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Pietro Di Martino

Dip. Matematica – Università di Pisa – dimartin@dm.unipi.it

Introduzione

Già nei programmi per le scuole elementari del 1985 è esplicitato che “Il pensiero matematico è

caratterizzato dall’attività di risoluzione di problemi”. Nelle Indicazioni Nazionali per il primo

ciclo del 2007, in un certo senso si rafforza l’indicazione didattica, si afferma infatti che la pratica matematica è caratterizzata dalla risoluzione di problemi (“Caratteristica della pratica

matematica è la risoluzione di problemi”), e tale assunto rimane intatto anche nelle ultime

Indicazioni Nazionali per il primo ciclo del 2012.

D’altra parte, studenti e docenti del primo ciclo effettivamente ritengono di affrontare spesso (per gli studenti a volte anche troppo spesso), a scuola nelle ore di matematica (o a casa per le ore di matematica), problemi da risolvere:ma è proprio così?

Il punto sembra essere nella definizione dei termini usati: cosa significa problema? E cosa si intende per attività di problem solving? Ne sembra essere ben conscio anche il legislatore, che a margine della frase precedentemente citata sulla caratterizzazione della pratica matematica, scrive: “[problemi] che devono essere intesi come questioni autentiche e significative, legate

spesso alla vita quotidiana, e non solo esercizi a carattere ripetitivo o quesiti ai quali si risponde semplicemente ricordando una definizione o una regola.”

Ci domandiamo allora che cosa è un problema, non necessariamente di matematica, cercando di ricavare una definizione, alla quale probabilmente molti di noi non hanno mai pensato, partendo da esempi.

Fai un esempio di problema di vita quotidiana

Solitamente gli esempi che emergono sono enunciati in poche parole, talvolta ne basta una:

“il tempo”, “i soldi”. A questo punto, prima di cercare caratteristiche in comune tra gli esempi

portati, è importante discutere se e quanto i problemi sono riconosciuti come tali.

Discutere sugli esempi: li riconosciamo tutti come problemi?

Ciò che emerge spesso è che, condividendo uno stesso contesto generale di situazione, tutti riconoscono gli esempi portati come effettivi possibili problemi, emerge però anche il fatto che non siano problemi di tutti.

A questo punto, considerando gli esempi fatti, si chiede di trovarne le caratteristiche comuni per provare a dare una definizione di problema.

Quello che emerge (quasi) sempre è che la parola “problema” è associata a un disagio, e alla necessità di risolvere una situazione attraverso un ragionamento. Talvolta è osservato un aspetto singolare e interessante, che distingue gli esempi di problema riportati dal problema scolastico: negli esempi riportati non è quasi mai presente una domanda, domanda che invece caratterizza la chiosa dei problemi scolastici. In questi casi è possibile aprire una riflessione molto interessante sul perché di questa differenza, riflessione che porterebbe alla distinzione tra problemi autoposti ed eteroposti, e, volendo, a osservare – non senza sforzo – che le situazioni descritte nei problemi scolastici raramente inducono una “condivisione di problema”

(come invece fa la semplice dichiarazione “il tempo”: si intuisce che chi la fa non sa come organizzare il tempo per fare tutto quello che dovrebbe fare), semplicemente perché non descrivono situazioni problematiche (nemmeno immedesimandosi nei protagonisti della storia, se una storia è presente). Per questo nei problemi scolastici c’è bisogno della domanda: per esplicitare un “problema” che non è implicito nella situazione descritta.

Una definizione di problema che ci sembra molto interessante è quella proposta dallo psicologo della Gestalt, Karl Duncker (1969):

“Un problema sorge quando un essere vivente ha una meta, ma non sa come raggiungerla”

Questa definizione caratterizza il problema per due caratteristiche (discusse approfonditamente in Zan 2007):

1. Il fatto di avere una meta, un obiettivo. 2. Il fatto di non sapere come raggiungerlo.

Il problema e la meta

La prima caratteristica della definizione di Duncker, il fatto che il soggetto si trova di fronte a un problema se ha una meta, in qualche modo allarga lo spettro dei problemi, togliendo la caratterizzazione di disagio di cui abbiamo discusso nell’introduzione. Inoltre, sempre riferendosi alle caratterizzazioni di problemi che emergono nelle discussioni con gli insegnanti, questa parte della definizione di Duncker tramuta l’aspetto prescrittivo (“una situazione che il

soggetto deve risolvere”) in volitivo (“una meta che il soggetto vuole raggiungere”): la differenza,

anche in contesto scolastico (e a maggior ragione nel primo ciclo), non è da poco sul piano affettivo-motivazionale.

