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III. «The bazungu made our history»

4. Processi di litterazione

Quanto appena affermato appare particolarmente appropriato per descrivere il contesto letterario e storiografico del Buganda, non solo nell’ambito delle cronologie regali studiate da Henige. I lavori di Michael Twaddle sulla produzione storiografica ganda descrivono infatti i motivi per cui le posizioni espresse in The Consequences of Literacy siano da verificare alla luce di uno specifico contesto socio- politico. L'idea espressa da Goody e Watt a proposito degli effetti causati dalla litterazione, secondo Twaddle, presenta due limiti. Da un lato, associare l’introduzione della scrittura al raggiungimento di una prospettiva critica sul passato offre una visione troppo riduttiva della totalità delle tradizioni orali, attraverso le quali sarebbe impossibile, o quantomeno problematica, la

ricostruzione della storia. Dall’altro, Twaddle fa notare come la prospettiva di The Consequences of Literacy non consideri la gradualità del passaggio da un contesto a «oralità primaria» (Ong 1986) a uno completamente alfabetizzato. Da ciò deriva l’omissione di un’analisi sulle nuove forme di conoscenza storica nate dall’influenza reciproca di oralità e scrittura, come la biografia storica o quelle tradizioni orali che continuano ad essere tramandate parallelamente all’uso della scrittura (Twaddle 1976).

Dunque, anche secondo Twaddle – il quale d’altronde rimanda spesso ai lavori di David Henige – l’introduzione della scrittura nel Buganda non avrebbe condotto verso una conoscenza più critica del passato nell’area del Buganda. L’uso di questa tecnica, piuttosto, avrebbe consentito ai Baganda di ottenere una maggiore coerenza interna fra le tradizioni che, fino ad allora, erano state tramandate esclusivamente per via orale, come descritto precedentemente, presso i masiro. La causa di questo processo, secondo l’autore, è da ricondurre ancora una volta a due fattori: il contesto politico coloniale e, in modo particolare, il ruolo primario assunto dalle missioni cristiane nell’ambito dell’istruzione. Twaddle esprime in modo chiaro questa sua posizione:

These newly-literate intellectuals were associating with Christian missionaries, not Ionian philosophers, and they were operating in a colonial situation rather than in independent city-states. "Conscious" the early Ganda historians certainly were in refurbishing their traditional heritage to meet current political (if not personal) needs; “comparative and critical” they were not, at least not in the senses implied by Goody and Watt (Ivi, 96).

Di primaria importanza risulta essere, inoltre, l’introduzione indiretta di una precisa idea di storia. Questo concetto venne diffuso mediante l’istruzione religiosa che, inizialmente, rimase prerogativa della élite politica del Buganda: i capi vicini al kabaka e i loro figli destinati ad assumere ruoli di rilievo nella gerarchia del regno.

Questa forma di colonialismo ideologico (wa Thiong’o 1986) non lasciò inerti i Baganda, i quali parteciparono attivamente al processo di occidentalizzazione avviato dall’amministrazione coloniale, traendone, in certi casi, importanti vantaggi di natura economica e politica. Pawliková-Vilhanová evidenzia, infatti, quanto la storiografia e la scrittura consentirono ai Baganda «the formation of a new cultural synthesis» attraverso la quale «the process of Westernisation and cultural exchange was shaped by their [dei capi ganda] choices and needs» (Pawliková 2014).

È importante sottolineare, tuttavia, come la prima forma di scrittura a raggiungere il Buganda non fu quella dei colonizzatori e dei missionari. Molte fonti ganda riportano come almeno dieci anni prima dell’arrivo di Speke, mercanti provenienti da Zanzibar tentarono di allargare la loro sfera d’interesse economico verso le aree più interne dell’Africa Orientale. Ahmed bin Ibrahim è generalmente considerato il primo arabo ad aver messo piede nel Buganda (Gray 1947) e il suo arrivo fu probabilmente il primo passo per la diffusione dell’Islam all’interno del regno. Si riporta, infatti, che Ibrahim iniziò il kabaka Suuna II alla religione

musulmana e che lo stesso sovrano fosse in grado di recitare a memoria diversi capitoli del Corano (Pawliková 2016, 197).

