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Ricostruzione delle gravi perdite osteoarticolari di gomito

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E

DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E

CHIRUGIA

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

RICOSTRUZIONE DELLE GRAVI PERDITE

OSTEOARTICOLARI DI GOMITO

RELATORE

Chiar.mo Prof. Rodolfo Capanna

CANDIDATO

Giacomo Peri

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1. Introduzione

2. Anatomia del gomito

- L’articolazione

 Le strutture ossee coinvolte  Anatomia articolare

 I mezzi di unione

 Anatomia di vasi e nervi

- La biomeccanica  Stabilizzatori passivi  Stabilizzatori attivi 3. Patologie dell’articolazione - Patologia tumorale  Sarcoma di Ewing  Osteosarcoma  Condrosarcoma

 Tumore a cellule giganti  Osteoma osteoide  Fibrosarcoma  Cisti aneurismatiche  Lesioni oncoematologiche

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 Lesioni benigne simil-tumorali  Metastasi

- Malattie infiammatorie

 Artrite reumatoide  Artrite psoriasica

- Condizioni traumatiche, post-traumatiche e degenerative - Esiti di infezione

4. Le strategie ricostruttive del gomito

- Classificazione

- Indagini pre-operatorie - Insidie

- Gli interventi chirurgici  L’artrodesi

 Le protesi di primo impianto  Le megaprotesi

 Le protesi composite  Gli innesti osteoarticolari  Ricostruzioni particolari

 Ricostruzione nei bambini

 Estremità prossimale di ulna e radio

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5. La nostra esperienza - Materiali e metodi  Tecnica chirurgica  Follow-up - Risultati  Oncologici  Funzionali 6. Discussione 7. Conclusioni 8. Bibliografia

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1. INTRODUZIONE

Gli interventi di ricostruzione totale di gomito stanno diventando sempre più frequenti, con un aumento del 248% per quello che riguarda l’artroplastica primaria, e del 500% per quei casi di revisione di interventi precedenti (dati raccolti fra il 1993 e il 2007) [1]. Tutto questo è dovuto al concomitante miglioramento delle tecniche chirurgiche e dalle sempre più numerose indicazioni a questo tipo di operazione. A nostra disposizione oggi abbiamo diverse strategie ricostruttive, che vanno dall’artrodesi all’innesto osteoarticolare, compresa la sostituzione articolare utilizzando vari tipi di protesi (convenzionali, modulari, custom made e protesi composite). Nonostante questo, ogni situazione in cui si realizza una grave perdita osteoarticolare rappresenta una grande sfida per il chirurgo, che deve scegliere la strategia migliore sulla base del difetto osseo, dell’outcome funzionale, delle abitudini di vita e delle preferenze del paziente. Oltre a questo, tutte queste strategie ricostruttive non sono prive di complicanze, che devono essere limitate scegliendo la miglior opzione chirurgica contando anche sull’aiuto del paziente.

In questo studio vogliamo analizzare i risultati ottenuti con queste tecniche ricostruttive, prestando particolare attenzione alle megaprotesi; inoltre, metteremo in relazione questi dati con quelli presenti in letteratura, confrontandoli infine con i risultati ottenuti nelle ricostruzioni articolari con protesi composite o innesti osteoarticolari.

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2. L’ARTICOLAZIONE DEL GOMITO

Le strutture ossee

Il gomito è un’articolazione complessa in cui sono coinvolte l’epifisi distale dell’omero, la testa del radio e l’estremità prossimale dell’ulna.

L’epifisi distale dell’omero è allargata e appiattita in senso ventro-dorsale; lateralmente e medialmente presenta due rilievi, gli epicondili laterale e mediale, tra cui si trova una superficie rivestita di cartilagine: questa superficie servirà per l’articolazione con il radio e l’ulna. La porzione laterale dell’omero è il condilo, un rilievo emisferico che si articola con il radio, mentre quella mediale è la troclea, una sorta di puleggia alla base dell’articolazione con l’ulna. Importante è anche la porzione anteriore in cui troviamo, sopra il condilo, la fossa radiale, la quale accoglie il capitello del radio durante il movimento di flessione dell’avambraccio sul braccio. Sopra alla troclea si trova la fossa coronoidea, struttura che accoglie il processo omonimo dell’ulna. Sempre sopra alla troclea ma posteriormente, è presente la fossa olecranica, la quale ospita l’olecrano dell’ulna durante i movimenti di estensione dell’avambraccio. [2] Inoltre, l’estremità distale di omero ruota di 30° anteriormente e fra i 5-7° interiormente, e presenta un atteggiamento in valgo compreso fra i 6-8°. [3]

La testa del radio invece ha una forma cilindrica, delimitata distalmente da un restringimento anulare detto collo. La testa è completamente rivestita da cartilagine ialina; la porzione superiore è concava e forma la fossa articolare, necessaria all’articolazione con il condilo mediale; tutto il contorno della testa del radio, cioè quella che viene chiamata circonferenza articolare, si articolerà invece con l’incisura radiale dell’ulna.

