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Il patto di famiglia e il divieto dei patti successori

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Academic year: 2021

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Indice

1 IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI ... 2

1.1 Cenni storici ... 2

1.2 Le differenti tipologie di patti successori ... 4

1.3 La ratio del divieto ... 5

1.4. Elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali ... 9

2 PANORAMA EUROPEO ED ITER LEGISLATIVO ... 15

2.1. I d.d.l Pastore del 1997 e del 2002 ... 18

2.2. Il p.d.l. Buemi e la conclusione dell’iter legislativo nel 2006 ... 23

3 IL PATTO DI FAMIGLIA ... 27

3.1 Nozione ... 27

3.2 Forma... 29

3.3 Profili oggettivi del trasferimento. L’azienda ... 32

3.4 (Segue): Le partecipazioni sociali. ... 33

3.5 (Segue): Compatibilità con l’impresa familiare. ... 38

3.6 (Segue) Il rispetto delle differenti tipologie societarie... 40

3.7 La tacitazione dei legittimari ... 44

3.8 Pattuizioni accessorie. ... 48

3.9 Conclusioni... 52

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1 IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI

1.1 Cenni storici

L’ordinamento giuridico italiano non consente la chiamata alla successione per mezzo dello strumento contrattuale, infatti l’articolo 457 c.c. prevedendo come uniche forme di delazione ereditaria il testamento e la legge, pare escludere in radice l’ammissibilità di una ulteriore terza causa di successione mortis causa, ossia del patto successorio.

La locuzione “patto successorio” appartiene al linguaggio giuridico moderno, adottata per ricondurre ad un unico concetto fattispecie negoziali eterogenee aventi un aspetto in comune, ossia quello di avere ad oggetto beni di una successione non ancora aperta.

Il divieto di patti successori non è una novità per il nostro ordinamento. Esso giunge a noi come retaggio del diritto romano il quale non prevedeva come causa di delazione il patto successorio. In realtà, il diritto romano classico non prevedeva espressamente nemmeno un divieto dei patti successori. Successivamente quando l’impero si affacciò alle province e dovette confrontarsi con nuove realtà, si iniziò a parlare in quel momento di “patti successori”, vietati, perché contrari ai boni mores ed illeciti in quanto contenenti un votum

captandae mortis.

La denominazione di “patto successorio” era ignota persino al codice civile del 1865 il quale prevedeva però nella pratica il divieto, stabilendo all’art 1118 c.c. che: «Le cose future possono formare

oggetto di contratto. Non si può rinunciare però ad una successione non ancora aperta, né fare alcuna stipulazione attorno alla medesima, sia

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con quello della cui eredità si tratta sia con terzi, quantunque intervenisse il consenso di esso» e 954 disponendo: «Non si può nemmeno nel contratto di matrimonio rinunciare all'eredità di una persona vivente, né alienare i diritti eventuali che si potrebbero avere a tale eredità».

In base all’art. 10641 era nulla la donazione “se comprende beni

futuri”. I legittimari non potevano rinunciare all’azione di riduzione

“durante la vita del donante né con dichiarazione espressa né con

prestare il loro assenso alla donazione” art. 1092, 2° comma2. Infine l’art. 1460 dichiarava “nulla la vendita dei diritti di successione di una persona vivente, ancorché questa vi acconsenta”.

Come risulta dai lavori preparatori del Codice del 1942 con

l’articolo 458 c.c., il legislatore ha dunque inteso sancire la nullità di ogni convenzione attraverso la quale si realizzi l’effetto di disporre della propria successione o dei diritti che possono spettare su una successione non ancora aperta o comunque implicante la rinuncia agli stessi.

Tale norma è posta come corollario al principio fondamentale del nostro ordinamento fissato dall’articolo 457 secondo il quale, come precedentemente esposto, uniche forme di delazione ereditaria sono la legge e il testamento.

Con essa il legislatore ha voluto pertanto escludere, in ossequio alla sistematicità del sistema, l’ammissibilità di una terza causa di delazione, ossia del contratto come titolo di successione, statuendo in tal modo il divieto della c.d. «successione pattizia» o «patto successorio».

1 Disposizione riprodotta testualmente dall’art. 771 c.c., Donazione di beni futuri 2 Disposizione testualmente riprodotta dall’art 557 del c.c. al secondo comma.

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Secondo parte della dottrina3 l’articolo 457 e l’articolo 458 c.c. non sono altro che il rovescio della stessa medaglia, il primo esprime in positivo ciò che esprime il secondo in negativo, ossia che non è fonte di devoluzione successoria il contratto.

1.2 Le differenti tipologie di patti successori

Come accennato precedentemente, la norma comprende fattispecie eterogenee, disciplina unitariamente, vietandoli:

il patto successorio istitutivo, consistente in un accordo con il quale si istituisce un erede o un legato ovvero ci si impegna a farlo in un successivo testamento, cosicché nelle prime ipotesi la convenzione stessa è idonea ad integrare un patto successorio senza la necessità di ulteriori atti dispositivi 4;

il patto successorio dispositivo, il quale ricorre quando taluno dispone di diritti come beneficiario di una successione futura;

il patto successorio rinunciativo, con cui si rinunzia a quanto potrebbe competere in forza di una successione non ancora aperta.

3 C. CACCAVALE, Il divieto dei patti successori, in RESCIGNO (a cura di), Successioni e donazioni, Padova, 1994, pag. 34

4 Si ritiene che il divieto sia riferito non solo all’ipotesi di disposizioni positive ma

anche di disposizioni negative, quali possono essere le volontà di non includere taluno nella propria successione o di limitare la quota di un legittimario al di sotto della legittima. A tal proposito V. TAGLIAFERRI, Il divieto dei patti successori fra

autonomia e ordine pubblico, Notariato, 2003, pag. 436.

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Appare evidente come quello istitutivo “è il solo, fra i patti

successori, che ha come referente soggettivo lo stesso de cuius”5 poiché è la propria successione ad essere oggetto del contratto.

Sicché, come ha evidenziato parte della dottrina solo per i patti istitutivi è corretto parlare di atti mortis causa poiché il soggetto regolamenta la propria vicenda successoria; mentre i patti dispositivi e rinunciativi avendo ad oggetto diritti successori non ancora entrati nel patrimonio del disponente sono qualificabili come atti inter vivos6.

1.3 La ratio del divieto

Per quanto riguarda la ratio, è da escludere che la giustificazione del divieto sia unica per tutte le categorie di patto successorio, pertanto sostenere che la ragione primaria di tale divieto derivi semplicemente dalla tipicità delle fonti di delazione successoria, appare alquanto irrisorio.

La dottrina è unanime nel ritenere che la ratio per i patti istitutivi sia quella di tutelare la libertà testamentaria del de cuius fino all’ultimo momento della sua vita: tale libertà sarebbe compromessa dal ricorso allo strumento contrattuale che come noto può essere sciolto solo per mutuo consenso o nei casi tassativamente previsti dalla legge.

Il nostro ordinamento, considera il testamento come lo strumento più idoneo alla delazione ereditaria proprio perché consente al testatore di modificare o revocare le sue disposizioni in qualsiasi momento e senza la necessità di motivi particolari, e “non si può in

5 M. COCUCCIO, Divieto dei patti successori e patto di famiglia, Giuffrè editore,

2016, pag. 19.

6 B. INZITARI, Il patto di famiglia, negoziabilità del diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006, n.55, Giappichelli, Torino, 2006, pag. 2.

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alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare disposizioni testamentarie”. Il divieto, per i patti istitutivi, è perciò posto dal legislatore a presidio di un principio di ordine pubblico7 ossia della revocabilità delle disposizioni mortis causa8.

Qualora fosse ammessa la revoca unilaterale la disposizione dovrebbe invece considerarsi valida9, non è la forma del contratto l’ostacolo alla delazione ma la irrevocabilità che ne discende, questo perché è “proprio la revocabilità delle disposizioni mortis causa il principio di ordine pubblico che tutela la libertà testamentaria del futuro de cuius”10

Per i patti dispositivi la ratio del divieto è stata ravvisata, più specificamente, nell'esigenza di impedire la conclusione di convenzioni immorali e socialmente pericolose a causa del votum corvinum o

captandae mortis, ossia il desiderio della morte altrui, che da esse ne

discende.

