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2000-2014: Strindberg nel XXI secolo

preprintdella madre e “diventasse” la madre e portasse a compimento quell’ipotetico e

IX. 2000-2014: Strindberg nel XXI secolo

1. L’avvio del XXI secolo in Italia si presenta per Strindberg ancora promettente: l’8 febbraio del 2000, Luca Ronconi – appena giunto alla direzione del primo teatro stabile nazionale, il Piccolo di Milano – affrontava, per la seconda volta (vedi § 4 dell’VIII Cap.),

Il sogno, aprendo una nuova fase artistica.

Amante di grandi e complessi cicli drammaturgici, Ronconi, non arbitrariamente, aveva abbinato il testo strindberghiano a La

vita è sogno di Calderón, traendone un

affascinante dittico.

In una lunga intervista a Claudio Longhi, Ronconi conferma la sua idea di fondo che il testo strindberghiano non sia «infatti orchestrato come una pura féerie fantastica, ma, esattamente come il sogno, nasc[a] da un travestimento dell’esperienza quotidiana», e spiega:

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Da sempre ciò che più m’interessa del Sogno è la costruzione paradossalmente tutta “in superficie”. Nel momento in cui getta il proprio sguardo negli abissi della psiche, Strindberg, adottando come modello del proprio scrivere il composito e nobilissimo universo del sogno, costruisce il proprio dramma intrecciando una fittissima rete di associazioni che dilatano all’infinito – sul doppio filo della contiguità metonimica o del salto metaforico – la testura dell’opera. Lungo la serrata trama dei suoi echi e rimandi, Il sogno si dilata così a macchia d’olio, dando vita a un labirinto drammaturgico-linguistico, strutturale, ontologico ed euristico- spirituale – in cui precipitano e coesistono diversi livelli di discorso, differenti funzioni narrative, molteplici piani di realtà e disparate strategie conoscitive o appelli religiosi286.

Nella nuova versione ronconiana, il copione era suddiviso in tre atti; gli attori erano ancora una volta una trentina e giovani (a differenza degli sperimentati professionisti utilizzati nel gemellare copione di Calderón) e permaneva la triplicazione del personaggio della Figlia di Indra (affidato a Galatea Ranzi, Laura Pasetti e Rossana Mortara), che apriva la rappresentazione scendendo da una scala metallica a chiocciola. Ora, al Teatro Studio, non c’era più l’impianto scenico a croce dell’edizione romana, ma veniva utilizzato uno spazio centrale sabbioso (attraversato da una pedana-binario su cui scorrevano scene che avevano la logica degli antichi pageants); spazio definito da un imponente altissimo tulle a velare la visione e a separare il pubblico, circa 220 spettatori ammessi, in due fronti paralleli. Le scene di Margherita Palli,

286 C. Longhi, Progetto Sogno di Luca Ronconi. Due interviste , in Il

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guardavano ancora forse allo stile e alle macchine povere di Tadeusz Kantor (artista notoriamente influenzato dal teatro onirico di Strindberg e assai presente in Italia nei due decenni precedenti).

Nonostante una maggiore cupezza figurale, nell’approccio ronconiano, permaneva comunque un’ipoteca razionalista che Franco Cordelli, sul «Corriere della Sera» del 10 febbraio 2000, coglie perfettamente, sottolineando che «a contatto con attori giovani [Ronconi] ritrova l’energia disincantata che è la sua qualità» e s’impegna, di fronte al cosmo inquieto e culturalmente eterogeneo di Strindberg, a placarlo, a chiarificarlo e a «mostrare che un sogno, dopo tutto, non è che un sogno», traendo dal testo strindberghiano pessimista e pseudocristiano «segnali di ebbrezza: che cos’è il Castello che cresce, e che alla fine s’incendia, se non un’anticipazione di Kafka o, cuore pulsante, polmone nudo e pieno di ribrezzo, una profezia di Cronenberg?».

