Le strategie ricostruttive dell’articolazione del gomito rappresentano un campo in continua evoluzione. Al suo interno, una parte importante è quella legata all’utilizzo delle protesi, ovvero degli strumenti in grado di riprodurre artificialmente le strutture articolari in modo da risolvere la patologia in essere e ripristinare una buona funzionalità.
I modelli protesici disponibili per effettuare la sostituzione del gomito sono suddivisi in “linked” e “unlinked”, sulla base della presenza o meno di un meccanismo vincolante (detto anche cerniera) fra la componente omerale e quella ulnare. Questa caratteristica è completamente diversa dal grado di “constraint” della protesi, che esprime invece una caratteristica biomeccanica dell’impianto; viene definito come la capacità dei capi articolari di resistere alla dislocazione ed è strettamente dipendente dalla geometria delle componenti protesiche e della loro interazione con gli stabilizzatori statici e dinamici del gomito. Il grado di constraint (minimally constrained, semi-constrained e constrained) è variabile tra i diversi impianti protesici e non è deducibile né dal tipo di giunto (unlinked o linked) nè dal loro grado di conformità, ossia, dalla somiglianza morfologica della protesi con l’anatomia normale dell’articolazione. Al contrario il grado di constraint può essere stabilito solo da complessi studi biomeccanici; è stato dimostrato, infatti, che alcuni tipi di impianti non vincolati hanno un grado di constraint maggiore di quelli vincolati [24].
Le protesi totali di gomito di tipo linked attualmente disponibili sono tutte semi- constrained, ossia possiedono un vincolo relativamente lasso (sloppy-hinge) che consente minimi movimenti rotazionali (5-7°) ed in varo-valgo (circa 5-10°) tra la componente ulnare e quella omerale.
Negli ultimi anni è stato introdotto un giunto lasso che ha drasticamente modificato la sopravvivenza delle protesi totali di gomito, poiché ha consentito di ridurre l’entità dello stress all’interfaccia protesi-osso-cemento. Ciò ha permesso di diminuire il tasso di mobilizzazioni asettiche e delle fratture peri-protesiche che si osservava con le protesi a vincolo fisso (fixed-hinge). Un’altra recente variazione del design protesico che ha contribuito al prolungamento della sopravvivenza di questi impianti è stata l’introduzione della flangia anteriore, la quale ha permesso di contrastare al meglio le forze dirette posteriormente e gli stress torsionali riducendo il rischio di mobilizzazioni asettiche.
Le indicazioni principali all’intervento di protesi di gomito sono:
- Artropatie infiammatorie croniche in stato avanzato (artrite reumatoide, artrite psoriasica in stadi III e IV secondo la classificazione della Mayo Clinic);
- Artropatie degenerative post-traumatiche, specie in pazienti di età superiore ai 60 anni e con basse richieste funzionali;
- Fratture comminute dell’estremo distale dell’omero non sintetizzabili, in pazienti anziani o con pregressa artropatia, o con ridotta qualità dell’osso e bassa aspettativa di vita;
- Pseudoartrosi intra-articolare in pazienti anziani; - Artropatia emofilica;
- Esiti invalidanti con perdita massiva di osso post-trauma o resezioni tumorali.
In queste situazioni il quadro clinico è dominato dal dolore, dalla rigidità e/o dalla instabilità articolare, a volte anche estremamente invalidante. L’impianto protesico permette di risolvere rapidamente tali problematiche, soprattutto nei pazienti artritici, i quali hanno non solo questo miglioramento eclatante della sintomatologia, ma hanno anche una sopravvivenza attesa della protesi superiore, poiché la natura sistemica e poliarticolare della malattia lo obbliga a delle minori richieste funzionali.
Sulla base della presenza di una buona riserva ossea, e di una struttura capsulo- ligamentosa sufficientemente integra, possiamo pensare di utilizzare indifferentemente una protesi vincolata o una non vincolata; se queste condizioni non sussistono è indicato l’uso esclusivo delle protesi linked. L’indicazione principale la troviamo nei pazienti con artrosi post-traumatica, dove la lesione è molto complessa e il quadro clinico è caratterizzato da dolore e instabilità più o meno gravi. L’osso è estremamente deteriorato, pertanto va rimossa la regione lesionata prima di inserire la protesi.
Tra le controindicazioni, assolute e relative troviamo invece;
- Infezioni attive o recenti; - Fratture esposte;
- Anchilosi non dolorosa in pazienti con basse richieste funzionali; - Paralisi dei muscoli del braccio (in particolare dei flessori); - Gravi deficit funzionali della mano;
- Attività lavorative manuali che prevedono il sollevamento ed il trasporto di pesi; - Pregressa artrodesi;
- Scarsa affidabilità del paziente, che se non predisposto ad accettare la limitaione funzionale che l’intervento richiede, porterebbe ad un fallimento terapeutico certo.