Infine, dato che la rinunzia altro non è che una particolare modalità di disposizione, i patti rinunciativi possono ben essere considerati una sub-specie di quelli dispositivi.

Ma occorre fare una puntualizzazione. Il testo dell’articolo 458 c.c. parla semplicemente di rinunzia11, se ne deduce pertanto che ricade

7 In Italia il divieto dei patti successori è stato considerato principio di ordine pubblico

interno ma non internazionale (Trib. Bolzano 8 marzo 1968)

8A. PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, pag. 5: L’A. definisce “Intima

contraddizione” quella che si annida nell’intento legislativo, espresso nell’art. 458 c.c., consistente nel tutelare la “liberta” del volere del beneficiante, sub specie di libertà di revoca del testamento, attraverso la limitazione della libertà di disporre a causa di morte irrevocabilmente quando è ancora in vita.

9 G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Giuffrè, 2002, pag. 28 il requisito della

revocabilità è qualificato dalla giurisprudenza costantemente condizione necessaria per sottrarre un atto post mortem dall’ambito di applicazione del divieto dei patti successori a partire da Cass., 22 luglio 1971, n. 2404.

10 V. TAGLIAFERRI, op. cit., pag. 432.

11 Il nostro ordinamento distingue la rinunzia pura e semplice con la quale il

chiamato si limita a rifiutare l’eredità, dalla rinunzia verso corrispettivo o a favore

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nel divieto qualsiasi pattuizione con la quale, a titolo oneroso oppure a titolo gratuito, un soggetto rinunzi ai diritti che gli spettano su una successione non ancora aperta.

Nel primo caso, si avrebbe da parte del disponente una rinunzia

traslativa e il risultato ottenuto altro non sarebbe che una cessione

onerosa. Per questi tipi di patto valgono le stesse considerazioni fatte in merito ai patti dispositivi e al relativo votum corvinum che ne discende12.

Nel secondo caso, invece, si avrebbe quella che in diritto viene considerata una rinunzia meramente abdicativa, ed in questo caso inoltre si ricadrebbe in un’ulteriore divieto. L’articolo 771, comma 2 c.c. infatti sancisce il divieto di donazione di cose future, rinunciando alla propria quota altro non si avrebbe che un accrescimento delle rispettive quote degli altri legittimari, un accrescimento pertanto equiparabile ad una donazione.

La ratio, chiaramente, non può essere quindi per quest’ultima categoria configurata nel votum corvinum, data la gratuità della rinunzia. Pertanto, per i patti successori rinunciativi-gratuiti, le ragioni che hanno influenzato il legislatore sono da rinvenire nel rischio che, per inesperienza o prodigalità, taluno dilapidi le sostanze che prevede di ereditare dalla futura successione del de cuius.

di alcuni degli altri chiamati, con cui invece il chiamato dispone dei beni ereditari.

La rinunzia pura e semplice è un atto unilaterale; diversamente, la rinunzia mediante corrispettivo, si risolve in un alienazione onerosa dei diritti ereditari, ha natura di negozio giuridico bilaterale.

12 Cass., 26 agosto 2002, n. 12474 Dalla nullità di tale contratto deriva il diritto delle

parti di ottenere la restituzione delle eventuali somme versate al rinunciante in esecuzione del patto; Cass., 27 novembre 2015, n. 24291 ha deliberato che non può essere considerato patto successorio rinunziativo l'accordo con il quale due fratelli si intendono operare un conguaglio in denaro da pagarsi al tempo dell'apertura della successione della madre, conguaglio volto a compensare la differenza di valore delle attribuzioni liberali effettuate in vita dalla genitrice.

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Indipendentemente dalle tipologie della rinunzia, va precisato che il quadro è completato dall’art. 557 c.c. secondo comma il quale prevede che non si possa rinunziare all’azione di riduzione volta al reintegro della quota legittima finché è in vita il donante, ossia finché non si apre la successione del de cuius13.

Tale previsione è coerente sistematicamente con il divieto posto dall’articolo 458 c.c.., poiché, da parte del legittimario, rinunziare in un momento in cui la successione non è ancora aperta, all’unica azione che per gli permetterebbe di tutelare in futuro le sue pretese ereditarie, equivarrebbe nella sostanza ad una rinunzia di una quota ereditaria pertanto ad un patto rinunciativo. La rinunzia a tale azione è valida solo se fatta dopo l’apertura della successione, cosi come avviene per la rinuncia all’eredità.

L’eterogeneità dei patti e le differenze fin qui esposte, come già detto, non permettono di giungere alla consacrazione di un'unica ratio valida a giustificare questa parità di trattamento, infatti l’unico aspetto che condividono le diverse fattispecie è il fatto di essere contrattazioni aventi ad oggetto “diritti appartenenti ad una successione non ancora aperta”.

Non è errato sostenere, come ha fatto parte della dottrina, che prodigalità ed inesperienza non siano più un rischio diffuso come al momento dell’entrata in vigore del codice civile, e che pertanto tale

ratio sarebbe ormai antiquata.

Pertanto nello sforzo di trovare un’unica valida giustificazione per tutte le fattispecie vietate dall’articolo 458 c.c., si potrebbe sostenere che anche attraverso la stipulazione di patti dispositivi e rinunciativi da parte dei legittimari, seppur in via indiretta, potrebbe venir

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compromessa la libertà testamentaria del soggetto della cui eredità si tratta. Libertà testamentaria in senso lato ovviamente, essendo in questi casi irrilevante l’aspetto della revocabilità non essendo il de cuis parte del contratto. Seguendo questa tesi si potrebbe così giustificare la scelta del legislatore, che vede nell’evento morte un momento di primaria importanza nella vita di un soggetto, ne comprende la delicatezza di tutti gli aspetti ad essa consequenziali, ed intende tutelare la spontaneità delle ultime volontà.

1.4. Elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali

Da quanto detto fin qui, emerge pertanto che la nozione di patto successorio è ben più ampia di quella riferibile alla sola delazione pattizia o convenzionale. Sicché, è stato affermato più volte anche in giurisprudenza che patti successori vietati dalla legge sono non solo quelli aventi per oggetto una vera e propria istituzione di erede, rivestiti della forma contrattuale, bensì ogni convenzione14 che abbia per oggetto la costituzione, modificazione, trasmissione o estinzione di

14 Cass., 19 novembre 2009, n. 24450 la S.C. ha riconosciuto la natura di patto

successorio e non di transazione - come erroneamente ritenuto dal giudice di merito - alla scrittura privata con la quale una sorella aveva consentito al trasferimento in favore dei fratelli della proprietà di immobili appartenenti al padre, a fronte dell'impegno, assunto dai medesimi, di versarle una somma di denaro, da considerare, in relazione allo specifico contesto, come una tacitazione dei suoi diritti di erede legittimario; Cass., 27 aprile 1982, n. 2623 si ha un patto successorio quando le disposizioni testamentarie redatte da più persone, pur essendo contenute in schede formalmente distinte, si integrano a vicenda, dando luogo a un accordo con il quale ciascuno dei testatori provvede alla sua successione in un determinato modo; Cass., 3 marzo 2009, n. 5119 la S.C., ha escluso che potesse ricorrere un'ipotesi di patto successorio con riguardo ad una convenzione "inter vivos" intercorsa tra la "de cuius", quando era in vita, e la nipote, con la quale la prima si era riconosciuta debitrice della seconda di una determinata somma per le prestazioni assistenziali fornitele, prevedendo che l'estinzione del debito sarebbe avvenuta dopo la sua morte.

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diritti relativi a una successione non ancora aperta, e che faccia sorgere un vinculum iuris15 di cui la successiva disposizione testamentaria

costituisca l'adempimento o il presupposto, a seconda che si riferisca alla successione propria o di altra persona16.

