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Profili oggettivi del trasferimento L’azienda

1 IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI

3.3 Profili oggettivi del trasferimento L’azienda

Venendo invece al profilo oggettivo57 del patto di famiglia, l’art. 768 bis c.c. definisce il patto di famiglia il contratto con il quale l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di

partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote.

L’unico limite imposto all’autonomia privata, dalla disciplina codicistica, è la compatibilità con le disposizioni in materia di impresa familiare e il rispetto delle differenti tipologie societarie.

Iniziamo pertanto col specificare cosa si intenda per azienda, o meglio in quali termini il legislatore abbia voluto intenderla, nel renderla destinataria di questa disciplina privilegiata.

Coerentemente con quella che è la ratio dell’istituto, ossia garantire la continuità gestionale dell’impresa, si ritiene che il riferimento alla qualità di imprenditore implichi anche l’attualità di detta attività. Non vi sarebbe spazio quindi, per la cessione di azienda in fase organizzativa (e per quella effettuata da soggetto che non esercita attività imprenditoriale.)

57 Oggetto del patto possono essere solo i beni descritti dall’articolo 768 bis c.c.,

la conformità a Costituzione di tale scelta del legislatore è giustificata dall’articolo 3 Cost., il quale consente trattamenti differenziati in presenza di situazioni diverse. L’azienda tutelata inoltre dall’articolo 41 Cost. per la sua funzione economica, è un bene particolare distinto dagli altri beni mobili o immobili, pertanto è giustificato il diverso regime giuridico a cui essa può essere sottoposta.

Dal dettato normativo si evince espressamente la possibilità che il trasferimento abbia ad oggetto solo parte dell’azienda. Trattandosi l’azienda di un complesso di beni dotato di univeritas, ed essendo sempre la ratio dell’istituto garantire la continuità dell’attività produttiva, è lecito desumere che per parte si intenda esclusivamente un ramo d’azienda e non anche singoli beni aziendali58.

Per ramo59 d’azienda, deve pertanto intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale con il trasferimento conservi la sua identità e la sua entità funzionalmente autonoma60. Dovrà trattarsi pertanto, di una parte dell’azienda che possegga un grado di autonomia tale da consentire all’assegnatario di gestirne separatamente ed autonomamente l’attività. Anche per il ramo d’azienda, quindi è necessario il requisito dell’attualità, la dottrina61 ritiene presupposto essenziale la preesistente realtà produttiva del ramo oggetto del trasferimento. È da escludere la possibilità per l’imprenditore di creare ad hoc una struttura produttiva e farne oggetto del trasferimento.

3.4 (Segue): Le partecipazioni sociali.

Probabilmente, il legislatore ha ritenuto necessario disciplinare anche l’ipotesi del trasferimento di partecipazioni sociali per non trattare

58 G. OBERTO, Il patto di famiglia, Cedam, 2006, pag. 95.

59 Cass. civ. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. civ. 28 aprile 2014, n. 9361 nella quale è

stata esclusa la ravvisabilità di un ramo di azienda nel cessione di un servizio di gestione e manutenzione di strutture informatiche privo di una struttura aziendale autonoma.

60 Secondo G. OBERTO “potrà ammettersi anche un trasferimento cha abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how”, op.cit., pag.96.

61 G. OBERTO, op. cit., pag. 95.

in maniera differente coloro che esercitano personalmente l’attività di impresa rispetto a chi si avvale, invece, di una struttura societaria62.

Bisogna, in primis, soffermarsi e comprendere esattamente cosa si intenda per partecipazioni societarie, o meglio se tutte le partecipazioni possono essere oggetto del patto di famiglia.

Ove si aderisse all’orientamento più liberale sostenuto da alcuni63, potrebbe essere oggetto del contratto da ultimo nominato, qualunque partecipazione anche quella espressione di un mero investimento economico-finanziario.

In realtà è stato di contro 64 eccepito come una tale interpretazione estensiva contrasti con la ratio di fondo dell’istituto che mira a tutelare l’attività di impresa in senso stretto; si finirebbe inoltre per offrire un applicazione distorta del patto, qualunque soggetto potrebbe infatti investire nel mercato dei capitali e ricorrere al patto per dare in parte sistemazione alla propria vicenda successoria.

Proprio per tale ragione, per evitare eventuali abusi dell’istituto, parte della dottrina opta invece per un interpretazione restrittiva: si ritiene quindi che, oggetto del patto debbano essere partecipazioni che siano espressione di un potere di gestione o quantomeno attribuiscano il potere di influire sulla medesima.