Sin dalla sua introduzione, dunque, la scrittura riscosse successo fra i Baganda ma venne usata dapprima nella sua forma araba. La lingua del Corano rappresentò tanto un mezzo di accesso alla nuova confessione quanto uno strumento utile al mercato e alla diplomazia. L’arabo, pertanto, divenne la lingua della élite politica e fu il veicolo per l’adozione di nuove pratiche religiose. Pawliková-Vilhanová chiarisce come il processo di conversione all’Islam fu graduale e raggiunse l’apice dopo il 1966, quando Muteesa I iniziò a sostenere con più vigore il commercio con

Zanzibar. I documenti scritti fra il 1862 e il 1875 attestano, infatti, che il kabaka iniziò a seguire l’Islam e ad osservare il Ramadan, rifiutando tuttavia la circoncisione e continuando a praticare la religione locale, in modo particolare nei tempi di crisi:

Mutesa himself learnt to read and write Arabic and Kiswahili, adopted Arab dress and manners, started to read the Qur’an and maintained diplomatic relations with the Sultan of Zanzibar. He was especially fond of Arabic poetry and could converse fluently in Arabic with European visitors (Ivi, 198).

Anche i capi vicini a Muteesa I adottarono la religione musulmana. Intorno al

1870, infatti, avvenne un vero e proprio processo di alfabetizzazione e islamizzazione27 della corte, si adottò l’uso del kanzu e la lingua araba – così come

lo swahili28 – iniziò a diffondersi in tutto il regno: «Between 1867 and 1875, the

impact of islamisation began to be felt not only at the court, but in the countryside as well. Islam was gaining ground and was proclaimed the state religion» (Ivi, 199). La parallela diffusione della scrittura e della religione musulmana furono determinate dall’obbligo di lettura del Corano, necessaria per una piena adozione dell’Islam e ciò consentì la costituzione di uno stretto legame fra l’ambito religioso e quello letterario. Questa circostanza è resa evidente, oltre che dai documenti storici e dalle tradizioni ganda, anche dal particolare uso del verbo luganda “okusoma”: coniato per esprimere l’azione del leggere, fu da subito associato anche a quella del pregare (Ivi, 198). Per lo stesso motivo, coloro i quali scelsero di abbracciare la religione musulmana vennero chiamati basomi, ovvero “lettori” (Twaddle 2011, 230).

27 Per un’analisi più approfondita dell’influenza araba nel regno del Buganda, cfr. Oded (1974),

Kasozi (1986) e Soi (2011).

28 Lo swahili (dall’arabo sawahili, “costiero”) è una lingua diffusasi a partire dalla costa orientale

del continente africano, centro commerciale e zona di interscambio fra diversi gruppi africani, arabi, persiani e hindi. Grazie alle rotte commerciali battute dai mercanti arabi, si è diffuso verso il centro del continente e oggi è una delle lingue ufficiali, insieme all’inglese o al francese, di molti paesi di quest’area. Tra questi ultimi figura anche l’Uganda, dove, tuttavia, il luganda rimane la lingua più diffusa. Per un’analisi delle politiche linguistiche ugandesi e per un raffronto fra l’uso dello swahili e del luganda, cfr. Pawliková (1996).

I primi missionari cristiani29, sia anglicani che cattolici, compresero l’importanza

del legame fra religione e scrittura creatosi presso i Baganda e decisero pertanto di trarne vantaggio al fine di ottenere, per le loro confessioni, una diffusione maggiore rispetto a quella raggiunta dall’Islam. Tuttavia, giunti nel Buganda molti anni dopo rispetto ai mercanti arabi, i missionari si trovarono a fare i conti con un ostacolo linguistico: inizialmente incapaci di comprendere il luganda, furono costretti all’uso dello swahili, che tuttavia risultava strettamente legato alla religione musulmana. A ben vedere, lo swahili era già stato impiegato, qualche anno prima, per la traduzione di alcuni brani cristiani: ospite presso la corte di Muteesa I, Henry

Morton Stanley tradusse una selezione di testi biblici e l’intero Vangelo di Luca, con l’aiuto del suo interprete Dallinton Maftaa Scopion, uno schiavo proveniente dal Nyasaland – attuale Malawi –, liberato a Zanzibar, successivamente battezzato e istruito presso la Universities' Mission to Central Africa.