Giurisprudenza e dottrina hanno cercato sin dall’entrata in vigore del codice civile di arginare il campo di applicazione del divieto, considerato sempre più anacronistico a causa del cambiamento della società, ed hanno cercato di offrire al soggetto strumenti alternativi al testamento che non ricadano, però, nella comminatoria dell’articolo 458 c.c.

Nella difficoltà di individuare il ricorrere in concreto di un patto successorio, la giurisprudenza ha finito per fornire all'interprete una griglia di elementi sintomatici della violazione del divieto. Infatti per stabilire se una determinata pattuizione costituisca patto successorio ricadente sotto la comminatoria di nullità prevista dall'art. 458 c.c. il giudice di merito deve accertare:

1) se il vincolo giuridico creato con il patto abbia avuto la specifica finalità di ricostituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta;

2) se il bene o i diritti oggetto della convenzione siano dai contraenti ritenuti entità della futura successione o debbano comunque essere compresi nella stessa;

3) se il disponente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla propria successione privandosi così dello ius poenitenti;

15 Cass., 9 maggio 2000, n. 5870 deve essere esclusa la sussistenza di un patto

successorio quando tra le parti non sia intervenuta alcuna convenzione e la persona della cui eredità trattasi abbia solo manifestato verbalmente all'interessato o a terzi l'intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore che è oggetto di tutela legislativa.

16 Cass., 16 aprile 1975, n. 1434.

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4) se l'acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa;

5) se il convenuto trasferimento dal disponente al promissario debba avere luogo mortis causa , ossia a titolo di eredità o legato17.

È possibile ritenere che in tema di divieto dei patti successori, ciò che più importa ai fini della validità, è il congegno operativo, ogniqualvolta sia rintracciabile un meccanismo nel quale non vi sia alcuna incidenza sotto il profilo causale dell’evento morte la convenzione sarà senz’altro valida, così come è valida la disposizione qualora al de cuius sia riconosciuta la facoltà di revoca.

Tale orientamento della giurisprudenza è frutto di elaborazioni dottrinali che hanno cercato di offrire una soluzione di carattere sistematico.

In merito, il punto di partenza è stato offerto da quella parte della dottrina18 che ha teorizzato ed elaborato un criterio distintivo tra negozi post mortem e negozi mortis causa19 incentrato sul profilo

causale-effettuale. La differenza consiste nel ruolo ricoperto dall’evento morte: negli atti mortis causa, tale evento, è causa dell’attribuzione ed inoltre ha incidenza sull'individuazione del soggetto beneficiario, considerato tale in quanto esistente al momento della morte, e sull'oggetto dell'attribuzione, la cui determinazione è ancorata al momento del

17 Cass.,16 febbraio 1995, n. 1683; Cass., 9 maggio 2000, n. 5870.

18 G. GIAMPICCOLO, voce Atto mortis causa, in Enciclopedia del diritto, IV, Giuffrè,

Milano, 1959, pag. 232.

1919 G. GIAMPICCOLO, op.cit., pag. 232 afferma che nella concezione moderna è

atto mortis causa quell’atto che regola situazioni e rapporti che vengono ad esistenza in via originaria a seguito della morte del soggetto e che da tale evento traggono loro autonoma qualificazione. Ne sono esempi: l’istituzione di erede, il legato, il patto di fiducia testamentaria, la designazione di un tutore ex art. 348 c.c.

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decesso quale entità residua nel patrimonio del soggetto disponente; viceversa, negli atti inter vivos post mortem, l’evento morte, determina semplicemente o condiziona l’efficacia del negozio stesso; tali atti pertanto si differenziano da qualsiasi altro semplice negozio inter vivos, proprio per la traslazione nel tempo dell’attribuzione20.

Non si può dire, tuttavia, che la distinzione abbia pienamente persuaso la giurisprudenza, che ha invece in talune occasione adottato soluzioni di segno opposto21.

Partendo da tali considerazioni autorevole dottrina22 è giunta all’elaborazione del concetto di negozio transmorte.

Tale negozio presenta come tratti caratteristici i seguenti elementi: il bene deve uscire dalla sfera del disponente prima della sua morte; il beneficiario diviene titolare solo dopo la morte del disponente, salvo effetti negoziali anticipati; il disponente resta titolare di uno ius

poenitenti che gli consente di modificare o revocare interamente l’atto

dispositivo in questione. Tale dottrina intende offrire una via per il superamento del divieto dei patti successori. Egli parla di strumento negoziale alternativo al testamento e lo fa utilizzando istituti giuridici già contemplati nel nostro ordinamento: il contratto a favore di terzo con prestazione al terzo dopo la morte dello stipulante articolo 1412, 1° co., c.c. e l’assicurazione a favore di terzo articolo 1920, 2° co., c.c. i quali presentano le seguenti caratteristiche: il contratto viene stipulato in vita,

20 “È il caso, ad esempio, del contratto a favore di terzo (artt. 1411 e segg. c.c.), poiché il beneficiario acquista immediatamente il diritto potestativo alla prestazione da parte del promittente, anche se l'adempimento avverrà alla morte dello stipulante e fermo il potere di revoca spettante quest'ultimo” G. RISPOLI, Riflessioni in tema di patti successori, in Giur. It., 2010, 7.

21 M. DI MARZIO, Il testamento e i negozi transmorte dal punto di vista dell’anziano,

in Giur. merito, 2011, pag. 2995.

22 A.PALAZZO, Istituti alternativi al testamento.

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la morte è contemplata come condizione degli eventi traslativi, il disponente conserva il diritto di revoca finché è in vita, salvo rinuncia23.

Per completezza, da ultimo, va specificato che nella comminatoria dell’articolo 458 c.c. ricadono, non solo i patti successori

reali ossia quelli con si istituisce immediatamente un erede o un legato

o con cui si dispone o rinuncia direttamente a beni che si prevede di ereditare, ma anche i c.d. patti successori obbligatori ossia quei patti con cui ci si obbliga ed impegna a disporre in un determinato modo riguardo a beni facenti parte di una successione non ancora aperta.

A tal proposito, bisogna fare una precisazione riguardo a quelli che sono gli effetti di tale atto, nei confronti del successivo atto esecutivo posto in essere da colui che si era obbligato.

Va considerato pienamente valido il successivo atto compiuto senza che il soggetto si senta obbligato dal patto successorio precedente24.

Si pongono problemi di validità nell’ipotesi in cui il successivo atto esecutivo sia posto in essere, semplicemente perché obbligati dal precedente atto. In tali casi bisogna distinguere a seconda del tipo di patto successorio che ha fatto sorgere l’obbligazione.

Secondo la tesi prevalente il testamento in esecuzione di un patto

successorio obbligatorio (isitutivo) va considerato nullo per illiceità del motivo, dove l’illiceità è rappresentata dal proposito di rispettare l’impegno assunto precedentemente. A scongiurare tale nullità è

23 Tale rinuncia preventiva comporta il rischio che la fattispecie eluda il divieto di patti

successori. Si ritiene che la differenza consista nel fatto che con il contratto a favore di terzo quest'ultimo acquista immediatamente il diritto e come acquisto tra vivi, rappresentando la morte dello stipulante solo il momento a partire dal quale la prestazione potrà essere eseguita.

24 G.CAPOZZI, Successioni e donazioni, Giuffrè, 2015, pag. 45.

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sufficiente che nel testamento non si faccia alcun riferimento 25

all’impegno assunto per mezzo del patto successorio.

Diversamente per i patti dispositivi obbligatori i relativi atti esecutivi sono annullabili per errore di diritto in base all’articolo 1429 n.4 operando per questi la disciplina degli atti inter vivos.

Infine, per la rinuncia ell’eredità effettuata da chi si riteneva costretto a seguito di un patto rinunziativo obbligatorio, non vi sono rimedi poiché essa è annullabile solo per violenza o dolo, non anche per errore di diritto26.

25 Mancando il riferimento al motivo, automaticamente non può applicarsi la

nullità per illiceità; inoltre nulla toglie che la volontà manifestata dal de cuius nel patto successorio sia la medesima al momento del testamento a prescindere dal vincolo maturato.

