meridiani Mondadori con due volumi di narrativa, curati da Ludovica Koch.
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scaltrezza istrionica e la brutale prepotenza demiurgica» del direttore Hummel. Lo stesso anno, Gabriele Lavia presentava una seconda edizione del Padre, questa volta come regista e come protagonista.
Ora l’interpretazione partiva dal presupposto che «la perdita della certezza ontologica [della paternità] riduce il soggetto protagonista a vivere la sua vita come un attore vive un ruolo; il ruolo del Padre… il ruolo del capitano. Egli è scacciato sempre dal ruolo che desidera… l’unico desiderato e possibile… il ruolo di “figlio”»281. Franco
Quadri, sulla «Repubblica» del 6 maggio, osservava che Monica Guerritore, nella parte di Laura, appariva, come lo stesso Lavia, volutamente «sopra le righe». Per il resto:
Pur ricorrendo alla nuova collaborazione scenografica di Carolina Ferrara e Luca Gobbi, Lavia mantiene l’azione nella gabbia delle tigri del ’77, che però non delimita il ring di allora e di tanti Strindberg successivi all’adattamento boxistico di Dürrenmatt per Danza di morte. Come nelle edizioni della Mezzadri, invece, davanti a una emblematica porta di fondo, al centro, ricoperta di moquette rossa come l’unica poltrona, figura una piattaforma girevole che consente un parossismo dinamico per le fasi di maggiore effetto drammatico. Su un angolo, vicino alle sbarre sotto la predella, si accumulano confusamente come dei giochi di bambino gli arnesi della ricerca scientifica del Capitano, ostacolata dalla moglie e evidentemente confinata in soffitta come uno scomodo hobby o un’anticamera alla pazzia. Tra i rovesciamenti sottolineati dai cambi di luce, e gli scrosci di musica, l’azione segue i ritmi mossi di una cupa partitura con asciuttezza simbolica…
5. Dopo Il padre, nel 1992, Lavia affronta
La signorina Giulia (di cui siamo stati
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traduttori, servendoci, per la prima volta, della versione restaurata da Gunnar Ollén nell’84). Nei suoi Appunti di regia, Lavia fissava così le linee essenziali del lavoro:
Questi “enormi drappeggi rossi con tanto di frangia” avvolgono una realtà quotidiana aspra, bassa. La pedana (il pavimento) è sghemba: un enorme tombino, un luogo di scarico dove arriva il peggio. I rifiuti della casa…
Un luogo “nel fondo” dove la vita celebra le sue cerimonie più basse…
[…] Attorno a questa realtà bassa, i velluti che precipitano dall’alto e che tendono all’alto. Una scala dissimulata fra essi e un’enorme finestra-grata-prigione- non si sa…
In questo luogo della mente e del cuore i personaggi divengono come uno specchio del mondo nel quale si trovano a vivere, e le loro passioni, le loro idee, i loro interessi costituiscono la trama infuocata, eterogenea, pluridimensionale della tragedia…
… La festa. Tutto ha l’aria della festa.
[…] Nella seconda parte Julie si mette i vestiti di Jean. […] vestita da uomo, sarà femminile, dolce, remissiva…
[… In Jean,] c’è molto del “bullo di paese”.
[…] Fin dall’inizio capiamo che non arriverà a niente. “Il servo è servo”282.
Lo spettacolo – ricordiamo – era visualmente immerso in un cromatismo scenografico sanguigno, che sprofondava il grigio naturalismo della cucina in un girone infernale con una scala che faceva indovinare in alto il paradiso della nobiltà (qualcosa che, secondo Ugo Ronfani, sul «Giorno» del 5 agosto, ricordava Francis Bacon). Momenti di feroce duello (Monica Guerritore era una Giulia di forte temperamento – «amazzone di parigina eleganza» – e lo stesso Lavia impersonava Jean con peculiare volgarità e 282 G. Lavia, Dagli appunti di regia , in « La signorina Giulia , Quaderni della Compagnia Lavia» cit., p.. 17.
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teatralità proletaria) si alternavano ad altri di assoluta desolazione, come quando il servo, dopo aver consumato il rapporto con la contessina, si aggirava svuotato per la scena, riabbottonandosi i pantaloni. La regia non ignorava la concretezza degli oggetti scenici fino ai piatti mandati in frantumi dall’isteria di Julie, ma, in particolare nella prima parte – come rileva Rodolfo di Gianmarco sulla «Repubblica» del 7 agosto 1992 –, «amplifica[va] molto l’alone musicale di veglione, di gozzoviglia a passo di “scottish” o di ballate popolari con ritornelli orecchiati dai due protagonisti».
A questa altezza temporale, Strindberg non indigna più e si cerca di comprenderlo in quanto our contemporary, di penetrarne le riconosciute complessità. Così, il poeta Giovanni Raboni, sul «Corriere della Sera» del 20 novembre, osservava che La signorina
Giulia è «un testo terribilmente delicato.
