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CAPITOLO 2 RESTITUZIONE DI UMANITÀ, RESPONSABILITÀ E ABILITÀ

2.1 La ricerca empirica Caso studio: Azienda Agricola Solidalia

2.1.3 Prima parte della ricerca:

 Fase 1: “partecipazione osservativa”

Pur ritrovandone i collegamenti, ma non rispondendo esattamente ai caratteri della

metodologia della ricerca chiamata “osservazione partecipante”123, per non incorrere in

falsature, si è deciso di denominare la metodologia utilizzata “partecipazione osservativa”. La partecipazione osservativa, coincisa con il «mettersi in relazione» con la realtà oggetto di studio, è iniziata a partire dal mese di Giugno 2014, attraverso il lavoro in orto, in serra e nel

punto vendita124. Questa fase della ricerca, protrattasi sino alla metà del mese di Agosto, è

stata seguita da una fase di raccoglimento personale. Sino a metà Settembre, infatti, il tempo è stato dedicato, da una parte, alla riflessione e alla trascrizione del materiale e dei pensieri raccolti e, dall’altra, all’elaborazione teorica del presente elaborato.

Durante i primi giorni ho riscontrato una notevole curiosità nei miei confronti da parte delle persone coinvolte; curiosità accompagnata da un certo grado di diffidenza. Inizialmente fui

123 Per approfondimenti si vedano, L’osservazione partecipante. Una guida pratica, (a cura di) Semi G., Itinerari

Sociologia, Il Mulino, Bologna, 2010 e, “Tecniche di ricerca qualitativa”. Percorsi di ricerca nelle scienze sociali, (a cura di) Cardano M., Carocci editore, Roma, 2003.

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presentata come una tirocinante; denominazione intesa dai più in maniera senz’altro erronea. Infatti, nel corso dei primi giorni, nel momento in cui capitava di fermarmi, di affiancare gli operatori o di parlarci, gli sguardi si facevano più accesi e sospettosi. Pur non avendole direttamente intervistate, le persone provenienti dalle segnalazioni dei Servizi sociali di Padova, sono state importantissima fonte di informazione e possibilità di riscontro. Al pomeriggio, momento trascorso prioritariamente in serra e in particolare nel punto vendita, relazionarsi alle donne significava dare spazio alla chiacchiera, e questa diventava “momento

prendi nota”. Senza voler omettere le difficoltà riscontrate125

, quei momenti hanno permesso di appurare quanto la possibilità di creare un ambiente non omologato ed esclusivo, rivolto cioè ad un’unica tipologia di “utenza”, possa essere positivo per la persona inserita. In questo modo, difatti, all’interno del contesto socio-lavorativo in esame, non è stato riproposto il peso dell’etichetta sociale affibbiatagli, ma la sensazione provata dalle persone inserite è quella di essere parte di un gruppo in cui, seppur la differenza è la regola, se vivono relazioni positive e sentimenti di appartenenza.

Una volta spiegata la vera ragione della mia presenza nel loro contesto di lavoro, si è potuto personalmente e felicemente osservare l’instaurazione di un sentimento di benevola accettazione e un interesse sempre maggiore rispetto al percorso di studi e al mio futuro ruolo nel mondo del lavoro. A tal proposito, uno spazio particolare si ritiene vada riservato ad una riflessione trascritta all’interno di un quaderno di appunti della ricerca, che si riferisce ad un

momento di lavoro in campo, al fianco del signor F126:

«Luglio, un sole cocente, la terra, la coltura dei fagioli. La terra, il lavoro e il lavoro con il signor F.

Oggi ho avuto modo di toccare con mano quanto già da tempo è parte integrante della modalità d’aiuto da me concepita. Il servizio sociale si è da sempre posto, e tuttora si pone, come un ente, un’istituzione e seppure senza ombra di dubbio tra i professionisti sono presenti figure lodevoli, in realtà ciò che gli stessi rimandano è l’idea di una forte distanza tra la persona che richiede l’aiuto o verso cui, comunque, è rivolto e il portatore d’aiuto, il

professionista di servizio sociale. Davide127 ha pensato di spaventarmi quando mi ha detto che

125 Le problematiche iniziali, legate alle difficoltà di comunicazione tra gli operatori e i membri del gruppo, troveranno

spazio di approfondimento all’interno del capitolo tre, ed esattamente nel paragrafo 3.2, dedicato alla seconda parte della ricerca empirica.

126 Il signor F. è l’unica persona della quale non riporto il nome, non avendo avuto la possibilità di intervistarlo e

pertanto non avendo avuto l’autorizzazione a farlo.

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Davide Apolloni è un operatore dell’équipe dell’Azienda Agricola Solidalia, il cui ruolo verrà chiarito all’interno del terzo capitolo.