26 G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Giuffrè, 2015, pag. 46.

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2 PANORAMA EUROPEO ED ITER LEGISLATIVO

L’esigenza di tutelare il bene azienda e l’attività imprenditoriale, in quanto bene sociale e non solo individuale, è emersa più volte, soprattutto, nei casi di passaggi generazionali delle piccole e medie imprese a gestione familiare, infatti, spesso, si assiste a una disgregazione del patrimonio. La transizione generazionale rappresenta un momento critico nella vita dell’impresa, dal quale scaturisce il problema del passaggio di testimone dall’imprenditore ad altri soggetti della famiglia in vista del proprio “ritiro”.

L'idea stessa dei Patti di famiglia nasce in Italia, nella seconda metà degli anni novanta del secolo scorso. L’importanza del momento del passaggio generazionale era stata evidenziata da tempo anche dall’Unione europea, dapprima, con la raccomandazione della Commissione dell'Unione europea del 7 dicembre 199427 (94/1069/CE) nella quale si sollecitavano gli Stati membri a rendere più razionali ed efficienti le norme successorie che regolano il trasferimento delle imprese di piccole e medie dimensioni alla morte dell’imprenditore. In particolare, tra gli obiettivi fissati dalla raccomandazione, recitava l‘articolo 1, gli Stati “sono invitati ad adottare le misure più adeguate,

a completamento del quadro giuridico, fiscale e amministrativo, al fine di:

- sensibilizzare l'imprenditore ai problemi della successione e indurlo a preparare tale operazione finché è ancora in vita;

- creare un contesto finanziario favorevole al buon esito della successione;

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- consentire all'imprenditore di preparare efficacemente la sua successione mettendo a sua disposizione gli strumenti adeguati;

- assicurare la continuità delle società di persone e delle imprese individuali in caso di decesso di uno dei soci o dell'imprenditore;

- assicurare il buon esito della successione familiare evitando che le imposte sulla successione ereditaria e sulla donazione mettano in pericolo la sopravvivenza dell'impresa;

- incoraggiare fiscalmente l'imprenditore a trasferire la sua impresa tramite vendita o cessione ai dipendenti, soprattutto quando non vi sono successori nell'ambito della famiglia28”.

Successivamente, a quattro anni di distanza, dalla comunicazione n. 98/C 93/0229 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Comunità

europea n. C93 del 28 Marzo 199830, nella quale si legge che la

trasmissione è la terza fase cruciale nel ciclo di vita di un'impresa, dopo creazione e crescita.

La Commissione sottolineava che, secondo stime risalenti all’epoca, nel corso dei successivi anni, oltre 5 milioni di imprese nell'Unione europea, pari al 30 % circa di tutte le imprese europee, avrebbero fatto fronte al problema della trasmissione. Il 30 % circa di esse, cioè 1,5 milioni, rischiavano di scomparire per insufficiente

28 94/1069/CE: Raccomandazione della Commissione, del 7 dicembre 1994,

http://eur-lex.europa.eu

29 Vedi Appendice, Allegato 2

30 «In cui si rileva che: specialmente nel caso delle imprese familiari, gli accordi (interfamiliari) possono essere utilizzati per tramandare determinati criteri gestionali da una generazione all’altra, così come peraltro già avviene nella maggioranza degli Stati membri. Ne consegue che «gli Stati membri che vietano i patti successori (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo) dovrebbero provvedere a consentirli, dal momento che il predetto divieto complica inutilmente la buona gestione del patrimonio (familiare)»: così la Relazione al disegno di legge 3870 dell’8 aprile 2003, assorbito poi dal disegno di legge 3567e trasfuso nella legge di riforma.

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preparazione alla loro trasmissione, compromettendo 6,3 milioni di posti di lavoro circa31. Questo a dimostrazione del fatto che il problema del trasferimento d’azienda fosse oltre che un problema individuale, anche sociale e di forte impatto economico.

Tale raccomandazione era specificamente dedicata a favorire - attraverso il superamento del divieto dei patti successori o, quantomeno, attraverso la previsione, accanto a tale divieto, di una disciplina specifica e più permissiva nei confronti dell'autonomia privata concernente l'impresa - il passaggio generazionale nell'ambito delle imprese di tipo familiare, soprattutto se di piccola o media dimensione secondo i parametri comunitari.

Il patto di famiglia è stato finalmente introdotto nel nostro ordinamento dal legislatore nazionale attraverso la legge 14 Febbraio 2006, n. 55, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 1° Marzo 2006, n. 50.

Per analizzarne alcuni aspetti caratteristici, occorre utile fare un analisi dei vari progetti, procedendo in ordine cronologico, «diversi

sono stati i gruppi di studio che sono stati approntati al fine di elaborare una proposta di riforma del codice civile in materia di patti successori per il trasferimento dell’azienda di famiglia e delle quote sociali».32

Nel nostro Paese la Raccomandazione CE del 1994 fu recepita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, che promosse una ricerca elaborata da un gruppo di lavoro che operò dal giugno 1996 al giugno 1997. Questo gruppo di ricerca diede vita ad un primo articolato che venne presentato e illustrato in un convegno di studio svoltosi a Macerata, il 24 marzo del 1997, in collaborazione con Consiglio

31 98/C 93/02, Comunicazione della Commissione Europea del 28 marzo 1998,

http://eur-lex.europa.eu.

32 B. INZITARI, Il patto di famigia. Negoziabilità del diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006, n. 55, Giappichelli, 2006, pag.12.

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Nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) e con il Consiglio Nazionale del Notariato in tema di “Successione ereditaria nei beni produttivi”, coordinato dai professori A. Masi e P. Rescigno.

I risultati di questo convegno offrirono lo spunto per la presentazione, nel corso della XIII legislatura, del disegno di legge n. 2799 presentato il 2 ottobre 1997 su iniziativa del Sen. Andrea Pastore recante “Nuove norme in materia di patti successori relativi

all’impresa”. Quest’ultimo non venne approvato, ma fu ripresentato

nell’identico contenuto, nel corso della legislatura successiva, nel disegno di legge n. 1353S presentato il 23 aprile del 2002, che a sua volta ha contribuito all’introduzione dell’istituto in esame. Ai fini dello studio di questo elaborato, ossia lo studio della natura del patto di famiglia e della conseguente sua introduzione nel nostro ordinamento quale effettiva deroga al divieto dei patti successori, è interessante procedere per gradi e analizzare i diversi disegni di legge in ordine cronologico.

2.1. I d.d.l Pastore del 1997 e del 2002

Il d.d.l Pastore del 199733 proponeva, come espressamente si evince dalla Relazione al disegno stesso, l’introduzione di una “deroga” «al generale principio di divieto dei patti successori, consacrato dall’

articolo 458 c.c. prevedendo la liceità di accordi diretti a regolamentare la successione dell’imprenditore o di chi è titolare di partecipazioni sociali34».

33 Vedi appendice allegato n. 3

34 Relazione al d.d.l 2 ottobre 1997, n.2799

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Continuava poi la Relazione, che andavano diffondendosi sempre più, sia nel mondo accademico sia in quello delle professioni, la convinzione della necessità, quanto meno di ridimensionare tale divieto, ammettendo deroghe sempre più ampie; e che «la rigidità del nostro

ordinamento in materia contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, riconosciuto e tutelato in via generale dal codice civile e, ancor più, dalla Costituzione»35, non solo, ma anche con l’esigenza di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, e le partecipazioni sociali. Il mutamento della nostra società richiedeva più dinamismo, tuttavia non si poteva ignorare che il nostro ordinamento a determinate categorie di soggetti (coniuge, discendenti in linea retta e, in assenza di questi, ascendenti) riconosce il diritto di conseguire una quota di eredità, detta appunto legittima. Diritto garantito attraverso la previsione all’artt. 553 e ss. dell’azione di riduzione, dichiarata irrinunciabile, e dell’istituto della collazione all’artt.737. Il disegno di legge si proponeva per l’appunto di conciliare il diritto dei legittimari con l’interesse dell’imprenditore ad una successione non aleatoria della propria azienda o partecipazione sociale.