Il fatto di avere una meta, non implica che la meta sia univocamente determinata dalla situazione: soprattutto in contesto scolastico è molto facile che la meta che si prefigge lo studente non sia quella che si è prefisso l’insegnante dando il problema all’allievo. Come osserva Zan (ibidem), il giudizio sulla razionalità di una persona di fronte a un problema (e dunque in particolare il giudizio sulla razionalità degli allievi nella risoluzione di problemi di matematica) non può prescindere dall’interpretazione della meta che quella persona ha: il rischio che si corre è di bollare come irrazionali (e dunque rinunciare a intervenire) comportamenti tutt’altro che irrazionali, ma mirati a una meta diversa da quella di risolvere correttamente il problema. È probabilmente esperienza di tutti, in una situazione scolastica di valutazione sottoposti a forte stress, aver voglia di uscire il prima possibile da quella situazione; in questi casi, il comportamento più frequente è quello di “dire qualsiasi cosa” per poter appunto finire (bene o male diventa irrilevante) quel supplizio. Questo “dire qualsiasi cosa”, seppur spesso (sempre?) non efficiente per l’obiettivo di rispondere bene, è un comportamento coerente con l’obiettivo di uscire dalla situazione.

Zan (ibidem) osserva che, il riconoscere la necessità della presenza di una meta per parlare di problema, induce anche una definizione di “fallimento” dinanzi a un problema: si dirà che una persona ha fallito se non raggiunge la meta che si era prefisso. Una volta ancora si può capire l’importanza di interpretare la meta che un individuo si è posto, prima di poter parlare di fallimento.

La definizione di problema data è molto generale, non limitata al singolo problema di matematica: supponiamo che una persona abbia come meta quella di far bene in matematica a scuola e non sappia come raggiungere questa meta. Questo esempio mostra come in contesto didattico (e in particolare di recupero) è molto importante caratterizzare il fallimento, discuterne e individuarne, interpretarne le cause insieme ai propri allievi. Per avviare un’azione di recupero, infatti, condizione necessaria è che il fallimento riconosciuto dall’insegnante sia condiviso anche dall’allievo: se l’allievo non condivide il fatto di aver fallito rispetto alla meta di far bene in matematica, perché dovrebbe investire risorse in un’azione di recupero?

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Il condividere il fallimento è un passaggio necessario per avviare un’azione di recupero, ma è solo il primo. Una volta preso atto di un fallimento, in termini didattici (e di recupero), sono molto importanti quelle che Wiener (1974) chiama attribuzioni causali, ovvero i motivi che la persona pensa abbiano portato al fallimento1.

È interessante, anche in questo caso, partire da esempi concreti, si può dunque, ad esempio, chiedere:

Fai un esempio di fallimento vissuto come insegnante

E dopo aver raccolto esempi di fallimenti (l’esperienza di attività di questo tipo insegna che si raccolgono molti esempi generici “non riuscire a motivare gli studenti”, e un numero minore di esempi specifici “con Luca [nome di fantasia] non sono riuscito a entrare in sintonia, a dargli

quell’aiuto di cui probabilmente aveva bisogno”) vissuti dagli insegnanti, si cerca di studiarne

caratteristiche simili e differenze.

A questo proposito, Wiener descrive tre dimensioni molto importanti delle attribuzioni causali: • Causa interna/esterna: ad esempio uno studente può pensare di aver fatto male un compito perché non ha studiato (causa interna “Io non ho studiato”), oppure perché l’insegnante ha proposto una prova troppo difficile (causa esterna);

• Causa stabile/instabile: a seconda che la persona riconosca la causa come stabile nel tempo oppure temporanea;

• Causa controllabile/incontrollabile: a seconda che la persona pensi di poter modificare o meno la causa del fallimento.

Anche il riconoscimento di questi attributi delle attribuzioni causali può variare a seconda del soggetto (ovvero c’è un certo grado di soggettività): ad esempio l’impegno spesso è considerato controllabile dallo studente che lo riconosce come causa del proprio insuccesso, ma frequentemente il docente pensa che quello studente “non riesca” a impegnarsi.

A prescindere dalla considerazione sulla soggettività, Wiener osserva che se un soggetto attribuisce i suoi fallimenti a cause stabili e incontrollabili, non ha motivo per investire risorse nel cercare di cambiare le cose (è convinto di non poter intervenire sulle cause del fallimento). Dal nostro studio (basato sulla raccolta di temi autobiografici dal titolo “io e la matematica”) sul rapporto degli studenti italiani con la matematica (Di Martino & Zan, 2005) emerge come spesso lo studente in difficoltà in matematica abbia attribuzioni di fallimento legate a cause incontrollabili e stabili:

“Ho provato a studiare con tutte le mie forze ma non c’era niente da fare, la professoressa trovava sempre qualcosa che non andava”

Lisa, classe 2a secondaria di secondo grado

“Posso dire che per me la matematica è una malattia di cui non riesco a guarire. Comunque io mi impegno lo stesso per quanto possa riuscirci, ma ormai mi sono convinta che la matematica non mi entra in testa”

Cinzia, 5a primaria

1 Wiener parla di attribuzioni causali anche nel caso di successo (che spesso vanno a formare, col tempo e rinforzate da esperienze ripetute, delle vere e proprie teorie del successo).

Frequentemente, prima o dopo, quando uno studente persiste nell’avere difficoltà in matematica, anche l’insegnante condivide che le cause di tali difficoltà siano, per lui insegnante, incontrollabili. Si arriva quindi al consolidamento della convinzione, da parte di entrambi (allievo e insegnante), che non ci sia niente da fare e dunque la rinuncia di entrambi a impegnare risorse per superare le difficoltà2.