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L’estremità prossimale (o superiore) dell’ulna presenta un processo diretto indietro e in alto, l’olecrano, fondamentale per la stabilità dell’intero complesso del gomito. Più in basso ne troviamo un altro più piccolo, il processo coronoideo. È proprio tra questi due processi che è situata la superficie articolare, concava, detta anche incisura trocleare, che si articola con la troclea omerale. Lateralmente a questa, la cartilagine articolare si continua fino a rivestire l’incisura radiale. [2]

L’articolazione

L’articolazione del gomito è molto complessa. All’interno di un’unica capsula articolare infatti possiamo riconoscere:

- L’articolazione omero-ulnare; - L’articolazione omero-radiale;

- L’articolazione radio-ulnare (prossimale);

L’articolazione omero-ulnare è una troclea (o ginglimo angolare) che si stabilisce fra la troclea omerale e l’incisura trocleare dell’ulna; essa garantisce i movimenti di flesso-estensione dell’avambraccio sul braccio.

L’articolazione omero-radiale invece è un’articolazione condiloidea tra il condilo omerale e la fossa articolare della testa del radio; partecipa ai movimenti di flesso-estensione dell’avambraccio sul braccio e consente la rotazione del radio necessaria per i movimenti di prono-supinazione.

L’articolazione radio-ulnare prossimale infine è un trocoide (o ginglimo laterale) che si forma fra l’incisura radiale dell’ulna, completata dal legamento ulnare del radio, e la

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circonferenza articolare della testa del radio; essa permette movimenti di prono-supinazione dell’avambraccio. (fig. 1)

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Fig.1 L’articolazione del gomito. 8

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I mezzi di unione

I mezzi di unione di questa articolazione sono la capsula, rinforzata dai ligamenti, e la membrana interossea.

La capsula articolare comprende le superfici articolari di omero, radio e ulna. A livello omerale essa è un po’ più “generosa” in quanto non aderisce strettamente alle cartilagini articolari come avviene su radio e ulna, bensì si inserisce, anteriormente, sopra alle fosse coronoidea e radiale mentre posteriormente si porta ai limiti della fossa olecranica; solo lateralmente e medialmente la capsula raggiunge le superfici articolari. A carico dell’ulna, l’inserzione avviene sul contorno delle incisure trocleare e radiale, mentre sul radio la membrana fibrosa scende fino al collo dello stesso.

La membrana sinoviale, su tutti i capi articolari, si inserisce sul contorno della cartilagine articolare. Può essere divisa in due segmenti di cui il superiore, più esteso, appartiene alle articolazioni omero-radiale, omero-ulnare e alla parte superiore dell’articolazione radio-ulnare prossimale. Il segmento inferiore, ridotto, appartiene solo all’articolazione radio-ulnare prossimale e prende il nome di recesso sacciforme in quanto forma un cul-de-sac anulare attorno al collo del radio.

Per quanto riguarda i legamenti, essi sono quattro:

- Legamento collaterale ulnare; fibre che si portano dall’epicondilo mediale dell’omero fino al margine mediale dell’incisura trocleare dell’ulna, e dal processo coronoideo all’olecrano.

- Legamento collaterale radiale; origina dall’epicondilo laterale dell’omero e si inserisce con tre fasci: quello anteriore sull’ulna, davanti all’incisura radiale;

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quello medio si fissa dietro tale incisura; infine quello posteriore raggiunge la faccia laterale dell’olecrano.

- Legamento anulare del radio; si tratta di un fascio di fibre che circondano tutta la circonferenza articolare del radio e si fissano alle estremità anteriore e posteriore dell’incisura radiale dell’ulna. Questo legamento ha la particolarità di essere rivestito internamente da cartilagine, e ciò permette, insieme all’incisura radiale, di formare un anello osteo-fibroso che fissa la testa del radio consentendole il movimento rotatorio durante la prono-supinazione.

- Legamento quadrato; connette il collo del radio all’incisura radiale dell’ulna.

