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Problemi di accesso e di fruibilità dei servizi anche in una prospettiva di genere

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In un paese come l’Italia, in cui esiste un sistema sanitario pubblico, l’integrazione dello straniero si realizza se gli vengono assicurate le stesse opportunità di assistenza medica e di prevenzione delle malattie previste per il cittadino italiano. Come abbiamo già osservato, il D.Lgs. 286/1998 da un lato garantisce, attraverso l’iscrizione al SSN, la parità di trattamento per gli stranieri regolarmente presenti sul territorio; dall’altro assicura l’assistenza sanitaria agli immigrati irregolari o clandestini. La garanzia di un accesso ampio ai servizi sanitari per gli immigrati irregolari è presente anche in paesi come la Gran Bretagna, il Portogallo, il Belgio, l’Olanda, la Spagna, la Francia; al contrario Paesi dell’Est Europa, Malta Cipro, Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda e Germania ristringono la possibilità di accesso alle cure di emergenza e non necessariamente a titolo gratuito. In generale, comunque, nessun paese europeo garantisce agli stranieri irregolari un accesso libero ai servizi sanitari a parità di condizioni con i cittadini europei.

Una buona norma, seppur possa rappresentare un buon inizio, non è tuttavia garanzia di effettività della tutela del bene della vita che vuole proteggere: la norma, infatti, una volta promulgata deve essere applicata ed è proprio qui che nascono i problemi.

Proprio la questione della tutela della salute degli stranieri sta facendo emergere i limiti del nostro sistema di welfare, di cui fa parte anche quello sanitario.

La concezione che un individuo o un gruppo ha della salute e della malattia è socialmente e culturalmente condizionata, così come le pratiche mediche di riferimento: mentre per alcuni lo stato di salute può consistere in un generale stato di benessere, per altri esso coincide semplicemente con l’assenza di malattia. Di conseguenza, se le definizioni di malattia e di salute non sono univoche, diversi saranno anche i bisogni per i quali si chiede soddisfacimento. E’ proprio a questi bisogni diversificati che il nostro sistema non riesce a dare delle risposte adeguate: la mutazioni sociali in atto imporrebbero l’adozione di risposte differenziate, specifiche e individuali, mentre il sistema continua a dare risposte standardizzate che male si conciliano con il quadro di diversità sociale che abbiamo brevemente delineato.

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Inoltre, gli stranieri che decidono di rivolgersi al nostro sistema sanitario si trovano a dovere affrontare molti ostacoli sia dal punto di vista dell’accesso ai servizi che da quello della loro fruibilità. Per quanto riguarda le barriere all’accesso si distingue tra: barriere guiridico–legali, l’assenza cioè di documenti di soggiorno in regola che rende molto difficile per gli immigrati rivolgersi ai servizi socio-sanitari, soprattutto per la paura di essere denunciati ed espulsi; barriere economiche, come ad esempio le difficoltà a pagare la prestazione sanitaria; barriere burocratico-amministrative, la gratuità per alcune prestazioni e il pagamento di ticket per altre oppure la divisione dei servizi in prestazioni di base e di medicina specialistica, distinzioni spesso insidiose anche per gli stessi cittadini italiani; barriere organizzative, come ad esempio la poca flessibilità negli orari degli ambulatori e degli sportelli, i quali non tengono minimamente conto delle reali esigenze della loro utenza. Vi sono poi le barriere alla fruibilità dei servizi sanitari: barriere linguistiche, l’assenza di competenze linguistiche condiziona fortemente la comunicazione tra operatore sanitario e paziente, potendo portare addirittura a una diagnosi errata da parte del personale medico; barriere comunicative, la difficoltà cioè per il paziente di esprimere il proprio stato di malessere e per l’operatore sanitario di comprendere determinati atteggiamenti del paziente stesso; barriere interpretative, la diversità del sistema di welfare a cui ci si sta relazionando rispetto a quello a cui ci si è sempre rivolti; barriere comportamentali o culturali, che possono disorientare o fare sentire abbandonato l’utente straniero, ad esempio nel caso di assenza di un contatto personale tra medico e paziente oppure l’assenza di un vero e proprio follow-up durante il periodo di cura.

Tutti questi fattori portano l’immigrato, nella maggior parte dei casi, a servirsi dei servizi sanitari solo in caso di emergenza, mettendo a rischio la qualità e la continuità della cura.

A fronte di queste difficoltà nella gestione dei rapporti con l’utenza immigrata, nel 2000 il Ministero della Sanità ha emanato un documento intitolato “Le dieci regole per l’assistenza sanitaria agli immigrati regolarmente soggiornanti in territorio italiano”, con lo scopo di far conoscere sia agli utenti che agli operatori sanitari il percorso burocratico necessario per accedere ai servizi. Purtroppo questo tipo d’intervento non è sufficiente. Ormai si richiede un intervento più radicale, in termini non solo di politiche sanitarie, ma di ridefinizione del welfare

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in generale. Non si può continuare a ragionare per compartimenti stagni, ma bisogna guardare a tutti gli elementi che vanno a incidere sul così detto capitale di salute. Infatti, è vero che gli individui migranti possiedono un buon capitale di salute, necessario se vogliono affrontare la difficoltà dell’intero processo migratorio con i suoi traumi, la perdita del capitale sociale (relazioni familiari e amicali), etc. Ma nel momento in cui arrivano nel nostro paese si trovano a vivere in condizioni che minano la loro salute fisica e psichica. Le condizioni a cui ci si riferisce sono anzitutto quella economica, in particolare il reddito e l’opportunità di considerare possibile la cura di sé non solo in caso di malattia, ma anche attraverso la prevenzione. La dimensione economica comprende in sé anche il tipo di professione svolta: un lavoro a bassa specializzazione, fisicamente pesante, avrà ripercussioni dirette sulla salute e sul fisico della persona. Accanto a questi fattori si vanno ad aggiungere le condizioni abitative e sociali, nonché la disciplina normativa e le politiche territoriali in materia.