Questa discussione sul fallimento e sulle difficoltà può sembrare una digressione rispetto al tema dei problemi, ma non è esattamente così: abbiamo discusso di come per intervenire sulle difficoltà, per sperare che un soggetto investa risorse nel proprio recupero, è fondamentale che sia convinto di poter intervenire sulle cause del proprio insuccesso. Un’attività che permetta di valorizzare le risposte parziali, i piccoli contributi, le idee originali è dunque ideale per intraprendere questo percorso: il problem solving permette proprio di fare tutto questo.

Il problema e il pensiero produttivo

La seconda caratteristica della definizione di Duncker richiama il fatto che il soggetto non sappia come raggiungere la meta che si è prefisso: questa caratteristica differenzia il problema (la risoluzione del quale dunque richiede l’attivazione di un pensiero produttivo) dall’esercizio (in cui si richiede l’attivazione di un pensiero riproduttivo). Nel risolvere un problema bisogna attuare un comportamento strategico, prendere decisioni; nel risolvere un esercizio bisogna attivare un comportamento automatico: è evidente come sia importante riconoscere un problema o un esercizio, per non attivare un comportamento strategico laddove si possa attuare un comportamento automatico (e dunque meno dispendioso) e, viceversa, per non attivare un comportamento automatico di fronte a un problema.

L’impressione è che nella tradizione scolastica italiana si facciano pochissimi problemi e molti esercizi in matematica: spesso il “bravo” insegnante (Zan, 2001), quello che si preoccupa dell’autostima dei propri allievi, ritiene giusto non proporre mai situazioni nuove, sente l’esigenza di far vedere agli studenti “come si fa” prima di proporre un quesito.

Nella tradizione scolastica italiana in matematica, salvo casi sporadici, è privilegiata l’esecuzione di un numero anche cospicuo di esercizi, rispetto alla discussione di situazioni realmente problematiche.

“Se non faccio vedere come si fa, poi non riescono a farlo, sbagliano”: questa frase, che testimonia una preoccupazione sentita da molti insegnanti, mostra come siano gli insegnanti stessi i primi a preoccuparsi degli errori e dei possibili procedimenti risolutivi incompleti. Tutto questo è sicuramente molto comprensibile dal punto di vista psicologico, ma se ci fermiamo a riflettere un po’ proprio sulla definizione di problema che abbiamo dato, è piuttosto contraddittorio: in un problema, dove il soggetto non sa come raggiungere la meta, l’errore e anche il mancato raggiungimento della meta deve essere messa nel conto, ed è possibile comunque valorizzare non solo il prodotto finale, ma anche i processi risolutivi messi in atto.

A questo proposito è, a mio avviso, significativa l’introduzione di un libro molto bello di algebra per l’Università scritto dal famoso matematico Hernstein (2010):

“Due parole sui problemi. Ve ne sono molti, e solo un studente eccezionale potrebbe risolverli tutti. Alcuni servono solo a completare dimostrazioni del testo, altri hanno lo scopo di illustrare i risultati ottenuti e far pratica su di essi. Molti non vengono proposti tanto per essere risolti, quanto per essere affrontati. Il valore di un problema non sta tanto nel trovarne la soluzione, quanto nelle idee che fa sorgere in chi la affronta e nei tentativi messi in atto”.

L’auspicio è che gli insegnanti possano vincere la paura del fallimento nel proporre problemi, e

2 Abbassare le richieste ovviamente è una azione possibile, non stiamo qui a valutare se appropriata o meno (evidentemente dipende da molte considerazioni legate ai singoli casi), ma è comunque una decisione legata probabilmente proprio alla convinzione dell’insegnante che non ci sia niente da fare e quindi che ci si debba accontentare di risultati inferiori a quelli stabiliti in partenza.

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recuperino il gusto di far fare problemi ai loro allievi: quelli che lo hanno fatto, non solo sono andati incontro alle indicazioni normative e alle opinioni degli esperti, ma hanno provato la soddisfazione di raccogliere appieno la creatività e l’ingegno dei propri allievi.

Bibliografia

Duncker, K. (1969). La psicologia del pensiero produttivo. Firenze: Giunti-Barbera.

Di Martino, P. & Zan, R. (2005). Raccontare il contare: l’incontro scontro con la matematica nei resoconti degli allievi. In P. Gisfredi (a cura di) Itinerari tra storie e cambiamento. Momenti e

processi formativi. Bologna: CLUEB, 105-124.

Hernstein, I.N. (2010). Algebra. Editori Riuniti – University Press.

Wiener, B. (1974). Achievement motivation and attribution theory. Morristown, N.J.: General Learning Press.

Zan, R. (2001). I danni del ‘bravo’ insegnante. In L. Livorni, G. Meloni &A. Pesci (a cura di) Le

difficoltà in matematica: da problema di pochi a risorsa per tutti. Bologna: Pitagora Editrice,

135-141.

SPIEGA COME, SPIEGA PERCHÉ … UN PERCORSO TRA ARITMETICA E GEOMETRIA