Infine, un’altra struttura importante anche se posta a distanza dall’articolazione è la membrana interossea. Essa è costituita da una lamina fibrosa che origina dai margini interossei delle due ossa dell’avambraccio; inferiormente raggiunge l’articolazione radio-ulnare distale, mentre superiormente si avvicina alla capsula articolare, terminando pochi cm al di sotto della tuberosità radiale. Da qui, un piccolo fascio di fibre si porta ulteriormente verso l’alto fino a raggiungere la base del processo coronoideo, costituendo la cosiddetta corda obliqua. La membrana interossea è un importante stabilizzatore del gomito, soprattutto durante i movimenti di prono-supinazione, in quanto ha la capacità di scaricare la forza di torsione dal radio all’ulna e all’omero.

Conoscere le strutture che sono implicate nella stabilità di gomito è fondamentale; durante interventi di resezione e ricostruzione dell’articolazione può essere necessaria la

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rimozione anche di alcune di queste componenti, cosa che impatta sul risultato funzionale e può esporre a complicanze.

Gli stabilizzatori si dividono in primari e secondari, attivi e passivi. I primari sono:

- Il processo coronoideo dell’ulna;

- Il legamento collaterale mediale, in particolare la sua componente anteriore; - Il legamento collaterale ulnare, soprattutto con la sua banda posteriore.

Gli stabilizzatori secondari invece sono due:

- Il capitello radiale, in particolare dopo resezione del legamento collaterale mediale e della membrana interossea;

- La capsula articolare, ma solo durante il movimento di estensione;

Importante è anche conoscere la componente muscolare che circonda l’articolazione di gomito e ne permette il movimento. In questa regione, troviamo il gruppo dei flessori (bicipite e brachiale anteriore), degli estensori (tricipite e anconeo), degli epicondiloidei (brachioradiale, estensore radiale lungo e breve del carpo), e degli epitrocleari (pronatore rotondo, flessore radiale e flessore ulnare del carpo, palmare lungo).

Tra i muscoli flessori, il principale è il bicipite brachiale. Si tratta di un muscolo bi-articolare che origina con due capi dalla scapola (il lungo dal tubercolo sovra glenoideo, il breve dalla coracoide) e si inserisce sulla tuberosità radiale. Oltre a questa funzione, ad avambraccio prono si comporta anche da potente supinatore. Il muscolo brachiale invece è posto profondamente al bicipite, è piatto e largo e unisce la regione anteriore e distale dell’omero con la tuberosità dell’ulna.

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Per quando riguarda gli estensori, il tricipite brachiale è costituito da un capo lungo (con origine dal tubercolo sottoglenoideo della scapola), da un capo laterale (con origine dalla faccia posteriore e dal margine laterale dell’omero, al di sopra e lateralmente al solco del n. radiale) e da un capo mediale (con origine dalla metà distale della superficie postero-mediale dell’omero) che si inseriscono sull’olecrano. È il più potente degli estensori, ma può anche addurre l’arto superiore al tronco, in particolare col capo lungo. Il muscolo anconeo invece è piccolo, appiattito e di forma triangolare; si estende dall’epicondilo laterale dell’omero all’estremità prossimale dell’ulna, e ha il compito di estendere l’avambraccio sul braccio seppur con una forza modesta. Coprendo il legamento collaterale laterale e il capitello radiale però contribuisce alla stabilità articolare.

Nel gruppo dei muscoli epicondiloidei si trova il brachioradiale, che origina dalla cresta sovra-condiloidea dell’omero per poi inserirsi sulla stiloide radiale. È un flessore e un adduttore dell’omero. L’estensore radiale lungo del carpo invece origina sotto il brachioradiale subito sopra l’epicondilo, inserendosi dorsalmente sulla base del secondo metacarpo. Infine, l’estensore radiale breve del carpo ha origine dall’epicondilo e si inserisce dorsalmente sulla base del terzo metacarpo.