Passando alla lettura dell’articolato, esso prevedeva, all’articolo 1, l’introduzione dell’art. 734-bis c.c. denominato: “Patto di famiglia” che in questo primo disegno di legge viene definito come un “atto di donazione” attraverso il quale l’imprenditore può assegnare la propria azienda a uno o più discendenti. Curiosa appare invece la disciplina relativa alla partecipazione, dettata dal secondo comma, la quale richiedeva la partecipazione non di tutti i legittimari bensì dei soli

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discendenti o meglio di «quelli che sarebbero legittimari ove in quel

momento si aprisse la successione», la partecipazione del coniuge,

pertanto, non era prevista come necessaria, ma solo come eventuale insieme a quella di «coloro che potrebbero divenirne legittimari».

Su coloro ai quali veniva assegnata l’azienda gravava l’obbligo di liquidare gli altri partecipanti al contratto, salvo rinunzia, una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 53636 e ss. e dal comma quarto si desume che, salvo patto contrario, tale liquidazione è imputata alle quote di legittima. Apprendiamo dalla Relazione37 che

nell’ipotesi del quarto comma, qualora l’imprenditore, proceda all’assegnazione di ulteriori beni agli altri legittimari, il valore di questi viene calcolato ai fini della legittima; tale assegnazione poteva avvenire anche con il ricorso ad un contratto successivo, purché quest’ultimo espressamente collegato al primo.

In base al quinto comma, ciò che era ricevuto dai contraenti non era soggetto a collazione o riduzione al momento dell’apertura della successione.

La disciplina era poi completata dal sesto comma il quale prevedeva che il coniuge e gli altri legittimari sopravvenuti, che non avessero partecipato in maniera preventiva al contratto, potessero chiedere ai beneficiari del contratto il pagamento della somma di cui al terzo comma, aumentata degli interessi legali.

Infine il settimo comma si limitava ad estendere l’applicabilità dell’articolo medesimo anche alle partecipazioni sociali.

Dall’analisi di questo primo progetto, appare evidente come la disciplina così tracciata lasciasse in realtà dubbi interpretativi.

36 Comma 3, art. 734-bis d.d.l 2 ottebre 1997, n.2799 37 Appendice allegato 1

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In primo luogo, il patto di famiglia veniva definito come atto di donazione, quando in realtà di donazione vera e propria non si poteva parlare.

Inoltre, se è vero che, come si evince dalla Relazione, il disegno si proponeva di tutelare determinati soggetti, quali il coniuge e discendenti, non è poi tanto chiaro perché riservasse, a costoro, nella pratica, un trattamento differenziato richiedendo ai fini della validità del contratto la partecipazione necessaria solamente dei secondi e prevedendo per il coniuge la mera possibilità di parteciparvi. A ben vedere a quest’ultima veniva offerta, dunque, la possibilità di scegliere se parteciparvi contestualmente ai discendenti oppure agire in un secondo momento, all’apertura della successione, ed avere diritto anche agli interessi legali.

Gli articoli 2, 3 e 4 intendevano invece, offrire la possibilità ai soci di stabilire pattiziamente che quote sociali o azioni intestate al socio defunto, invece di seguire le regole generali dettate dal codice civile in tema di successione, potessero essere acquistate da altri soci o da terzi o dalla società stessa (nella sola ipotesi di società di capitali). Il diritto degli eredi a subentrare nella società era, in tal caso, sostituito da quello alla liquidazione della quota. Stante la fonte contrattuale del diritto all’acquisto era esclusa la possibilità di ripensamenti da parte del titolare di partecipazioni sociali.

L’articolo 2 intendeva introdurre nel nostro codice civile l’articolo 2284 bis, in materia di società di persone, intitolato «Patto

d’impresa». A seguito dell’introduzione di tale articolo le società in

nome collettivo, e attraverso il rinvio operato dall’articolo 2315 c.c. anche le società in accomandita semplice, nel loro atto costitutivo

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avrebbero potuto prevedere a favore dei soci o di terzi il diritto di acquistare le quote cadute in successione.

L’articolo 3 applicava la disciplina dettata dall’articolo precedente alle società per azioni, attraverso l’introduzione dell’art. 2355-bis rubricato “Patto di impresa”.

Infine l’ultimo articolo, il quarto, estendeva la disciplina dettata dall’articolo 2355 bis anche alle società a responsabilità limitata, fatta eccezione per l’ultimo periodo del quarto comma. L’estensione avveniva attraverso rinvio, veniva infatti aggiunto all’articolo 2479 del c.c. un ulteriore comma.

Il 23 aprile 2002 veniva presentato, sempre dal Senatore

Pastore, un secondo disegno di legge S-135338 che riproduceva in maniera pressoché identica il contenuto del disegno precedente, eccezion fatta per l’art. 2284 bis omesso nel secondo progetto.

L’eliminazione dell’articolo 239, il quale nella Relazione40 era proposto come deroga al vigente articolo 2284, probabilmente era giustificata dal fatto che deroga vera e propria non fosse. Infatti recita l’articolo 2284 c.c. “Salvo contraria disposizione del contratto sociale,

in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”. L’inciso

“salvo contraria disposizione” pertanto, lasciava già di per se largo margine ai soci oltre le tre alternative previste per legge, a tal punto da rendere qualsiasi altra disposizione superflua.

38 Appendice allegato n.2 39 Appendice allegato n.1 40 Appendice allegato n.1

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2.2. Il p.d.l. Buemi e la conclusione dell’iter legislativo nel 2006

Sempre nel corso della XIV Legislatura, l’8 aprile 2003 venne presentato alla Camera una proposta di legge C-387041 dall’onorevole

Buemi recante: “Introduzione dell’articolo 734 bis del codice civile in materia di patti successori d’impresa”. Dalla Relazione 42appare subito evidente come esso sia frutto delle sollecitazioni pervenute al nostro ordinamento da parte della Commissione Europea con la comunicazione n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese.

La proposta di legge, anche in questo caso, intendeva conciliare il diritto dei legittimati a veder loro riconosciuta una determinata quota ereditaria, con l’esigenza dell’imprenditore ad una successione non aleatoria della propria azienda a favore di uno o più discendenti, “prevedendo da una parte la liceità di accordi in tal senso, dall’altra la

predisposizione di strumenti di tutela dei legittimari che siano esclusi dalla proprietà` dell’azienda stessa”43.

L’articolo 1 prevedeva l’inserimento al primo periodo dell’articolo 458 c.c. dell’inciso «Fatto salvo quanto previsto

dall’articolo 734 bis,…», anche qui il patto di famiglia è introdotto nel

nostro ordinamento come deroga al generale divieto di patti successori. Il secondo articolo inseriva nel codice civile l’articolo 734 bis “Patto di famiglia”. Dalla lettura della disciplina tracciata si potevano notare immediatamente dei segni di rottura con i precedenti disegni di legge.

41 Appendice allegato n.3 42 P.d.l. 8 aprile 2003, n.3870

43 Relazione, p.d.l. n. 3870C 8 aprile 2003

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Qui il patto di famiglia assumeva le vesti di vero e proprio “nuovo negozio giuridico44” e non più di atto di donazione.

Altro aspetto importante è che al secondo comma era richiesta la partecipazione questa volta “anche del coniuge e di tutti coloro che

sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione”45. Il coniuge qui a differenza del d.l. Pastore veniva inserito tra i contraenti necessari, al duplice fine di assicurare: la massima stabilità all’acquisto dell’azienda, e la massima tutela agli altri discendenti e al coniuge coinvolgendoli necessariamente nel contratto46.

Il comma quarto non prevedeva più che “Salvo patto

contrario47”, ”I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri

partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti 48”.

Era però sempre prevista la possibilità che le eventuali assegnazioni avvenissero successivamente con un secondo contratto, che fosse però espressamente dichiarato collegato al primo e al quale prendessero parte i medesimi soggetti che al primo avevano partecipato o coloro che, nel frattempo, “li abbiano sostituiti”.

I successivi commi riproducevano esattamente lo schema dei

disegni di legge precedenti: inibizione dei diritti all’azione di riduzione e collazione, tutela dei legittimari che non abbiano partecipato al contratto, e applicazione della medesima disciplina anche alle partecipazioni sociali.

