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I. Usi e disusi del patrimonio

2. L’uso della storia e del patrimonio

Come accennato più sopra, in questo capitolo si prenderà in analisi il legame che intercorre fra il patrimonio culturale e l’eredità che esso esprime e il modo in cui quest’ultima viene tramandata col passare del tempo. Un’eredità che, in questo specifico caso, comprende in modo particolare la conoscenza del passato e degli avvenimenti della storia del Buganda, espressi sotto forma di tradizioni orali. La breve disamina delle caratteristiche proprie delle tradizioni orali proposta più sopra

ha permesso di evidenziare il modo in cui l’assenza di supporti fisici e della scrittura, e dunque uno scarso grado di stabilizzazione delle conoscenze provenienti dal passato, consente alle società orali un ampio grado di creatività e alterazione delle informazioni tramandate. Infatti, nel case study che qui si presenta il rapporto fra patrimonio e passato non è da intendere nei termini in cui il primo è direttamente definito e plasmato dal secondo. Le tombe regali del Buganda sarebbero piuttosto da interpretare come creatrici del passato e, dunque, lontane da quell’idea eurocentrica di patrimonio culturale che riconosce in esso un tramite per la conoscenza di un presunto e autentico passato, con le dovute ripercussioni sul piano della conservazione.

Partendo da questa prospettiva, dunque, nelle prossime pagine ci si interrogherà sul ruolo delle tombe nei processi di reinterpretazione del passato e sul motivo per cui questi stessi luoghi possono essere considerati non solo come delle vere e proprie fonti storiche, ma anche come dei siti in cui la storia può essere patrimonializzata o, al contrario, del tutto ignorata. Analizzerò questi due opposti indirizzi e i ruoli svolti dagli attori sociali direttamente coinvolti – i custodi delle tombe e le autorità tradizionali del Buganda –, evidenziandone le possibili ragioni storico-politiche. A partire da queste premesse verrà qui proposta una lettura delle tombe alla luce della funzione che assunsero nel passato precoloniale del Buganda, al fine di chiarirne l’assenza parziale dalle politiche di patrimonializzazione dell’attuale regno.

Mostrerò dunque come tali luoghi possono essere considerati espressioni di heritage, inteso non solo come un luogo o un oggetto ereditato dal passato e rappresentativo di una determinata cultura ma, riprendendo le parole di Laurajane Smith, come una risorsa «that is used to challenge and redefine received values and identities by a range of subaltern groups» (Smith 2006, 4). Inoltre, questo concetto di uso del patrimonio, nello specifico caso delle tombe del Buganda e secondo l’interpretazione di questi luoghi che qui si intende proporre, è da intendersi analogo a quello di uso sociale della storia (Iuso 2013).

L’idea di un uso sociale della storia prende le mosse da Jürgen Habermas, più propriamente dal titolo di un intervento con cui il filosofo tedesco si schierò contro posizioni da lui definite «neoconservatrici» e intrise di un certo «revisionismo, affermatosi nella storiografia contemporanea» (Habermas 1987, 98). L’uso pubblico della storia – pubblicato su Die Zeit come Vom öffentlichen Gebrauch der Historie – si colloca all’interno di quel dibattito (Historikerstreit) che, nella seconda metà degli anni Ottanta, impegnò diversi storici tedeschi a interrogarsi sul modo in cui il passato nazista avrebbe dovuto essere elaborato storicamente nella coscienza pubblica. L’accezione che Habermas conferisce all’idea di un uso pubblico della storia è chiaramente negativa e denuncia un certo grado di pericolosità sociale. Nella sua analisi, infatti, egli definisce in questo modo tutti quei fenomeni in cui la storia non rimane all’interno dei confini specialistici delle discipline accademiche ma viene veicolata, per un pubblico più vasto, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, risultando infine manipolata ideologicamente e dunque privata di ogni carattere di scientificità.

La posizione di Habermas venne successivamente ripresa da Nicola Gallerano che, per così dire, riabilita l’uso pubblico della storia. Egli innanzitutto riconosce come questo fenomeno non sia di recente apparizione e afferma che la sua nascita sia probabilmente contestuale a quella della storia come attività conoscitiva. Si tratta dunque di un fenomeno antecedente la comparsa dei mass-media; inoltre, proponendo l’analisi di alcuni casi studio, mette in luce anche gli effetti virtuosi di questo fenomeno:

L’uso pubblico della storia – afferma lo storico – non è insomma una pratica da rifiutare o demonizzare pregiudizialmente: può essere un terreno di confronto e di conflitto che implica il coinvolgimento attivo dei cittadini, e non solo degli addetti ai lavori, attorno a temi essenziali (Gallerano 1995, 19).

L’uso pubblico della storia può dunque essere il volano di movimenti partecipativi della società civile e dunque uno strumento di conoscenza non necessariamente elitaria e specialistica. La “socialità” della storia è in effetti stata messa in luce da Alban Bensa, il quale chiarisce come tale pratica non sia da collocare esclusivamente all’interno delle mura accademiche: l’autore lo afferma in modo chiaro quando descrive l’interesse mostrato da molti cittadini francesi, nei confronti del passato nazionale, nella seconda metà del XX secolo (Bensa 2001).

La storia rappresenta dunque un’attività che nasce come processo sociale, situato in un contesto e da quest’ultimo determinato, con un fine e degli obiettivi ben definiti dagli attori direttamente coinvolti nella sua “scrittura”. Per questo motivo Anna Iuso mutua il concetto di Habermas definendolo «uso sociale» – anziché pubblico – della storia, al fine di «sottolineare la dimensione performativa e agentiva» (Iuso 2013, 160) di quelle manifestazioni che andrebbero a tutti gli effetti fatte rientrare nell’ambito delle attività storiche ma che si situano al di fuori della ricerca scientifica. Inoltre, con uso sociale della storia, Iuso indica tutta quella serie di dinamiche che, considerando il passato come «incerto e da definire», costituiscono narrazioni efficaci, in grado di «legittimare un presente in trasformazione nei suoi assetti sociali» (Ivi, 160). Questi fenomeni hanno dunque a che fare un uso consapevole del passato da intendere in tutte le sue manifestazioni: memorie collettive locali, diari personali ritrovati, fotografie, oggetti, patrimonio culturale.

Sarà proprio di patrimonio, infatti, che mi occuperò per descrivere ciò che credo costituisca un vero e proprio esempio di uso sociale della storia. Come è stato già accennato, infatti, le tombe del Buganda sono da intendere come espressione di heritage in quanto luoghi che (ri)definiscono valori e identità provenienti dal passato, ma anche luoghi creatori di storia. Ciò che tenterò di descrivere saranno le modalità in cui questa storia viene usata e i fini di tale processo. Ritengo utile, inoltre, anticipare che verranno illustrati non solo gli usi della storia, ma anche i disusi operati presso e tramite le tombe del Buganda. Questi ultimi, che verranno

descritti nei termini di un disinteresse nei confronti del patrimonio e del passato precoloniale, nascondono tuttavia l’uso di un’altra storia, da intendere come una “nuova” tradizione fabbricata mediante processi creativi, così come verrà illustrato nei prossimi capitoli.