Recitandolo (e persino, in qualche misura, leggendolo) si corre continuamente il rischio di semplificarlo, di non tenere sufficientemente conto del suo inquieto, affascinante oscillare e impennarsi fra psicopatologia e simbolo». Affrontandolo,
bisogna guardarsi dallo «scivolare
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evitare «la tentazione di rendere “credibile” la vicenda». Raboni trovava Monica Guerritore «degradata sin dall’inizio, così come [Lavia] è l’incolpevole sicario, il carnefice-vittima, in cui la parabola del testo dovrebbe trasformarlo», ma riconosceva, specialmente nel protagonista maschile, «un’evidenza e una plasticità di per sé ammirevoli, e all’insieme dello spettacolo […] una certa forza d’urto. Non è tempo di sfumature; e non è escluso che questo Strindberg tutto d’un pezzo sia l’unica immagine oggi percepibile della sua complicata grandezza».
Altri tre spettacoli strindberghiani restano memorabili negli anni Novanta. Il primo, a dire il vero, non sarebbe immediatamente riconducibile a Strindberg, ma ne è pregno nei suoi sorprendenti, poetici e tenebrosi richiami alla Grande strada maestra ed estesamente al
Pellicano «immerso in un naturalismo
raggelato» (F. Quadri, sulla «Repubblica» del 7 aprile 1990). Stiamo parlando dello
straordinario emozionante collage
Metamorfosi sul tema del delirio, che si pone
come una produzione magistrale, intensa e visionaria, di uno dei più geniali inquieti
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artisti della scena italiana, Leo De Berardinis (1939-2008)283.
Il secondo spettacolo importante è Danza di
morte, che Antonio Calenda, nella veloce
traduzione di Franco Brusati, affronta come «uno psicodramma a tre» (cfr. «Il Corriere della Sera» del I dicembre 1992). Scriveva Giovanni Raboni, sullo stesso giornale, il 4 dicembre:
A distanza di quasi un secolo il testo non ha perso nulla della sua dirompente energia, e non c’è una sola circostanza del racconto che risulti riducibile al senso comune o alle ragioni del contesto storico; la sua verità sembra aver perforato il tempo come un meteorite, come il frammento oscuro, acuminato e lucente di un’eterna agonia.
Franco Quadri, sulla «Repubblica» dell’8 dicembre, trovava di «esemplare limpidezza» la regia di Calenda, che rendeva i protagonisti (Anna Proclemer e Gabriele Ferzetti, in «stato di grazia») «due disarmati eroi di Beckett inchiodati ai seggi su cui, dandosi le spalle, recitano una commedia del ricordo […]: non appaiono molto diversi da Hamm e Clov, intenti a torturarsi in un’altra prigione in
Finale di partita».
Renato Palazzi, sul «Sole24Ore» del 13 dicembre, parlava di grande «spettacolo d’attori» e di «allestimento che tende a 283 A una lettura suggestiva per frammenti del cosmo strindberghiano potrebbe essere riportata anche Strindberg Sonata ideata, nel ’94, da Pippo Di Marca per il Meta Teatro di Roma.
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smussare le asperità viscerali dello scontro per far posto a una specie di dissennata pacatezza, di delirante quotidianità non priva a tratti di risvolti ironici, appena contraddetti dall'esuberante ridondanza dell'impianto scenico di Ambra Danon».
Il terzo spettacolo memorabile è Il pellicano per la regia di Mario Missiroli, il quale rilancia il suo Strindberg «grande scrittore epico», che «non ha nemmeno bisogno di staccarsi dal realismo per essere epico»:
Quindi – spiega il regista –, per raccontare una storia di famiglia, ma straniata al modo suo, io sono ricorso a una sintesi da teatro borghese: credibile, passabile, ma carente di qualsiasi psicologismo o dettaglio. La panchina imbottita del morto, della mamma e di tutti è al centro della stanza ed è un po’ fuori scala; la stufa è accesa nella stanza, ma sollevata e fuori scala; la porta e la finestra sono del tutto fuori scala: poi ci ho messo dentro una storia borghese, perché Strindberg ha scritto una storia borghese, ma completamente epicizzata. […] l’epicità di Strindberg l’ho data solo sugli attori, solo sulla recitazione e su una scenografia che finge di essere realistica e grida di non esserlo284.
Renato Palazzi, sul «Sole24Ore» del 29 marzo 1998, si chiedeva quanto in fondo Il
pellicano fosse postmoderno e non piuttosto
«un residuo di classicità» con radici nell’Amleto e nell’Orestea. Comunque,
Missiroli, giustamente, fa percepire quell’aleggiante fatalità tragica che prescinde, che quasi invita a guardarsi da ogni introspezione psicologica, ma non dimentica di cospargere questo itinerario di dolore dei lampi di un’atroce ironia. C’è, a mio avviso, un momento in cui il regista pare lì lì per sfiorare un esito di pura genialità, ed è quando Gerda, la figlia, appare in camicia come la madre, e comincia ad aiutarla a vestirsi, le infila le calze, le mette il proprio scialle: se in quell’istante la cosa arrivasse fino in fondo, se Gerda indossasse a sua volta gli abiti
284 A. Rabbito, Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli , Milano- Udine, Mimesis, 2013, pp. 192-3.