44 Relazione on. Buemi , Lavori preparatori in commissione referente 23

Settembre 2003

45 Art. 734-bis , p.d.l. n. 3870C 8 aprile 2003 46 Relazione alla Camera 23 settembre 2003 47 Art. 2, comma 4, D.d.l 23 aprile 2002 n. 1353S 48 Art.2, comma 4 p.d.l. n. 3870C 8 aprile 2003

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Era una novità invece l’aggiunta di un ottavo comma, con il quale si procedeva a devolvere ad “uno degli organismi di conciliazione

previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 549

la risoluzione di eventuali controversie derivanti dal patto di famiglia. Viene abbandonata l’idea dell’inserimento nel codice civile degli articoli 2284-bis e 2355-bis.

Il p.d.l. Buemi fu assegnato il 12 Maggio 2003 alla II Commissione Giustizia della Camera in sede referente. L’iter legislativo che ha portato all’approvazione della proposta è stato abbastanza rapido. Non furono presentati molti emendamenti.

Il 6 Luglio 2005 però l’on. Buemi presentò una seconda formulazione del suo emendamento 1.4, tale emendamento ha influito non solo apportando modifiche al testo ma anche nella scelta di collocare il nuovo istituto tra le successioni e le donazioni.

Tale emendamento proponeva di inserire la disciplina del patto di famiglia subito dopo l’articolo 768 c.c., anziché all’articolo 734 c.c., introducendo il Capo V-bis comprensivo degli articoli dal 768 bis al 768

nonies c.c., dedicato appositamente alla disciplina del patto di famiglia

nei suoi più variegati aspetti.

La nuova formulazione dell’articolo 768 bis offriva, ed offre tutt’oggi, la nozione di patto di famiglia inteso come: “il contratto con

cui compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce in tutto o in parte l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti”.

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L’iter legislativo della proposta Buemi è stato tutto sommato rapido, il testo definitivo venne approvato nella seduta n. 553 del 31 gennaio 2006 per essere poi promulgato in legge il 14 febbraio dello stesso anno.

La legge n. 55 del 14 febbraio 2006 recante: “Modifiche al

codice civile in materia di patto di famiglia” pubblicata in Gazzetta Ufficiale 1° marzo 2016, accoglie quasi integralmente i rilievi apportati

dalla II Commissione Giustizia della Camera. Viene omesso nel testo definitivo l’articolo 768 ter rubricato “Rappresentanza legale” il quale prevedeva che il contratto poteva essere concluso dal rappresentante legale dell’incapace, e al secondo comma dell’articolo 768 quinquies è stato omesso l’inciso “dalla conoscenza del vizio” per il termine di prescrizione dell’impugnazione.

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3 IL PATTO DI FAMIGLIA

3.1 Nozione

Il patto di famiglia è definito dall’art. 768 bis c.c. come il

contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Si è discusso in dottrina riguardo alla bilateralità o pluralità del patto di famiglia. In effetti, la disciplina dettata dal Capo V-bis del Titolo IV Libro secondo c.c. non è molto chiara a tal proposito.

Non bisogna dimenticare che lo scopo precipuo dell’istituto in esame è quello di assicurare un trasferimento stabile, definitivo e non aleatorio dell’impresa o delle partecipazioni societarie, nel rispetto dei diritti successori di tutti i legittimari.

Volendo esaminare i profili soggettivi del patto di famiglia dalla lettura dell’art. 768 bis c.c. si desume che parti del contratto siano esclusivamente l’imprenditore/titolare delle partecipazioni ed uno o più suoi discendenti. Basta già questo a porre dubbi, infatti qualora l’assegnatario fosse uno solo dei discendenti si dovrebbe sostenere la bilateralità del patto, negli altri casi per la sua pluralità.

Lo scenario fin qui prospettato è complicato a sua volta dall’art. 768 quater c.c. rubricato “Partecipazione” il quale semplicemente si limita a stabilire che al contratto devono, per l’appunto, partecipare

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momento si aprisse la successione, e dall’art. 768 sexies comma 1 c.c.

rubricato “Rapporti con i terzi” il quale disciplina l’ipotesi in cui il coniuge o altri legittimari non abbiano partecipato al contratto.

Va osservato che proprio quest’ultimo articolo non parla nello specifico di “legittimari sopravvenuti”, ma semplicemente di “legittimari che non abbiano partecipato” lasciando intendere che nulla conta il momento in cui si acquista la posizione di legittimario, e che chi è legittimario al momento della stipula del patto ben può non partecipare al contratto, senza tuttavia inficiare la stipula dello stesso.

Tale conclusione pare coerente con quelle che sono alcune delle finalità perseguite dall’istituto, assicurare l’efficienza dell’impresa e soddisfare le volontà ed esigenze del disponente.

Se si opinasse in senso diverso, sarebbe sufficiente che uno dei legittimari decida di non partecipare, perché la conclusione del contratto risulti, senza rimedio, impedita50.

Pertanto si può concludere, che la locuzione “devono partecipare” all’art. 768 quater c.c. indica piuttosto un obbligo a carico delle parti “essenziali” del contratto, se così si vogliono definire disponente ed assegnatario, di chiamare ad intervenire al contratto stesso gli ulteriori legittimari. Questi ultimi pertanto ai fini della validità del patto, devono essere semplicemente messi a conoscenza ed in grado di partecipare al patto51.

In realtà a ben osservare, ci si rende conto che in tutta la disciplina applicabile al patto di famiglia il legislatore non utilizza la parola “parti”, come invece è solito fare, per indicare i soggetti coinvolti nel contratto. Anche negli art. 768 quinquies e 768 septies c.c. relativi

50 C. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, Riv. Notariato n. 3/2006, pag. 299.

51 C. Caccavale, ult. Op. cit. p.300

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ai vizi del consenso ed allo scioglimento il legislatore si esprime rispettivamente nei seguenti termini: “partecipanti” e “persone che hanno concluso il patto di famiglia”.

Di certo la scelta del legislatore non è casuale. Probabilmente muove proprio dal fatto che i soggetti coinvolti nel fenomeno traslativo non sono vere e proprie “parti” del contratto in modo equiparato.

Come affermato precedentemente la partecipazione dei legittimari non assegnatari non è necessaria ai fini della valida stipulazione del patto di famiglia, ma essa incide ai fini della regolazione dei rapporti intercorrenti tra questi e il discendente assegnatario. Partecipando al patto di famiglia, coniuge e legittimari non assegnatari acconsentono alla conversione e successiva liquidazione della quota di legittima loro spettante, salvo rinunzia. Effetto della liquidazione è l’esenzione di quanto ricevuto dai contraenti dall’azione di riduzione e dalla collazione, nonostante il contratto produca effetti anche nei loro confronti tali soggetti non debbono però ritenersi parti essenziali del contratto.

3.2 Forma

L’art. 768 ter c.c. stabilisce che a pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico. Il legislatore prevede la sanzione sotto forma di nullità richiedendo così un formalismo negoziale ad

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Non è casuale la scelta del legislatore, è la stessa legge ad attribuire all’atto pubblico valore di “pubblica fede52”.

La dottrina ha ravvisato varie motivazioni valide a giustificare il ricorso a tale scelta. Essa è, nel minimo, da giustificare con la volontà del legislatore di voler affidare la gestione dell’operazione ad un soggetto qualificato quale il notaio che in base all’articolo 1 della legge 89/1913 è un pubblico ufficiale istituito per ricevere gli atti tra vivi e di

ultima volontà, attribuire loro pubblica fede, conservarne il deposito, rilasciarne le copie i certificati gli estratti.

La forma dell’atto pubblico rispetto alla scrittura privata autenticata, assicura l’indagine della volontà delle parti da parte del notaio ed inoltre assicura che la scelta di tutti i partecipanti di dar vita al patto sia adeguatamente ponderata, in particolare tenendo conto del fatto che i diritti di successione dei legittimari non assegnatari sono coinvolti a livello negoziale.

Inoltre l’indagine del notaio, dovrebbe garantire il contratto da eventuali vizi della volontà, previsti dall’art. 768 quinquies come causa di annullabilità53.