Franco Quadri, sulla «Repubblica» sempre del 10 febbraio, trovava nella nuova interpretazione una minore ironia rispetto alla precedente, ma «aperture lancinanti» e comunque il proliferare di «comici atteggiamenti maniacali, con la pausa di

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qualche lentezza recitativa, nelle quattr’ore della nuova kermesse spinta verso toni azzurri e neri dai costumi di Carlo Diappi, senza dimenticare il bianco delle estati scandinave». Maria Grazia Gregori, sull’«Unità» dello stesso giorno, parlava invece di

un caleidoscopio immaginario e inquietante sul quale si imprimono, scandite da una coinvolgente colonna sonora (di Paolo Terni) fra Sibelius e Ligeti, le immagini. A chiudere in alto il cilindro [scenico] occhieggiano delle finestre che, abbassandosi a mezza altezza, si trasformeranno in case, dove spieremo la vita “umana” della Figlia di Indra.

Per Renato Palazzi, sul «Sole24Ore» del 13 febbraio, l’impressione di fondo è che «Ronconi tenda a non seguire Strindberg nel rappresentare un dolore universale, ma assuma questo testo scritto nel 1901 e già pregno di presagi kafkiani non tanto come anticipazione quanto come paradossale sintesi del Novecento», anche nei suoi emblemi teatrali.

Sull’«Avvenire» dello stesso giorno, Luca Doninelli giudicava Ronconi «più che regista, quasi autore». Infatti, «Ronconi non è visionario, ma visivo: ci fa vedere cioè la visionarietà, senza parteciparvi. E il fuoco di Strindberg diviene un gioco di macchine, che da un lato esplicitano i meccanismi della scrittura teatrale, ma dall’altro assumono su di sé tutto il mistero che dovrebbero svelare. E,

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alla fine, la commozione viene»287. Per

concludere, pur meno convinto dalla dizione

ronconiana troppo dilatata e frammentata dei

giovani interpreti, Masolino D’Amico, sulla «Stampa» del 10 febbraio, riconosceva tuttavia a Ronconi una felice inclinazione a sviluppare grosse macchine spettacolari (esigenza implicita in un dramma come Il

sogno), che invitano a occuparsi soprattutto

della coreografia come della «giocosa […] organizzazione degli effetti» e non impongono di contro «la necessità di curare troppo la recitazione, ché i personaggi sono ombre, allegorie senza spessore e senza sviluppo».

Il sogno ronconiano del 2000 si poneva comunque come una pietra miliare nell’affermazione del drammaturgo svedese sulla scena italiana e faceva sperare in una rinnovata Strindberg Renaissance, dopo il fulgido momento d’interesse editoriale e teatrale che aveva caratterizzato il periodo fra il 1970 e il 1990.Difficile oggi sostenere che l’impulso di Ronconi sia stato così incisivo. Infatti, nei primi anni del XXI secolo, si può registrare solo qualche occasionale esperimento con i drammi da camera, con qualche breve copione come Creditori e Pasqua, ma – pur concedendo che la tendenza sia addirittura globale – si può concludere che Strindberg, per il teatro italiano, è tornato a ridursi al Padre e, ancora di più, alla Signorina Giulia e a Danza macabra288. La conseguenza negativa, per il nostro

287 Sull’approccio di Ronconi al Sogno , vedi anche F. Mazzocchi, Drömmar

vid Piccolo Teatro. Luca Ronconi och Strindbergs dramaturgi, in Strindbergiana,

17, Stockholm, Atlantis, 2002, p. 51 ss.

288 Elena Balzamo ha rilevato, a partire dal 1990, l’«ulteriore

restringimento» in Francia e altrove, «in certa misura, persino in Svezia» del repertorio strindberghiano: «La signorina Giulia, Il padre e La danza macabra sono i più rappresentati; poi Creditori e Il pellicano», con la conseguenza che oltre il 90% della sessantina di drammi strindberghiani resta pressoché sconosciuto, per non parlare implicitamente della complessità della sua figura intellettuale (E. Balzamo, Utländska öden cit., pp. 178-9).

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