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mi avrebbe affiancato al signor F. Spesso, e soprattutto in alcuni contesti, avere a che fare con persone che non professano verbo può essere imbarazzante. Non so perché ma ero serena; la terra probabilmente tranquillizza anche me.. Comunque, quasi come una sfida, mi sono approcciata al signor F. con tanta naturalezza. Insomma, con il mio solito modo di fare. F. è stato autore di un reato ormai penalmente scontato. Ho espressamente richiesto che la sua entità mi fosse tenuta all’oscuro. Ho paura di essere condizionata dalla tipologia di reato commessa da queste persone. Siamo sempre troppo pronti a giudicare l’altro; ma qua, in questo contesto.. l’ultima cosa che voglio fare è giudicare, voglio solo osservare e capire, partecipando. Davide aveva ragione, sin dai primi giorni infatti il signor F. si è dimostrato molto taciturno e solitario. Devo ammetterlo però, un vero e proprio stacanovista! Autonomo e capace di lavorare la terra. In realtà, però, la mia più grande preoccupazione era legata al fagiolo, non avendo mai avuto occasione di raccoglierli, non avevo la benché minima idea di quali fossero maturi e pronti ad essere colti. Pertanto, la persona che ha chiesto aiuto sono stata io. Le due ore trascorse assieme non si sono rivelate così silenziose come previsto, anzi abbiamo parlato di una miriade di argomenti, anche personali. Forse sono stata io a metterlo a suo agio.. Non avergli fatto domande specifiche o tendenziose deve averlo tranquillizzato.. Sono convinta che buona parte di questa interattività positiva sia stata legata al fatto di avergli chiesto aiuto, si è sentito in qualche modo responsabile del lavoro da svolgere. Oltre ai fagioli, infatti mi ha fatto vedere tutto l’orto, mostrandomi ogni ortaggio e facendomi notare le differenze tra quelli maturi e quelli no. Anche quando sapevo ho preferito tacere! Volevo in qualche modo contribuire ad accrescere in lui la sensazione del sentirsi utile, competente, responsabile. Questo “idillio” è terminato nel momento stesso in cui ho menzionato il mio ipotetico futuro lavorativo.. assistente sociale.. Ho provato una strana sensazione quasi come se una lastra di ghiaccio si fosse in qualche modo materializzata tra me e lui.. un distacco glaciale. Silenzio, ma silenzio vero. Grazie agli ortaggi e alle problematiche che ho volutamente incontrato nel processo della raccolta, sono riuscita a continuare la conversazione. Penso veramente di non voler mai rappresentare l’istituzione, di non voler sicuramente rappresentare l’istituzione da temere o di cui diffidare. L’incontro con il signor F. è mi ha permesso di riflettere e capire che tipo di operatore sociale voglio essere, o meglio mi ha dato la possibilità di capire quale operatore non voglio essere. Prima di andarmene mi ha chiesto di dargli del tu e di poter richiedere il suo aiuto qualora ne avessi avuto bisogno. L’accaduto è notevolmente significativo e porta necessariamente a rivalutare il vecchio e classico concetto d’aiuto. Un operatore di agricoltura sociale ha un vantaggio incredibile! Lo spazio che fa da contesto permette di sviscerarsi dalla modalità standard di intendere l’aiuto e

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di creare reciproche responsabilità. Collaborare, cooperare e accompagnare la persona rendendola principale protagonista della riuscita del suo aiuto si rivela l’unica via per tendere alla positività dell’intervento.

Il sole cocente sulla pelle, la terra, il lavoro e il mettersi in relazione con il s. F.»

I contatti ravvicinati, dediti alla partecipazione e all’osservazione delle dinamiche relazionali tra le persone inserite, hanno evidenziato quanto il fare può essere vitale e necessario nell’attivare la persona. Relazionarsi è difficile per tutti, figuriamoci per delle persone con svantaggio che, per un motivo o per un altro, trovano delle problematiche nell’avvicinarsi all’altro e nell’esprimersi. A ciò si ricollega l’importanza della chiarezza delle informazioni di

guida da parte degli operatori dell’Azienda128

.

 Fase 2: intervista dialogica e ascolto attivo

La seconda fase della prima parte della ricerca ha avuto lo scopo di «r-accogliere» informazioni provenienti direttamente dalle persone in percorso penale inserite presso l’Azienda Agricola Solidalia. L’utilizzo del termine «r-accogliere» così trascritto, vuole mettere luce e rilievo sull’importanza dell’aspetto relazionale insito nella tipologia di intervista utilizzata. L’intervista dialogica, infatti, «è una particolare forma di relazione

d’ascolto»129

. Partendo dall’idea che l’intervista in sé non è altro che un tentativo di «creare conoscenza», tale tecnica, e nello specifico la presente ricerca empirica, si allontana dalla presunzione di dar vita ad un processo di conoscenza oggettivo, ma si pone nell’ottica di r-