Talché, pare da escludersi la possibilità per le sole partecipazioni espressione di un mero investimento.

Vale la pena soffermarsi sulle singole tipologie societarie per analizzarne nello specifico le problematiche collegate.

62 U. LA PORTA, Il patto di famiglia, Utet, 2007, pag. 113. 63 G. FIETTA, Patto di famiglia, in CNN Notizie 14 febbraio 2006

64 Così G.PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. Notariato,

2006, pag. 415.

Chiaramente le società di persone presentano meno problemi, poiché, non appartenendo al mercato dei capitali, è da escludere in partenza l’esistenza di partecipazioni di mero investimento, pertanto pare corretto attribuire ad ogni singolo socio lo status di imprenditore.

Quindi per le società semplici e le società in nome collettivo, prendendo come criterio di ammissibilità il potere di gestione, pare doversene ammettere sempre la trasferibilità dal momento che il potere di gestione spetta ad ogni singolo socio, salvo diversa convenzione statutaria65.

Per le società in accomandita semplice, occorre fare una distinzione. L’art. 2318 c.c. prevede espressamente che l’amministrazione della società può essere conferita solo ai soci accomandatari.

Secondo il criterio formale quindi, le partecipazioni appartenenti a quest’ultimi possono essere di sicuro oggetto di trasferimento a discapito però di quelle appartenenti agli accomandanti che non attribuiscono, salvo diversa disposizione statutaria, nessun diritto di gestione al suo titolare.

Come osservato da autorevole dottrina66, questo trattamento differenziato sarebbe iniquo e ingiustificato. Spesso accade che il reale

dominus della società in accomandita sia il socio accomandante, sarebbe

irragionevole escludere la relativa quota ed ammettere invece quella dell’accomandatario.

65 In tali tipi societari i soci sono liberi di affidare la gestione della società solo ad

alcuni di loro, nelle società in nome collettivo persino ad un terzo. In tali casi, in capo ai soci esclusi non si configurerebbe nessun potere di gestione. La dottrina ha ritenuto iniquo escludere tali partecipazioni dall’ambito di operatività del patto, operando gli stessi ragionamenti fatti salvi per le quote del socio accomandante.

66 U. LA PORTA, op. cit., pag. 115.

Dunque, sarebbe preferibile un criterio sostanziale che tenga conto e valuti piuttosto il ruolo del disponente all’interno dell’impresa e la posizione che l’assegnatario è destinato ad assumervi all’interno. Si dovrebbe così consentire il ricorso all’istituto in esame, ogni volta che il soggetto disponente sia un socio imprenditore ossia un socio che partecipa all’attività di impresa, con conseguente estensione agli accomandanti ed esclusione dei soli soci risparmiatori67.

Per quanto riguarda le società di capitali la situazione è più complicata, in dipendenza del fatto che, qui al socio spetta il diritto di partecipare all’attività deliberativa, mentre quella di gestione spetta all’amministratore. In tali tipi di società pertanto il “criterio della gestione”, valido per le società di persone, non pare elevabile a criterio generale.

È stato proposto68, così, di prendere come parametro distintivo la misura della partecipazione del socio e farne conseguire il trasferimento in caso di partecipazione maggioritaria o comunque di partecipazione in grado di influire indirettamente sulla gestione della società.

La società a responsabilità limitata non presenta grossi problemi. In linea di massima, tale tipo societario prevede una partecipazione significativa alle decisioni gestionali da parte dei singoli soci, salvo diversa disposizione statutaria che può affidare l’amministrazione ad un non socio. Inoltre l’autonomia statutaria consente ai soci di ripartire le competenze tra i diversi organi come meglio preferiscono.

Si è cercato in dottrina69 di elaborare un valido criterio che potesse fare da filtro ed aiutare a stabilire di volta in volta quali quote

67 U. LA PORTA, Il patto di famiglia, Utet, 2007, pag.116. 68 Così G.PETRELLI, op. cit., pag. 417.

69 U. LA PORTA, op. cit., pag. 117.

potessero essere valido oggetto del patto. Si è giunti così a distinguere tra partecipazioni di maggioranza e partecipazioni di minoranza, solo le prime in grado di influire in maniera significativa sulla gestione e pertanto le sole ad essere meritevoli di applicazione.

