1.2 “Progettualità” delle Pratiche
Capitolo 2 Razionalità del Progetto
2.3 Progetto e Democrazia
« C’è qualcosa di altamente vergognoso nella necessità che la nostra società sente di organizzare la partecipa- zione cittadina. Tale partecipazione dovrebbe rappre- sentare la norma in una democrazia illuminata. La formalizzazione della partecipazione del cittadino come pratica richiesta nelle varie località assomiglia, per molti aspetti, alle manifestazioni totalitarie di lealtà allo Stato che si esplicano nelle parate». (Paul Davidoff 1965: 334)
Le consapevolezze maturate in seno alle ricerche sulla dimensione percettiva del territorio hanno, quindi, profondamente intaccato la dimensione dell’agire di planner e designer. Già Appleyard indicava alcune possibili strade per coinvol- gere direttamente gli abitanti all’interno dei processi di costruzione della città. Lo stesso Lynch, ritirato dalla vita accademica nel 1978, aprì uno studio priva- to e cominciò ad occuparsi di pianificazione territoriale prediligendo quei lavo- ri che gli permettevano di lavorare con la gente10. Non a caso sono gli anni in
cui Lynch si avvicina alla figura di Robert Goodman acceso sostenitore dell’ad-
vocacy planning (Davidoff 1965). Le discipline del progetto hanno, cioè, comin-
ciato ad interiorizzare il fatto che la loro azione non fosse politicamente neu- trale e che anche l’atto progettuale, di qualsiasi natura esso fosse, potesse esse- re considerato non più esclusivamente appannaggio dei poteri istituzionali ma come un mezzo attraverso cui i cittadini potessero incidere sulla costruzione dei propri ambienti di vita. Le prime forme di pianificazione a difesa (advocacy
planning) furono quella messe in atto da pianificatori che avevano cominciato a
lavorare contro i programmi istituzionali di urban renewal11. Il lavoro di questi
professionisti si fondava fondamentalmente sulla creazione di piani alternativi a quelli proposti dalle amministrazioni e a difesa delle comunità locali. I pro- cessi di pianificazione che i pianificatori a difesa mettevano in atto vedevano la creazione di organizzazioni di quartiere – formate da residenti, leader di comu- nità e, a volte, da rappresentanti di istituzioni locali contro tali programmi di
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rinnovo urbano (Jacobs 1961, King 1981, Thabit 2003). A partire dagli anni ’60, sulla scorta delle teorizzazioni dell’advocacy planning, sono nate diverse asso- ciazioni di pianificazione espressamente impegnate nel sostenere i diritti delle fasce sociali più svantaggiate: fra queste PEO Planners for Equal Opportunities (1964 - 1978) e PN Planners Network (1974 - oggi)12. In generale, l’eredità della
pianificazione a difesa è viva e attiva ancora oggi comprendendo tutti coloro che hanno inteso il concetto di partecipazione ai processi di planning come il mezzo attraverso il quale produrre degli effetti all’interno delle logiche istitu- zionali di tipo Top – Down utilizzando, di contro, logiche di tipo Bottom-Up che tendono a incidere nei processi decisionali sulla base delle scelte “dal basso” (Angotti 1993, 2008).
Se da un lato la partecipazione è stata utilizzata all’interno dei processi di pia- nificazione, dall’altro lato per lo stesso principio è entrata, più specificatamen- te, nella declinazione del progetto urbano. La nascita del community design negli Stati Uniti ha, di fatto, riunito sotto un unico ombrello tutti quei progettisti che hanno inteso il progetto urbano come espressione di forme di democrazia dal basso che potessero intaccare positivamente la qualità della vita dei quartieri più svantaggiati. In questo vasto panorama, rilevanti sono stati i contributi di Samuel Mockbee (Mockbee et alii 2003) e del suo Rural Studio, le sperimenta- zioni di Ron Shiffman (1999) al Pratt Institute e le esperienze importanti del lavoro accademico impegnato sul territorio di Randolph Hester (1984, 1987). Il Rural Studio è un effettivo laboratorio di service learning della Auburn University che tende a insegnare prima di tutto le responsabilità sociali della professione, impegnandoli, attraverso esperienze concrete, nella aree maggior- mente depresse dell’Alabama. Anche al Pratt Insitute all’interno del program- ma di “Pianificazione e Svilupo Sostenibile” le esperienze di community design si pongono come obiettivo quello di fornire assistenza tecnica a tutte quelle fasce sociali escluse dai processi decisionali e tendono ad attivare percorsi col- lettivi capaci di demistificare le tecniche progettuali, normalmente appannag- gio dei soli progettisti (Shiffman 1999). Shiffmann considera il Pratt come erede diretto dei movimenti di advocacy plannig degli anni ’60, in quanto struttu- ra universitaria capace di creare occasioni di partecipazione che siano in grado di ascoltare davvero i bisogni della gente povera. Le ultime esperienze di Shiffman hanno messo in luce alcune questioni problematiche che oggi il com-