accogliere «rappresentazioni di realtà»130. La relazione creata dall’intervista dialogica è

basata sul riconoscere l’Altro, non come oggetto, ma come persona/attore con cui mettersi in interazione; ancora, non si tratta di «mettersi nei panni dell’altro», ma di «entrare in con-tatto, di aprirsi alle rappresentazioni delle cornici di esperienze e di relazioni entro le quali

prendono forma le singole rappresentazioni»131. L’intervista dialogica, pertanto, è una

relazione tra una persona, un «Io», il «ricerca-attore» e un’altra persona, un «Tu», il «narra-

attore», che interagiscono reciprocamente in maniera inter-attiva132. Attraverso questa

tipologia di intervista, la persona che si racconta, nell’atto di farlo, esplora i propri mondi, dandovi accesso anche al ricerca-attore. Per questo, l’intervista dialogica si avvale di un’altra

128 Aspetto che troverà spazio di approfondimento all’interno del terzo capitolo. 129

La Mendola S., Centrato e Aperto. Dare vita a interviste dialogiche, Utet, Torino, 2009, Introduzione, p. XIV.

130

«Soltanto conoscendo la cornice entro la quale prende forma una data rappresentazione, un punto di vista del vivere personale e sociale, è possibile cercare di avvicinarsi, o meglio di aprirsi, ai significati della rappresentazione. E ciò va fatto senza coltivare il delirio di onnipotenza di cogliere sul serio il mondo dal punto di vista dell’altro», Ivi, p. XVII.

131

Ibidem.

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importante tecnica che contribuisce all’autenticità della relazione con l’altro: l’Ascolto

attivo133. Ascoltare attivamente significa accettare incondizionatamente l’Altro, senza

giudicarlo. Ponendosi e relazionandosi in maniera empatica, attraverso la condivisione di emozioni, sensazioni e rappresentazioni del mondo, si aziona quello che viene definito

«”agire comunicativo”[…], come confronto/scontro di opinioni tra attori sociali»134

. Nell’atto della proposta volta a chiedere ai narra-attori di accogliere la richiesta di entrare in relazione conoscitiva, si è ritenuto opportuno renderli partecipi del lavoro di tesi in ognuna delle sue parti. L’obiettivo è stato quello di far prendere coscienza di quanto si consideri indispensabile la loro partecipazione e di come, il dar voce alla loro sofferenza e al loro trascorso carcerario, per apprendere l’esistenza o meno dei possibili benefici tratti dalla esperienza presente, costituisce il cuore del presente elaborato di tesi.

La tipologia di intervista utilizzata, pur rientrando tra le interviste qualitative e non strutturate in modalità di domande aperte, è stata direzionata attraverso l’individuazione e la successiva specificazione dei campi di interesse verso cui far tendere la conversazione. Seppur aperta a qualsiasi racconto legato ad esperienze o relazioni di vita da parte dei dieci narra-attori

coinvolti135, l’intervista dialogica è stata indirizzata verso quattro tematiche fondamentali che

costituiscono poi i quattro successivi paragrafi del presente capitolo:

 l’esperienza in carcere, l’allontanamento dagli affetti e l’isolamento dalla società e le sue conseguenze;

 la reazione alla sofferenza in un’ottica di resilienza;

 l’attivazione di sé in chiave di empowerment, anche in connessione al contesto dell’azienda;

 l’importanza dell’aiuto e del percorso di recupero per l’acquisizione di modalità di funzionamenti capacitanti;

In quanto testimonianza di un vissuto, si è ritenuto opportuno procedere alla rielaborazione

delle informazioni136 derivanti dalle interviste dialogiche, utilizzandole come base esplicativa

delle teorie sulle quali viene basato il discorso qui approfondito. E, proprio perché considerate indispensabili e sostanziali, la scelta di metodo è ricaduta nella decisione di

133 Oltre all’op. cit. di La Mendola S., per approfondimenti si rimanda al testo: Rogers C., La terapia centrata sul

cliente, la meridiana, Molfetta, 2007.

134

La Mendola S., Centrato e Aperto. Dare vita a interviste dialogiche, Utet, Torino, 2009, Introduzione, p. 48.

135 Le persone in percorso penale alle quali è stato attivato un inserimento socio-lavorativo sono tredici, ma si è avuto

modo di intervistarne solo dieci a causa, da una parte, del rifiuto del signor F. e, dall’altra perché le restanti, avendo cominciato il loro percorso in azienda da pochi giorni, hanno preferito non essere coinvolte.