La forma solenne troverebbe, infine, giustificazione nella gratuità delle attribuzioni del disponente, garantendo l’effettività e spontaneità delle stesse.

Si è discusso in dottrina riguardo alla necessaria, o meno, presenza dei testimoni ai fini della validità del patto. Il diverso orientamento nasce in realtà dalla natura giuridica che si attribuisce al patto di famiglia: se si qualifica il patto di famiglia come atto di donazione, automaticamente deve applicarsi anche l’art. 48 della legge

52 B. INZITARI, op. cit., pag. 209. 53 G. VOLPE, op. cit., pag. 114.

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notarile il quale prevede la necessaria presenza di due testimoni per gli

atti di donazione.

Se invece lo si considera un “nuovo negozio giuridico”, il patto di famiglia non dovrebbe richiedere necessariamente, ai fini della sua validità, la presenza di testimoni. A favore di tale tesi è stato evidenziato come la forma dell’atto pubblico, prevista ad substantiam, è già una fattispecie a struttura forte che non necessita di essere rafforzata, inoltre il contratto è tipico, non presenta lacune, pertanto l’articolo 768 ter c.c. non richiede integrazioni54.

A sostegno della tesi negativa è stato inoltre evidenziato55 come in realtà la presenza dei testimoni sia resa superflua dalla contestuale partecipazione al patto di tutti i soggetti interessati e coinvolti nella vicenda.

La presenza dei testimoni è richiesta dalla legge, per gli atti di donazione, a tutela del disponente che impoverisce il proprio patrimonio spinto dal c.d. animus donandi. Nel patto di famiglia viene a mancare tale spirito di liberalità: è la regolamentazione della propria successione nell’azienda a spingere il disponente a compiere una tale “liberalità”, nell’intento di assicurare l’unità e l’efficienza dei beni produttivi.

Basandoci sul testo normativo che al riguardo nulla impone e nulla vieta, quindi, pare corretto concludere che, in base all’art. 4856 della legge notarile, è rimessa alla discrezionalità del notaio o delle parti richiedere la presenza o meno di testimoni.

54 A. DI SAPIO, Osservazioni sul patto di famiglia, Dir. Fam. Pers., 2006, pag.3. 55 B. INZITARI, op.cit., pag.224.

56 Articolo modificato dalla legge 28 novembre 2005, n. 246, in precedenza la

normativa prevedeva “per tutti gli atti fra vivi, eccettuate le donazioni…,la parte o le

parti.., hanno facoltà di rinunciare di comune accordo all’assistenza dei testimoni all’atto”.

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3.3 Profili oggettivi del trasferimento. L’azienda

Venendo invece al profilo oggettivo57 del patto di famiglia, l’art. 768 bis c.c. definisce il patto di famiglia il contratto con il quale l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di

partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote.

L’unico limite imposto all’autonomia privata, dalla disciplina codicistica, è la compatibilità con le disposizioni in materia di impresa familiare e il rispetto delle differenti tipologie societarie.

Iniziamo pertanto col specificare cosa si intenda per azienda, o meglio in quali termini il legislatore abbia voluto intenderla, nel renderla destinataria di questa disciplina privilegiata.

Coerentemente con quella che è la ratio dell’istituto, ossia garantire la continuità gestionale dell’impresa, si ritiene che il riferimento alla qualità di imprenditore implichi anche l’attualità di detta attività. Non vi sarebbe spazio quindi, per la cessione di azienda in fase organizzativa (e per quella effettuata da soggetto che non esercita attività imprenditoriale.)

57 Oggetto del patto possono essere solo i beni descritti dall’articolo 768 bis c.c.,

la conformità a Costituzione di tale scelta del legislatore è giustificata dall’articolo 3 Cost., il quale consente trattamenti differenziati in presenza di situazioni diverse. L’azienda tutelata inoltre dall’articolo 41 Cost. per la sua funzione economica, è un bene particolare distinto dagli altri beni mobili o immobili, pertanto è giustificato il diverso regime giuridico a cui essa può essere sottoposta.

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Dal dettato normativo si evince espressamente la possibilità che il trasferimento abbia ad oggetto solo parte dell’azienda. Trattandosi l’azienda di un complesso di beni dotato di univeritas, ed essendo sempre la ratio dell’istituto garantire la continuità dell’attività produttiva, è lecito desumere che per parte si intenda esclusivamente un ramo d’azienda e non anche singoli beni aziendali58.

Per ramo59 d’azienda, deve pertanto intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale con il trasferimento conservi la sua identità e la sua entità funzionalmente autonoma60. Dovrà trattarsi pertanto, di una parte dell’azienda che possegga un grado di autonomia tale da consentire all’assegnatario di gestirne separatamente ed autonomamente l’attività. Anche per il ramo d’azienda, quindi è necessario il requisito dell’attualità, la dottrina61 ritiene presupposto essenziale la preesistente realtà produttiva del ramo oggetto del trasferimento. È da escludere la possibilità per l’imprenditore di creare ad hoc una struttura produttiva e farne oggetto del trasferimento.

3.4 (Segue): Le partecipazioni sociali.

Probabilmente, il legislatore ha ritenuto necessario disciplinare anche l’ipotesi del trasferimento di partecipazioni sociali per non trattare

58 G. OBERTO, Il patto di famiglia, Cedam, 2006, pag. 95.

59 Cass. civ. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. civ. 28 aprile 2014, n. 9361 nella quale è

stata esclusa la ravvisabilità di un ramo di azienda nel cessione di un servizio di gestione e manutenzione di strutture informatiche privo di una struttura aziendale autonoma.

60 Secondo G. OBERTO “potrà ammettersi anche un trasferimento cha abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how”, op.cit., pag.96.

61 G. OBERTO, op. cit., pag. 95.

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in maniera differente coloro che esercitano personalmente l’attività di impresa rispetto a chi si avvale, invece, di una struttura societaria62.

Bisogna, in primis, soffermarsi e comprendere esattamente cosa si intenda per partecipazioni societarie, o meglio se tutte le partecipazioni possono essere oggetto del patto di famiglia.

Ove si aderisse all’orientamento più liberale sostenuto da alcuni63, potrebbe essere oggetto del contratto da ultimo nominato, qualunque partecipazione anche quella espressione di un mero investimento economico-finanziario.

In realtà è stato di contro 64 eccepito come una tale interpretazione estensiva contrasti con la ratio di fondo dell’istituto che mira a tutelare l’attività di impresa in senso stretto; si finirebbe inoltre per offrire un applicazione distorta del patto, qualunque soggetto potrebbe infatti investire nel mercato dei capitali e ricorrere al patto per dare in parte sistemazione alla propria vicenda successoria.

Proprio per tale ragione, per evitare eventuali abusi dell’istituto, parte della dottrina opta invece per un interpretazione restrittiva: si ritiene quindi che, oggetto del patto debbano essere partecipazioni che siano espressione di un potere di gestione o quantomeno attribuiscano il potere di influire sulla medesima.

Talché, pare da escludersi la possibilità per le sole partecipazioni espressione di un mero investimento.

Vale la pena soffermarsi sulle singole tipologie societarie per analizzarne nello specifico le problematiche collegate.

62 U. LA PORTA, Il patto di famiglia, Utet, 2007, pag. 113. 63 G. FIETTA, Patto di famiglia, in CNN Notizie 14 febbraio 2006

64 Così G.PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. Notariato,

2006, pag. 415.

(35)

Chiaramente le società di persone presentano meno problemi, poiché, non appartenendo al mercato dei capitali, è da escludere in partenza l’esistenza di partecipazioni di mero investimento, pertanto pare corretto attribuire ad ogni singolo socio lo status di imprenditore.

Quindi per le società semplici e le società in nome collettivo, prendendo come criterio di ammissibilità il potere di gestione, pare doversene ammettere sempre la trasferibilità dal momento che il potere di gestione spetta ad ogni singolo socio, salvo diversa convenzione statutaria65.

Per le società in accomandita semplice, occorre fare una distinzione. L’art. 2318 c.c. prevede espressamente che l’amministrazione della società può essere conferita solo ai soci accomandatari.