munity design pone e cioè la sua incapacità di strutturare azioni sul territorio che
ingaggino in maniera proattiva le comunità locali piuttosto che assumere quasi sempre una funzione di tipo assistenziale delle comunità a cui si rivolge (Progressive Community Design, Progressive Planning, N. 166, Winter 2006). I limiti di questo approccio erano già stati riconosciuti sin dalle sue origini per il fatto che la semplice traduzione in termini tecnici-istituzionali delle richieste dei gruppi sociali svantaggiati non poteva profondamente contri- buire ad un cambiamento del sistema istituzionale, quanto a raggiungere alcune – significative ma pur sempre limitate – conquiste in merito alle deci- sioni pubbliche (Goodman 1971). Da questa prospettiva, Randolph Hester parla di un punto morto (gridlock) dell’advocacy e della “partecipazione” inte- sa come fine in sé e per sé dei processi di progettazione (Hester 1999). Le critiche di Hester, nonostante sia stato uno dei primi pionieri nel sostenere il community design statunitense (Hester 1984 1987), consistono proprio nel- l’aver rilevato come il concetto stesso di “partecipazione” sia istituzionaliz- zato (istitutionalized) e troppo spesso informato da prospettive ristrette del- l’azione (parochialized), diventando così un “ritornello chiuso su se stesso” (Hester 1989). Hester dunque condivide che il mantenimento del sistema della delega sia alla fine controproducente nei processi di partecipazione, essendo incapaci poi di far sostenere da sole quelle comunità in cui i designer partecipativi si trovano ad operare. A questa visione vetusta del community
design, riconoscendo il fondamentale contributo delle sue teniche (Gibson
1979), apre nuove prospettive verso un modello di community design diverso (un ritornello con vista). Occorre definire nuove forme di razionalità capa- ci di creare “comunità sostenibili”, che siano cioè consapevoli delle implica- zioni ecologiche delle loro scelte in merito alle trasformazioni dell’ambien- te urbano (Hester 1989). Questo rinnovato spirito del community design lo porta a formulare nuove teorie utili alla creazione dell’ambiente urbano:
«Questa metamorfosi dei paesaggi abitati deve essere guidata da tre fondamentali e intrecciate caratteristiche che integrino demo- crazia e ecologia – forme attivanti, forme resilienti, forme incitan- ti. Queste caratteristiche sono i mattoni delle città dove una demo- crazia ecologica può svilupparsi. […] le forme attivanti ci aiutano
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a conoscere i nostri sconosciuti vicini e facilitano a lavorare con loro e altri nel risolvere problemi difficili. […] Abbiamo bisogno di riformare le nostre città per essere resilienti ecologicamente. […] Abbiamo bisogno di riformare le nostre città a incitarci con gioia piuttosto che affliggerci con insicurezza, paura e forza» (Hester 2006: 8-9).
In definitiva il community design nato negli Stati Uniti ha come fine ultimo della sua azione la creazione di un progetto di qualunque natura che possa soddisfare i bisogni delle fasce sociali più svantaggiate. La sua declamazio- ne poi ha tradizionalmente assunto i caratteri discendenti dalla tradizione dell’advocacy e cioè una espressa volontà tecnica di assumere le veci di chi è stato privato di potere dal malfunzionamento dei meccanismi di delega democratica. Come dimostrano recenti critiche, però, questa tradizione ha anche direzionato i propri approcci per tentare di superare il modello esclu- sivamente a difesa ed essere in grado di sviluppare in seno alla comunità capacità di sviluppo attraverso l’atto progettuale.
Da questa prospettiva, alcune esperienze italiane di pianificazione hanno inte- so l’uso della partecipazione come mezzo attraverso cui coinvolgere le comu- nità per generare capacità pro-attive di sviluppo del territorio. Queste sono state avviate all’interno delle sperimentazioni avvenute durante gli anni ’90 all’interno degli strumenti di programmazione urbana (PII, PRU, PRIU, PRUSST CdQ)13. Se da un lato l’analisi dell’ecosistema città, promossa dalla
scuola di ecologia urbana, aveva tentato attraverso il progetto di intaccare posi- tivamente il funzionamento dei cicli ecologici, dall’altro occorreva come neces- saria implicazione quella di coinvolgere gli abitanti nei processi di pianificazio- ne al fine di modificare le abitudini di chi vive la città nella gestione delle risor- se.