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riportare fedelmente quanto da loro affermato, senza apportare delle modifiche al loro italiano, così da sottolineare il rispetto per la persona, nonché per la metodologia di intervista utilizzata. Nel sostenere che, l’Agricoltura sociale e gli inserimenti lavorativi presso i contesti ad essa legati, si contraddistinguono per la presenza di spazi e tempi che permettono alla persona:

 una rielaborazione del proprio vissuto;

 di riattivare un contatto con sé stessi e con gli altri;

 di favorire una riappropriazione di capacità di resilienza, una rivalutazione delle proprie

risorse e quindi della propria capacità di empowerment;

 un’acquisizione di fiducia in sé stessi e in ciò che altro da sé;

 uno stimolo per la formazione di una modalità capacitante di funzionare, nel senso di

sapersi rapportare a più contesti relazionali;

si è fatto riferimento alle teorie sulla resilienza, in particolare al modello psico-pedagogico “La Casita” e a quello denominato “I have, I am, I can”; alle teorie sull’Empowerment e in particolar modo a quanto teorizzato da C. Piccardo e all’Empowerment sociale; e, infine, all’Approccio delle Capacità descritto da Martha C. Nussbaum. Nello specifico, le interviste dialogiche sono state instaurate con dieci narra-attori, persone detenute che beneficiano dell’art. 21 (lavoro all’esterno) o persone in misura alternativa alla detenzione (in particolare in affidamento in prova al servizio sociale o in detenzione domiciliare). Si tratta di:

 Indrit, di origine albanese, che pur considerandosi persona timida, afferma che attraverso

l’esperienza carceraria comprende l’importanza del comunicare il proprio pensiero e le proprie emozioni;

 Idris, di origini marocchine, il quale ha attraversato due differenti percorsi carcerari e

afferma di riconoscere quanto la vicinanza della famiglia faccia la differenza nell’affrontare il carcere;

 Mirco, veneto, che sostiene di aver fatto del carcere una possibilità per il suo riscatto come

persona;

 Pasquale, napoletano, il quale asserisce di aver compreso solo ora quanto l’età possa

determinare una differenza nella modalità di azione e di stare al mondo;

 Antonio, sardo, secondo il quale la passione per la terra è determinante per poterla

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 Serjan, albanese, afferma che pur avendo espiato la sua pena, essendo uno straniero,

continua a non poter uscire da una situazione di emarginazione sociale;

 Robert, di origini albanesi, immigrato di seconda generazione, che afferma di non avere

possibilità di vivere altrimenti in Italia;

 Bel Hassen, tunisino, che riconosce il teatro come il punto di vera svolta nel suo percorso

carcerario e che nel lavoro con la terra afferma di rivivere le sue origini contadine;

 Feriz, di origini Rom, asserisce di aver fatto il possibile per potersi integrare senza

successo e sostiene di non riconoscersi più in quest’Italia che l’ha tradito;

 Amadi, tunisino, che afferma di ritrovare il sorriso nel lavoro con la terra, di cui ama

anche l’odore.

Per quanto concerne il setting e le tempistiche delle interviste dialogiche, si è deciso di puntare su un setting informale, all’aperto, attraverso un rapporto ravvicinato vis à vis, che pur avendo creato delle problematicità nell’atto di ascolto e trascrizione delle registrazioni, si ritiene abbia contribuito a rendere la relazione dialogica scevra da difficoltà legate al lasciarsi andare, solitamente generate da un contesto o una prossemica troppo formale. Le tempistiche, invece, sono state maggiormente libere da condizionamenti in quanto, qualora la persona abbia sentito la necessità di parlare e approfondire sensazioni ed esperienze, si è lasciato lo spazio di argomentare a piacimento; così, qualora la persona sia stata di poche parole o abbia incontrato delle difficoltà nell’esprimersi, si è accolto lo spazio concesso dal narra-attore, nel tentativo di non incorrere in modalità invasive. Infatti, r-accogliere esperienze e relazioni di vita, ha comportato talvolta una forma di restituzione e di rinforzo rispetto a dei visibili e sofferenti stati d’animo delle persone intervistate. Spesso alcuni argomenti hanno riaperto vecchie ferite e in quei casi, nell’avvalersi delle teorie riportate, si è aperto una sorta di sostegno dialogico.

Personalmente, ho pensato che l’interruzione agli incontri dei primi due mesi avrebbe potuto inficiare la relazione instauratasi inizialmente, ma una volta ripresi i contatti ho potuto constatare il contrario. Nessuno, infatti, ad eccezione del signor F. ha rifiutato di interloquire con me, anzi si sono mostrati felici nell’offrire il loro contributo per la realizzazione del presente elaborato. Nei tempi precedenti all’intervista la mia mente è stata pervasa da milioni di modalità attraverso cui comunicare con loro, ma nell’atto del parlare tutto si è rivelato il più naturale possibile. Ammetto che ho avuto anche il timore che il mio credo verso le attività ri- abilitanti in Agricoltura sociale non fosse in linea con il sentire delle persone direttamente coinvolte. Ma le loro affermazioni, talvolta, sono andate anche oltre le mie aspettative.

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