Secondo il criterio formale quindi, le partecipazioni appartenenti a quest’ultimi possono essere di sicuro oggetto di trasferimento a discapito però di quelle appartenenti agli accomandanti che non attribuiscono, salvo diversa disposizione statutaria, nessun diritto di gestione al suo titolare.

Come osservato da autorevole dottrina66, questo trattamento differenziato sarebbe iniquo e ingiustificato. Spesso accade che il reale

dominus della società in accomandita sia il socio accomandante, sarebbe

irragionevole escludere la relativa quota ed ammettere invece quella dell’accomandatario.

65 In tali tipi societari i soci sono liberi di affidare la gestione della società solo ad

alcuni di loro, nelle società in nome collettivo persino ad un terzo. In tali casi, in capo ai soci esclusi non si configurerebbe nessun potere di gestione. La dottrina ha ritenuto iniquo escludere tali partecipazioni dall’ambito di operatività del patto, operando gli stessi ragionamenti fatti salvi per le quote del socio accomandante.

66 U. LA PORTA, op. cit., pag. 115.

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Dunque, sarebbe preferibile un criterio sostanziale che tenga conto e valuti piuttosto il ruolo del disponente all’interno dell’impresa e la posizione che l’assegnatario è destinato ad assumervi all’interno. Si dovrebbe così consentire il ricorso all’istituto in esame, ogni volta che il soggetto disponente sia un socio imprenditore ossia un socio che partecipa all’attività di impresa, con conseguente estensione agli accomandanti ed esclusione dei soli soci risparmiatori67.

Per quanto riguarda le società di capitali la situazione è più complicata, in dipendenza del fatto che, qui al socio spetta il diritto di partecipare all’attività deliberativa, mentre quella di gestione spetta all’amministratore. In tali tipi di società pertanto il “criterio della gestione”, valido per le società di persone, non pare elevabile a criterio generale.

È stato proposto68, così, di prendere come parametro distintivo la misura della partecipazione del socio e farne conseguire il trasferimento in caso di partecipazione maggioritaria o comunque di partecipazione in grado di influire indirettamente sulla gestione della società.

La società a responsabilità limitata non presenta grossi problemi. In linea di massima, tale tipo societario prevede una partecipazione significativa alle decisioni gestionali da parte dei singoli soci, salvo diversa disposizione statutaria che può affidare l’amministrazione ad un non socio. Inoltre l’autonomia statutaria consente ai soci di ripartire le competenze tra i diversi organi come meglio preferiscono.

Si è cercato in dottrina69 di elaborare un valido criterio che potesse fare da filtro ed aiutare a stabilire di volta in volta quali quote

67 U. LA PORTA, Il patto di famiglia, Utet, 2007, pag.116. 68 Così G.PETRELLI, op. cit., pag. 417.

69 U. LA PORTA, op. cit., pag. 117.

(37)

potessero essere valido oggetto del patto. Si è giunti così a distinguere tra partecipazioni di maggioranza e partecipazioni di minoranza, solo le prime in grado di influire in maniera significativa sulla gestione e pertanto le sole ad essere meritevoli di applicazione.

Contro tale orientamento è stato osservato70 che in tali tipi di società, assai frequenti sono i casi in cui, nonostante il numero ristretto di soci, non sussista una partecipazione di maggioranza da parte di alcun socio. In tali casi quindi sarebbe, aderendo al criterio in critica, precluso il ricorso al patto di famiglia ad ogni singolo socio, essendo nessuno di loro titolare di una posizione predominante.

Anche per le società a responsabilità limitata quindi debbono ritenersi trasferibili, attraverso il ricorso al patto di famiglia, tutte quelle partecipazioni che qualificano il disponente come imprenditore e che a seguito del trasferimento qualificheranno anche l’assegnatario come imprenditore, stante il fatto che i diritti particolari del socio si trasferiscono assieme alla quota. Restano pertanto escluse le sole partecipazioni di investimento finanziario.

Per quanto attiene alle società per azioni, qui i problemi derivano innanzitutto dal tenore letterale dell’art. 768 bis c.c. il quale fa riferimento esclusivamente alle quote. Essendo inoltre le azioni strumento di circolazione del capitale e non invece espressione di una partecipazione imprenditoriale parte della dottrina ritiene corretto sostenere l’esclusione di queste ultime dall’ambito di applicazione del patto di famiglia, ma tale tesi non appare condivisibile. La dottrina è unanime nel ritenere che il termine “quote” è stato utilizzato dal legislatore in senso atecnico71.

70 U. LA PORTA, op. cit., pag. 118.

71 Così in: U.FRIEDMANN, Prime osservazioni sul patto di famiglia, in FederNotizie,

2006, 3, pag.62.

(38)

Anche per tali società pare doversi concludere che, non si possa optare per la distinzione tra partecipazioni di maggioranza o minoranza, poiché l’applicazione di tale criterio condurrebbe ad incertezze insuperabili.

Si può pertanto concludere che oggetto del patto di famiglia possano essere tutte le partecipazioni, sia di società di persone che di capitali, il cui titolare sia un socio imprenditore, con esclusione quindi delle sole partecipazioni frutto di investimento finanziario 72 . Ovviamente per le società chiuse questo problema non si pone essendo i soci direttamente interessati all’attività di impresa e pertanto da considerare come soci imprenditori.

Per completezza di esposizione, va precisato che la dottrina è pressoché unanime nel ritenere escluse, dall’ambito di applicazione della disciplina detta dal capo V bis, le società di mero godimento, difettando queste ultime del presupposto fondamentale dell’istituto, ossia l’attività di impresa73.

3.5 (Segue): Compatibilità con l’impresa familiare.

Come accennato pocanzi, allorché l’azienda oggetto del patto di famiglia sia organizzata sotto forma di impresa familiare, si dovrà tener conto della disciplina speciale dettata dall’art. 230 bis c.c..

L’inciso contenuto nell’art.768 bis c.c. richiede la tutela dei diritti che la disciplina dettata in materia di impresa familiare riconosce ai partecipanti all’impresa stessa, e che vi prestino in modo continuativo la propria attività di lavoro.

72 U. LA PORTA, op. cit., pag.119. 73 U. LA PORTA, op.cit, pag.119.

(39)

Viceversa, come opportunamente osservato74, si potrebbe incorrere nell’utilizzo del patto di famiglia per eludere la disciplina dettata dall’art. 230 bis c.c. per pregiudicare i diritti dei partecipanti all’impresa familiare.

In particolare, essendo il trasferimento d’azienda (realizzato con il contratto in esame) paragonabile ad una sorta di alienazione, l’art. 230

bis comma quarto c.c. prevede che in caso di alienazione il diritto di

partecipazione dei familiari, previsto al primo comma, deve essere liquidato in danaro75. Va precisato che qualora i partecipanti continuino a collaborare all’attività di impresa potrà configurarsi un nuovo rapporto di impresa familiare sempre a patto che siano rispettati i gradi di parentela previsti al terzo comma dell’art. 230 bis c.c.

Qualora invece l’imprenditore trasferisca solo la titolarità ma si riservi l’usufrutto, i familiari continueranno a svolgere la loro attività all’interno dell’impresa familiare, in tali casi verrà applicata integralmente la disciplina dell’art. 230 bis c.c.76

In tutti gli altri casi la dottrina maggioritaria ritiene che spetti al disponente provvedere a tale liquidazione.

È inoltre decisa nel ritenere che qualora i partecipanti all’impresa familiare partecipino anche al patto di famiglia, in qualità di legittimari non assegnatari, il diritto di credito è loro riconosciuto in aggiunta alla liquidazione del valore della quota di legittima77. Non bisogna infatti confondere i diritti patrimoniali ex art. 230 bis c.c. con le liquidazioni previste dall’art.768 quater c.c.

74 F. VOLPE, Il patto di famiglia, in Codice Civile Commentario, Giuffrè, 2012, pag.

65.

75 M. COCUCCIO, op.cit., pag. 46. 76 F. VOLPE, op.cit., 2012 pag. 24. 77 U. LA PORTA, op.cit., pag. 136.

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