Contro tale orientamento è stato osservato70 che in tali tipi di società, assai frequenti sono i casi in cui, nonostante il numero ristretto di soci, non sussista una partecipazione di maggioranza da parte di alcun socio. In tali casi quindi sarebbe, aderendo al criterio in critica, precluso il ricorso al patto di famiglia ad ogni singolo socio, essendo nessuno di loro titolare di una posizione predominante.

Anche per le società a responsabilità limitata quindi debbono ritenersi trasferibili, attraverso il ricorso al patto di famiglia, tutte quelle partecipazioni che qualificano il disponente come imprenditore e che a seguito del trasferimento qualificheranno anche l’assegnatario come imprenditore, stante il fatto che i diritti particolari del socio si trasferiscono assieme alla quota. Restano pertanto escluse le sole partecipazioni di investimento finanziario.

Per quanto attiene alle società per azioni, qui i problemi derivano innanzitutto dal tenore letterale dell’art. 768 bis c.c. il quale fa riferimento esclusivamente alle quote. Essendo inoltre le azioni strumento di circolazione del capitale e non invece espressione di una partecipazione imprenditoriale parte della dottrina ritiene corretto sostenere l’esclusione di queste ultime dall’ambito di applicazione del patto di famiglia, ma tale tesi non appare condivisibile. La dottrina è unanime nel ritenere che il termine “quote” è stato utilizzato dal legislatore in senso atecnico71.

70 U. LA PORTA, op. cit., pag. 118.

71 Così in: U.FRIEDMANN, Prime osservazioni sul patto di famiglia, in FederNotizie,

2006, 3, pag.62.

Anche per tali società pare doversi concludere che, non si possa optare per la distinzione tra partecipazioni di maggioranza o minoranza, poiché l’applicazione di tale criterio condurrebbe ad incertezze insuperabili.

Si può pertanto concludere che oggetto del patto di famiglia possano essere tutte le partecipazioni, sia di società di persone che di capitali, il cui titolare sia un socio imprenditore, con esclusione quindi delle sole partecipazioni frutto di investimento finanziario 72 . Ovviamente per le società chiuse questo problema non si pone essendo i soci direttamente interessati all’attività di impresa e pertanto da considerare come soci imprenditori.

Per completezza di esposizione, va precisato che la dottrina è pressoché unanime nel ritenere escluse, dall’ambito di applicazione della disciplina detta dal capo V bis, le società di mero godimento, difettando queste ultime del presupposto fondamentale dell’istituto, ossia l’attività di impresa73.

3.5 (Segue): Compatibilità con l’impresa familiare.

Come accennato pocanzi, allorché l’azienda oggetto del patto di famiglia sia organizzata sotto forma di impresa familiare, si dovrà tener conto della disciplina speciale dettata dall’art. 230 bis c.c..

L’inciso contenuto nell’art.768 bis c.c. richiede la tutela dei diritti che la disciplina dettata in materia di impresa familiare riconosce ai partecipanti all’impresa stessa, e che vi prestino in modo continuativo la propria attività di lavoro.

72 U. LA PORTA, op. cit., pag.119. 73 U. LA PORTA, op.cit, pag.119.

Viceversa, come opportunamente osservato74, si potrebbe incorrere nell’utilizzo del patto di famiglia per eludere la disciplina dettata dall’art. 230 bis c.c. per pregiudicare i diritti dei partecipanti all’impresa familiare.

In particolare, essendo il trasferimento d’azienda (realizzato con il contratto in esame) paragonabile ad una sorta di alienazione, l’art. 230

bis comma quarto c.c. prevede che in caso di alienazione il diritto di

partecipazione dei familiari, previsto al primo comma, deve essere liquidato in danaro75. Va precisato che qualora i partecipanti continuino a collaborare all’attività di impresa potrà configurarsi un nuovo rapporto di impresa familiare sempre a patto che siano rispettati i gradi di parentela previsti al terzo comma dell’art. 230 bis c.c.

Qualora invece l’imprenditore trasferisca solo la titolarità ma si riservi l’usufrutto, i familiari continueranno a svolgere la loro attività all’interno dell’impresa familiare, in tali casi verrà applicata integralmente la disciplina dell’art. 230 bis c.c.76

In tutti gli altri casi la dottrina maggioritaria ritiene che spetti al disponente provvedere a tale liquidazione.