Lo stretto legame fra lo swahili e la religione musulmana rimase comunque un ostacolo per i missionari di entrambe le confessioni cristiane, i quali considerarono perciò più efficace introdurre l’uso del luganda nelle loro attività, al fine di incrementare la divulgazione dei loro insegnamenti. Affinché il messaggio cristiano potesse essere compreso dall’intera popolazione ganda, i missionari intrapresero un lavoro di traslitterazione della lingua locale, passo preliminare e necessario per la traduzione completa della Bibbia. L’evangelizzazione del Buganda passò, dunque,

29 L’avvio delle missioni cristiane nel Buganda avvenne a seguito della famosa lettera inviata da

Henry Morton Stanley al London Daily Telegraph, pubblicata il 15 novembre 1875, all’interno della quale l’esploratore britannico informava la madrepatria della disponibilità di Muteesa I ad accogliere

i missionari nel suo regno. Le parole impiegate da Stanley per descrivere il Buganda e il suo sovrano furono entusiastiche e ricalcarono quelle scritte tredici anni prima da Speke nella sua opera più celebre (1962). L’invito di Stanley venne presto accolto dalla Church Missionary Society (CMS), che inviò i primi missionari, S. Smith e C. T. Wilson, nel 1877. Una vera e propria opera di evangelizzazione fu tuttavia inaugurata l’anno successivo, quando giunse nel Buganda Alexander Mackay. I primi missionari cattolici, Simeon Lourdel e Amans Delmas, vennero invece inviati dalla società dei Padri Bianchi due anni più tardi. Per un approfondimento sulla storia della chiesa in Uganda, cfr. Sundkler-Steed (2000), in particolare i capitoli dedicati all’Africa Orientale.

da un’iniziale alfabetizzazione della popolazione e fu agevolata dalla diffusione di testi stampati. In modo particolare, furono gli anglicani a prevedere la centralità della tipografia e per questo motivo inviarono nel regno una macchina da stampa con il primo gruppo di missionari (Rowe 1969, 19).

La prima Bibbia in luganda fu pubblicata nel 1896 dalla British and Foreign Bible Society (Fig. 11), al termine di un lungo progetto di traduzione intrapreso in particolar modo dal missionario anglicano George Pilkington, giunto nel Buganda alla fine del 1890. Da parte loro, i missionari cattolici si dedicarono all’opera di alfabetizzazione dei Baganda mediante la traduzione di grammatiche e dizionari, grazie al lavoro di linguisti come Léon Livinhac, Henri Le Veux e Julien Gorju (Pawliková 2006, 203-204).

Il lavoro intrapreso dalle missioni determinò, in pochi anni, il vertiginoso aumento del numero dei basomi cristiani, che superò quello dei musulmani. Ciò è dimostrato dalla posizione marginale in cui si ritrovarono questi ultimi, penalizzati dal loro ritardo in termini di scrittura: la maggioranza cristiana, infatti, favorendo il diffondersi del luganda, nella sua forma traslitterata mediante l’uso dell’alfabeto latino, impose ai musulmani di adeguarsi e di relegare la lingua araba all’esclusivo uso liturgico (Rowe 1969, 20).

Ad agevolare la diffusione della religione cristiana fu l’istituzione delle scuole da parte dei missionari, inizialmente riservate alla formazione dei capi. L’avvio dell’istruzione, infatti, fu incoraggiato dai funzionari del Protettorato Britannico, interessati a rafforzare la loro influenza attraverso l’applicazione dell’indirect rule e, dunque, mediante il reclutamento di giovani Baganda, pratici tanto con l’inglese quanto con il luganda e in grado di garantire un controllo indiretto del territorio.

Successivamente la richiesta di istruzione aumentò e coinvolse l’intera popolazione30, tanto interessata al messaggio cristiano quanto attirata dalla

prospettiva di benessere promessa dalle missioni: le prospettive offerte dalla conversione e dalla conseguente istruzione31 consistevano infatti nel

raggiungimento di una condizione egualitaria, nell’accesso ai beni importati dai missionari cristiani e dagli amministratori coloniali, nelle opportunità economiche derivate dall’avvio delle attività legate alla coltivazione di prodotti per l’esportazione.