Sperimentazioni significative sono quelle portate avanti dalla scuola territoria- lista di Alberto Magnaghi e del LaPEI (Laboratorio di Progettazione Ecologica degli Insediamenti)14. In virtù della razionalità con cui il “terzo attore” entra
nell’attività progettuale, e cioè in quanto coinvolto in un processo di sviluppo di cui egli stesso, in prima persona, è non solo partecipe ma soprattutto prota- gonista, Magnaghi si preoccupa di mettere come obiettivo delle sue ricerche sul
tema “partecipazione”, la capacità di creare sviluppo locale auto sostenibile.
«Nel concetto di “auto sostenibilità” è implicito il concetto che qualsiasi ragionamento sulla sostenibilità dello sviluppo, richiede che ogni territorio produca al suo interno le capacità di autoripro- dursi, senza prelevare energie da altri territori. Ciò comporta l’at- tivazione piena delle energie interne (ambientali, territoriali, socio- culturali, produttive) in grado di produrre ricchezza durevole e creare scambi solidali e non gerarchici, senza dominare e rapinare risorse altrui. La partecipazione è lo strumento essenziale alla mobilitazione di queste energie» (Magnaghi in Allegretti, Frascaroli 2006: 12).
Nel caso della scuola territorialista la partecipazione diventa quindi uno stru- mento per tentare di raggiungere un doppio obiettivo: attivare forme di auto sostenibilità attraverso il progetto (Magnaghi 2000) e far si che queste forme progettuali possano imporsi nella sfera delle politiche pubbliche al fine di intaccare i sistema di delega15. Continua infatti Magnaghi:
«è questo il contributo che specifica l’orientamento dell’approccio della scuola territorialista al tema della partecipazione, non consi- derandone l’utilità unicamente in rapporto ai processi di rivitaliz- zazione della democrazia (‘démocratiser radicalement la démocratie’), ma soprattutto verificando i processi partecipativi rispetto alla loro capacità di produrre progettualità sociale e cambiamento verso modelli di produzione e consumo indirizzati allo sviluppo locale autosostenibile» (Magnaghi in Allegretti, Frascaroli 2006: 13).
Nella pratica, la costruzione di progetti autostenibili, si fonda sul sostegno e miglioramento di tutte quelle forme progettuali, già esistenti, che hanno indi- rizzato la loro azione in questo senso16. Da questa prospettiva la partecipazio-
ne si valuta in funzione di indicatori che possano esprimere un giudizio sui risultati formativi – in termini degli obiettivi dell’autosostenibilità – raggiunti dalla pratica di partecipazione, sulla sedimentazione sul territorio del “proget-
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to implicito” insito nelle pratica collettiva e sulla capacità di incidere sulle pra- tiche amministrative ordinarie. Seppur l’autosostenibilità del “progetto locale” (Magnaghi 2000) è stata guardata con benevolenza da chi ha messo come con- dizione necessaria per lo sviluppo nell’età contemporanea ipotesi di “decresci- ta” (Latouche 2007), da una prospettiva dell’azione, tali ipotesi sono state for- temente criticate da chi vi ha visto grossi limiti legati alla riproposizione di “modalità di rapporto con i luoghi incapaci di tenere conto delle mutate con- dizioni che la modernità ha imposto” (Decandia 2000: 33). Le condizioni pro- blematiche che ogni contesto presenta, infatti, richiedono spesso ipotesi pro- gettuali, anche piccole e meno pretenziose, ma più vicine alle capacità posse- dute dai soggetti che le devono portare avanti. La tendenza a orientarsi verso modelli di sviluppo precostituiti rischia di sostituire vecchie utopie con nuove utopie e può spesso determinare una inefficacia degli strumenti della parteci- pazione nel raggiungere nella pratica quei nobili obiettivi che le teorizzazioni si pongono.
In definitiva, a partire dalle innovazioni disciplinari apportate dagli studi percettivi si è andato sempre più delineando un approccio ai temi del plan-
ning e del design che ha preso in considerazione l’introduzione della parteci-
pazione degli abitanti ai processi. Tuttavia il tema della partecipazione all’in- terno delle discipline del progetto è stato declinato in maniera molto diver- sa nei vari casi. Nel mondo anglosassone planning e design hanno seguito stra- de profondamente diverse: i pianificatori a difesa e i modelli ad essi ispirati che ne sono seguiti hanno utilizzato la partecipazione come il mezzo attra- verso il quale intaccare le strutture di potere; nel design, invece, la partecipa- zione è stata utilizzate per raggiungere un esito fisico, un progetto cioè che riflettesse i bisogni delle comunità marginalizzate. All’interno della famiglia dei progettisti partecipativi, nel mondo anglosassone così come in quello europeo, c’è poi chi ha visto nel progetto alcune potenzialità di emancipa- zione per i partecipanti ai processi di community design. In questi casi il pro- getto non ha tentato solo di incidere sulle sue ricadute fisiche ma intaccare anche la sfera delle consapevolezze degli abitanti.