È inoltre decisa nel ritenere che qualora i partecipanti all’impresa familiare partecipino anche al patto di famiglia, in qualità di legittimari non assegnatari, il diritto di credito è loro riconosciuto in aggiunta alla liquidazione del valore della quota di legittima77. Non bisogna infatti confondere i diritti patrimoniali ex art. 230 bis c.c. con le liquidazioni previste dall’art.768 quater c.c.

74 F. VOLPE, Il patto di famiglia, in Codice Civile Commentario, Giuffrè, 2012, pag.

65.

75 M. COCUCCIO, op.cit., pag. 46. 76 F. VOLPE, op.cit., 2012 pag. 24. 77 U. LA PORTA, op.cit., pag. 136.

Altro aspetto controverso di cui si è discusso in dottrina è l’eventuale riconoscimento del diritto di prelazione di cui all’art. 230 bis quinto comma c.c., che spetterebbe ai partecipanti dell’impresa familiare in caso di trasferimento d’azienda.

L’orientamento minoritario 78 , che propende per la tesi affermativa, facendo leva sul fatto che il termine trasferimento non specifica se esso debba essere a titolo oneroso o gratuito, pertanto riconosce ai familiari una posizione di vantaggio qualunque sia la natura dell’atto posto in essere dall’imprenditore.

Tale tesi non pare sostenibile, innanzi tutto perché il diritto di prelazione dovrebbe operare solo nel caso di alienazione dell’azienda a soggetti estranei al gruppo familiare. Inoltre, la dottrina79 maggioritaria ha evidenziato come, aderendo alla tesi positiva, si contrasterebbe con lo spirito del patto di famiglia e il suo profilo personalistico.

Infatti, se si riconoscesse ad ogni singolo partecipante dell’impresa familiare il diritto di cui al comma quinto dell’art. 230 bis c.c., proprio il patto di famiglia sarebbe lo strumento più inadatto per programmare il passaggio generazionale dell’impresa, poiché difficilmente potrebbe raggiungere lo scopo perseguito dal disponente, dal momento che ogni partecipante potrebbe far valere il diritto in esame e contrastare quelli che sono i desideri e le volontà dell’imprenditore80.

3.6 (Segue) Il rispetto delle differenti tipologie societarie.

78 Così M.C. ANDRINI, L’impresa familiare, in Tratt. Galgano, XI, Padova, 1989,

pag.273.

79 G. OBERTO, op.cit., pag. 97; G. PETRELLI, op.cit., pag. 414; G.VOLPE, op.cit.,

pag. 69.

80 U. LA PORTA, op.cit., pag. 139.

L’art. 768 bis c.c. richiede come requisito essenziale il rispetto

delle differenti tipologie societarie; e vi è unanimità tra gli interpreti nel

ritenere che il legislatore faccia riferimento sia alla disciplina legale quanto a quella statutaria, in particolare in relazione agli eventuali limiti alla trasferibilità delle partecipazioni.

Ne consegue che sarà necessario preventivamente soffermarsi sulle norme dettate dalla legge e dalle singole disposizioni statutarie per evitare che sia impedita la perfezione e la stabilità degli effetti del contratto. La disciplina pertanto varia in base al tipo di società.

Nelle società di persone è previsto un principio di intrasferibilità della quota senza il consenso degli altri soci, giustificato dall’ intuitus

personae che caratterizza il rapporto sociale.

Pertanto nelle società di persone, in particolare nella società semplice e nella società in nome collettivo è senz’altro necessario che all’atto intervengano anche gli altri soci: dispone, infatti, l’art. 2252 c.c. che, salvo diversa disposizione statutaria, il contratto sociale può essere

modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, pertanto l’esigenza di

assicurare il passaggio generazionale non deve contrastare con la natura personale e fiduciaria della partecipazione societaria.

Le stesse regole valgono per le partecipazioni dei soci accomandatari nelle società in accomandita semplice, per effetto del rinvio operato dall’art. 2318 c.c. alla disciplina prevista per le società in nome collettivo.

Viceversa, per le quote dei soci accomandanti, ai fini della loro trasferibilità, è sufficiente il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale salvo diversa disposizione statutaria la quale potrebbe prevedere una diversa maggioranza o la libera cedibilità della partecipazione.

In tali tipi di società il patto di famiglia costituisce modificazione dei patti sociali della società, sì che appare ovvia conseguenza che debbano parteciparvi anche soggetti estranei al nucleo familiare81.