Quest’ultimo punto non è una banalità. Una volta impiantata la protesi è fondamentale che il paziente segua un attento programma di fisioterapia e che sia pienamente cosciente e consapevole dei limiti funzionali che ha la sua articolazione una volta ricostruita. Maggiore sarà la sua compliance, minori saranno le possibilità di usura, fallimento meccanico e mobilizzazione asettica.
LE MEGAPROTESI
Le megaprotesi sono degli impianti particolari che differiscono dalle più semplici protesi di primo impianto. Ne esistono di due tipi: le cosiddette “custom made”, ovvero quelle realizzate su misura delle strutture ossee e articolari del paziente, e quelle dette modulari.
Per quanto riguarda le prime, si capisce come queste abbiano un ottimo fit, ma il problema principale risiede nel fatto che sul tavolo operatorio, se qualcosa andasse rivisto, non sono più utilizzabili, presentando quindi scarsa flessibilità di utilizzo. Le protesi modulari invece sono molto più semplici da usare e concedono molta più flessibilità intra-operatoria.
Sia le custom made che le modulari sono estremamente resistenti, tanto che in letteratura si registrano pochissimi casi di frattura. Da un punto di vista meccanico esse possiedono un giunto a cerniera con un asse cilindrico trasverso e dei ganci circolari di fissazione che conferiscono stabilità all’intera articolazione. Negli ultimi anni è stata
anche aggiunta anteriormente una placca in grado di aumentare la resistenza alle forze rotazionali e quindi di limitare quella che è una delle principali complicanze che si verificano anche negli impianti di protesi convenzionali, ovvero l’allentamento dello stelo. La placca viene associata a una vite uni o bi-corticale che attraversa lo stelo riducendo i micromovimenti a cui vengono sottoposte le protesi, soprattutto se non cementate; nel caso di vite bi-corticale però il foro deve distare almeno 5 cm dal collo dello stelo per impedire la frattura dell’impianto.
In genere gli elementi protesici intercalari (di diverse lunghezze) sono collegati mediante un meccanismo a cono con fissaggio con vite trasversale (assiale o periferica) o con una configurazione tipo “step cut” con due viti di compressione trasversali. Bisogna prestare molta attenzione a questo aspetto in quanto, negli arti superiori, la protesi viene sottoposta a forze di trazione più che di compressione come avviene negli arti inferiori, e che giustifica l’alto rischio di disassemblaggio protesico. Lo stelo ha una sezione cilindrica o esagonale con una superficie porosa con configurazione a stella per la fissazione biologica, o con una superficie liscia con scanalature per la versione da cementare. Il disegno esagonale o a stella dello stelo hanno una buona resistenza alle forze di torsione, ma hanno scarsa resistenza a quelle di trazione che viene fornita solo per attrito tra le superfici.
Il nucleo dei pezzi intercalari è spesso scavato da numerosi buchi sulla superficie, non solo per ridurre il peso ma anche per permettere l’ancoraggio dei tessuti molli usando dei legamenti artificiali [25]. Spesso viene anche inserita una vite assiale per unire la componente intercalare con quella articolare.
Una delle maggiori preoccupazioni resta la funzione muscolare, soprattutto se viene resecato tutto il gruppo flessorio; la residua componente muscolare epicondiloidea e epitrocleare è difficilmente suturabile alla superficie protesica e non può sostituire a
dovere il bicipite brachiale e il brachioradiale. Un tentativo di migliorare questo aspetto è stato fatto con l’utilizzo di una membrana di rivestimento della superficie protesica, detto “trevira tube”, che ha come complicanza associata un incremento delle infezioni post-operatorie [25].
Le megaprotesi rappresentano ad oggi un’ottima possibilità di ricostruzione nelle gravi perdite ossee dell’estremità distale dell’omero, causate da precedenti interventi di resezione tumorale o dal fallimento di altre strategie ricostruttive [26]. Esse vengono anche utilizzate nel trattamento di patologie come la pseudoartrosi, gli esiti di osteomielite, e negli esiti di fratture. Fintanto che la lesione comporta la resezione delle zone 1-2-3 di Enneking [27] può essere usata anche una protesi convenzionale, ma se la lesione è più estesa e la resezione ossea è massiva è più indicato l’utilizzo di un megaimpianto, modulare o custom made.
Le megaprotesi, così come le protesi convenzionali, permettono di risolvere definitivamente il problema del dolore in questi pazienti, e garantiscono anche una buona mobilità. I risultati funzionali raggiunti mostrano una flessione di 105° e un ritardo estensorio di circa 10-35°. La sopravvivenza a due anni di questi impianti si attesta fra il 62-75%. Dopo gli allentamenti asettici (20%), le infezioni (15%) rappresentano le principali ragioni del fallimento ricostruttivo [25].