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Principali aspetti non in compliance con lo IAS

Capitolo III: RIFLESSI SUL GRADO DI COMPLIANCE AZIENDALE

% PERDITA DI VALORE SU

3.3 La compliance aziendale

3.3.1 Principali aspetti non in compliance con lo IAS

L’obiettivo della presente analisi è quello di capire quanto le società italiane sono in compliance con lo IAS 36 nell’attuazione dell’Impairment test e individuare eventualmente alcuni caratteri comuni che possono causare difficoltà nell’applicare in maniera conforme i principi dello standard.

In questo paragrafo, saranno quindi riassunti in cinque aree i principali aspetti non compliance con il principio contabile.

Il primo concerne l’individuazione delle CGU. Questo è un aspetto particolarmente complesso e spesso le società hanno difficoltà nel capire quali sono quei gruppi di attività che rappresentano il livello minimo nel quale si generano flussi di cassa. Tuttavia, per agevolare l’aggregazione delle attività, lo standard prevede che quest’ultimo rappresenti il livello minimo di aggregazione, mentre consente che le CGU raggiungano, come limite massimo, le dimensioni del settore operativo di riferimento.

Le note integrative esaminate non forniscono molte informazioni sull’individuazione delle CGU, infatti, spesso la ricostruzione della loro dimensione è avvenuta su deduzione di chi scrive, oppure attraverso il confronto con i settori nei quali le aziende oggetto d’analisi operano.

È così emerso che la maggior parte delle società è in compliance con lo IAS 36 in quanto le CGU sono quasi sempre in numero uguale oppure superiore ad un settore operativo, tranne in due bilanci, ma la non-compliance in questo caso riguarda la scarsa informativa fornita nei bilanci, seppur richiesta espressamente dallo standard.

La seconda area di non-compliance è stata così individuata proprio nella mancanza di una vera e propria descrizione di cash generating unit, tranne in qualche raro caso in cui le società si sono limitate a riportare letteralmente la definizione fornita dallo standard.

Il passaggio successivo all’individuazione delle CGU, nel test di Impairment, è dato dalla misurazione del valore recuperabile, che, come si è visto, deve avvenire attraverso un confronto tra la stima di un valore d’uso e la stima di un fair value al netto dei costi di vendita.

Nella maggior parte dei casi il fair value non è stato calcolato a causa delle problematicità che la sua determinazione incontra. Una delle difficoltà principali è data dalla recente crisi

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finanziaria, che ha dimostrato con chiarezza che, in condizioni di turbolenza dei mercati, i prezzi di mercato sono misure distorte del valore delle attività e non sono in grado di esprimere informazioni value relevant in condizioni di grave crisi di liquidità.

Ad ogni modo, lo IAS 36 consente di poter stimare soltanto uno dei due valori, nel caso in cui l’altro non sia determinabile.

Dalla presente ricerca è emerso che la stima del fair value al netto dei costi di vendita è avvenuta solamente nei casi in cui il valore d’uso non era determinabile oppure per effettuare un confronto con un valore d’uso di ammontare particolarmente inferiore al valore di carico.

Tuttavia, le informazioni riportate nei bilanci in merito alla stima del fair value sono assai scarse e questo rappresenta un aspetto considerevole di non-compliance in quanto l’informativa richiesta dallo IAS 36 è particolarmente precisa.

Al contrario, lo stesso non si può dire sulle informazioni riguardanti il value in use. Essendo stato stimato dalla maggioranza dei gruppi appartenenti al nostro campione, abbiamo potuto effettuare un confronto su tutti gli aspetti richiesti dallo standard.

L’utilizzo del metodo Discounted Cash Flow (DCF) e di un tasso di sconto suggerito dallo stesso principio internazionale (WACC) sono sicuramente indicatori positivi di compliance. Tuttavia, a causa della carenza di informazioni, non è possibile esprimere giudizi in merito alla correttezza o meno del tasso stimato.

La maggior parte delle società ha attualizzato i flussi di cassa derivanti dai piani pluriennali, i quali in rarissimi casi hanno superato la lunghezza dei cinque anni, ma in tali circostanze è sempre stata fornita una giustificazione alla maggior ampiezza (ricollegabile quasi sempre alla durata della concessione).

Nell’attualizzazione dei flussi è stato, quasi in tutti i casi, inserito un terminal value, dato dalla rendita perpetua del flusso dell’ultimo anno di piano, per il quale è stato previsto un tasso di crescita g che, nella quasi totalità dei casi, non è superiore a quello “medio di crescita a lungo termine della produzione, dei settori industriali, del Paese o dei Paesi in cui l’entità opera, o dei mercati nei quali il bene utilizzato è inserito, salvo che un tasso superiore possa essere giustificato”80, e pertanto in compliance con lo IAS 36. Il range di valori in cui il

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tasso di crescita oscilla, escludendo i molti casi in cui è stato stimato prudenzialmente pari a zero, tra l’uno e il due percento.

Le restanti aree di non compliance con lo IAS 36 riguardano le informazioni che le società dovrebbero comunicare in merito alla scelta di utilizzare un tasso di attualizzazione ante- imposte oppure post-imposte, e alla scelta di dove - se nella stima dei flussi o del tasso di sconto - tener conto dei rischi.

Lo IAS 36 prevede che il tasso utilizzato per l’attualizzazione dei flussi finanziari venga considerato al lordo delle imposte e che rappresenti una congrua remunerazione del denaro impiegato e dei rischi associati all’attività. Tuttavia precisa inoltre che, essendo il WACC un tasso al netto delle imposte, l’attualizzazione dei flussi può avvenire attraverso un calcolo post-impose purché anche i flussi siano netti, in quanto questo metodo condurrà agli stessi risultati di un calcolo ante-imposte. Ciò che richiede lo standard, quindi, è esclusivamente una coerenza tra flussi e tasso. entrambi devono essere al netto oppure al lordo delle imposte al momento dell’attualizzazione.

Lo stesso vale per i rischi, dei quali si deve tener conto nel tasso, a meno che non siano già stati precedentemente considerati nella stima dei flussi di cassa.

Ciò nonostante, non è stato possibile esprimere un giudizio di compliance sulla correttezza delle scelte delle società, e questo sempre a causa delle scarse informazioni presenti nelle note integrative esaminate. Anche in questo caso, la non compliance deriva dall’assenza di informativa, seppur espressamente richiesta dallo standard.

Le cinque principali aree di non compliance possono così essere riassunte: 1. Numero di CGU inferiore al numero di settori operativi;

2. Mancanza di una descrizione di cash generating unit; 3. Tasso di crescita e lunghezza dei piani pluriennali; 4. Mancanza di informazioni sufficienti sul rischio;

5. Mancanza di informazioni sufficienti sul calcolo del tasso di attualizzazione ante- imposte.

In conclusione si può affermare che la maggior parte dei casi di non-compliance è data non tanto dall’errata applicazione dello standard, bensì dalla scarsa informativa espressa e quindi dalla non conformità con i paragrafi da 126 a 137 dello IAS 36 riguardanti le informazioni integrative.

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Per queste ragioni verrà condotta nel prossimo capitolo una seconda analisi empirica riguardante esclusivamente l’informativa presente nei bilanci delle società quotate italiane.