Passando ora alle società di capitali, ai fini della stipula del contratto è da escludere che come elemento perfezionativo sia necessario il consenso degli altri soci, poiché la legge prevede il principio del libero trasferimento delle partecipazioni.

Tuttavia a seguito della riforma del diritto societario introdotta dal d.lgs 17 gennaio 2003, n. 6, è sempre più frequente l’introduzione, da parte dell’autonomia privata, di clausole statutarie 82 che prevedessero limiti alla circolazione delle partecipazioni sociali.

81 U. LA PORTA, op.cit., pag. 142: In occasione del patto di famiglia possono essere modificati i patti sociali anche con riferimento alle regole di funzionamento della società, in modo da poterle modulare in dipendenza dell’ingresso nella compagine sociale di un nuovo soggetto.

82 A seguito della riforma del 2003, i soci possono stabilire limiti convenzionali alla

libera trasferibilità delle azioni o con patti parasociali o mediante espressa clausola statutaria. I patti parasociali sono accordi la cui efficacia è circoscritta agli aderenti al patto stesso, hanno pertanto efficacia relativa o inter partes. L’eventuale alienazione in violazione di tali patti è valida, colui che abbia alienato è però tenuto al risarcimento del danno nei confronti degli altri sottoscrittori.

I limiti statutari alla circolazione invece hanno efficacia reale o erga omnes, ne consegue che chi acquisti le partecipazioni in violazione di tali clausole non ha diritto all’iscrizione nel libro dei soci.

A seguito dell’introduzione dell’art 2355 bis c.c. è possibile: sottoporre a particolari condizioni il trasferimento; prevedere un divieto assoluto di alienazione per una durata non superiore ai cinque anni; subordinare il trasferimento al gradimento da parte di organi sociali o di determinati soci.

Oggi è possibile che il contratto statutario preveda clausole che importino un divieto

di alienazione, tale tipo di clausola non era prevista nella disciplina ante riforma, nella

quale, solo attraverso il ricorso ai patti parasociali (c.d. sindacati di blocco) era possibile impedire la circolazione delle partecipazioni.

La clausola di prelazione impone al socio “che intenda alienare in tutto o in parte la

propria quota di partecipazione, di comunicare agli altri soci tutti gli elementi dell’offerta pervenuta dal terzo, in modo da offrire la possibilità di valutare la convenienza o meno dell’azione di prelazione. L’ indicazione di tutti gli elementi dell’accordo deve tradursi in una vera e propria proposta contrattuale” (Trib.

Cassino 9 settembre 1997).

Per quanto concerne le clausole di gradimento esse vanno distinte in: c. gradimento

impropria la quale subordina il trasferimento all’esistenza nella persona

dell’acquirente di determinati requisiti; c. mero gradimento per le quali occorre il

Si ritiene83 pertanto necessario identificare, caso per caso, la reale portata precettiva e l’ambito di applicazione che i soci hanno inteso attribuire alla specifica clausola, a seconda dei casi il disponente dovrà o meno offrire le proprie partecipazioni previamente agli altri soci.

Il trasferimento effettuato in violazione delle predette clausole, inserite nell’atto costitutivo soggetto a pubblicità legale pertanto opponibili erga omnes è da ritenersi inefficace nei confronti della società e “non legittima l’acquirente ad ottenere l’iscrizione nel libro

dei soci84”.

Diversi sono gli effetti prodotti da un eventuale clausola di

riscatto 85 . Essa non limita od impedisce la circolazione delle

partecipazioni, ma potrebbe mettere a rischio 86 la stabilità dell’attribuzione effettuata attraverso il patto di famiglia, a causa dell’esercizio del diritto di riscatto da parte del titolare. Sarebbe

placet degli amministratori o di altro organo sociale, la quale risponde all’esigenza

della società di benestare all’ingresso nella compagine sociale del nuovo soggetto. Occorre precisare a tal proposito che, qualora l’organo neghi il gradimento, tale clausola è valida solo se preveda anche un obbligo di acquisto a carico della società o degli altri soci o il diritto di recesso in capo all’alienante.

Autorevole dottrina (W. BOERO, Azienda ed impresa, individuale e collettiva, nella

successione mortis causa: problemi di diritto civile e tributario, in Vita notarile, pag.

170) ha affrontato il problema dell’estensibilità di tali clausole anche ai trasferimenti

mortis causa. L’A. facendo leva sull’identità dell’interesse della società al controllo

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