Tra i muscoli epitrocleari troviamo il pronatore rotondo, il quale possiede un capo omerale con origine dall’epicondilo mediale e un capo ulnare con origine dal processo coronoideo. I suoi fasci si portano in basso e lateralmente per inserirsi a metà della faccia laterale del radio. Si comporta da potente pronatore e da debole flessore. Il flessore radiale del carpo è situato medialmente al pronatore rotondo ed origina dall’epitroclea per mezzo di un tendine comune ai muscoli epitrocleari andando ad inserirsi sulla base del II metacarpo. Il flessore ulnare del carpo è anch’esso costituito da due capi, uno omerale con origine dall’epitroclea e uno ulnare con origine dal margine

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mediale dell’olecrano, che si inseriscono sul pisiforme. È importante individuare questo muscolo in sede operatoria in quanto fra i due capi decorre il n. ulnare. Per finire, tra gli epitrocleari troviamo anche il palmare lungo, il quale però può essere assente in un è 15% dei pazienti. Si divide in due fasci, il mediale che si fissa sulla faccia anteriore dell’aponevrosi palmare e il laterale che si confonde con l’origine dei muscoli dell’eminenza tenar. Possiede un lungo e sottile tendine che viene usato molto spesso per le ricostruzioni.

Anatomia di vasi e nervi

Attorno al gomito si trovano alcune strutture nobili vascolo-nervose che devono essere riconosciute e salvaguardate durante un intervento chirurgico.

L’arteria brachiale è l’arteria principale del braccio. Origina dall’arteria ascellare a livello del bordo inferiore del muscolo grande pettorale per poi discendere quasi in modo rettilineo spostandosi verso la linea mediana, fiancheggiata dalla vena omonima e dal nervo mediano. Rimane superficiale per tutto il suo decorso, essendo coperta solo dalla cute e dalla fascia brachiale A livello della regione anteriore del gomito si pone più profondamente all’interno della fossa cubitale, prima di dividersi nei suoi due rami terminali: l’arteria radiale e l’arteria ulnare.

L’arteria radiale nasce 1 cm sotto la piega del gomito a livello del processo coronoideo dell’ulna, coperta dal ventre muscolare del brachioradiale; quando quest’ultimo si trasforma in tendine essa si fa superficiale, decorrendo subito sotto la fascia antibrachiale e poggiando sulla superficie ossea radiale. L’arteria ulnare invece origina anch’essa insieme alla radiale, ma decorre obliquamente sotto ai muscoli epitrocleari

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dirigendosi in basso e medialmente, poggiando sulla faccia anteriore dell’ulna, fino a portarsi sotto al muscolo flessore ulnare del carpo.

A livello dell’articolazione del gomito esistono poi dei circoli anastomotici, uno laterale e uno mediale. In quello laterale l’a. collaterale radiale si anastomizza, ventralmente e dorsalmente all’epicondilo laterale, con l’a. ricorrente radiale e con l’a. ricorrente interossea. Nel circolo anastomotico mediale la collaterale ulnare inferiore si anastomizza ventralmente e dorsalmente all’epitroclea con le due ricorrenti ulnari anteriore e posteriore. Questi plessi sono uniti da rami trasversali, anteriori e posteriori. Fondamentale è anche conoscere le strutture nervose che si ritrovano intorno all’articolazione di gomito: il nervo muscolocutaneo, il nervo radiale, il nervo ulnare e il nervo mediano.

Il n. muscolocutaneo è un nervo misto che origina dalle radici di C5-C6-C7. Decorre in basso e lateralmente fra bicipite e brachiale fino a raggiungere la piega del gomito, dove perfora la fascia brachiale e diviene sottocutaneo. Qui cambia nome, divenendo nervo cutaneo laterale dell’avambraccio, e si divide in un ramo anteriore e uno posteriore deputati all’innervazione sensitiva dell’avambraccio. Importanti sono i rami che emette a livello del braccio, necessari all’innervazione motoria del coracobrachiale, del bicipite e del brachiale.

Il n. radiale invece origina da C5-T1 e decorre nel solco omonimo scavato nell’omero, insieme all’arteria omerale profonda. In vicinanza del gomito raggiunge il margine laterale dell’omero, perfora il setto intermuscolare laterale e passa nella loggia anteriore del braccio decorrendo fra il muscolo brachiale, posto medialmente, e il brachioradiale posto lateralmente. Al davanti dell’epicondilo si divide nei due rami terminali, n. radiale profondo e n. radiale superficiale (decorre tra i due capi omerale e radiale del m. supinatore nell’arcata di Frohse) e diventa n. interosseo posteriore. Questo si divide

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nelle branche motrici terminali destinate agli estensori delle dita ed all’abduttore lungo del pollice.

Il nervo ulnare origina dalle radici di C7-C8-T1, decorre nella loggia anteriore del braccio in compagnia dell’arteria brachiale e del nervo mediano (posti lateralmente). Scendendo verso il gomito si allontana da queste strutture deviando posteriormente e perforando il setto intermuscolare mediale entra nella loggia posteriore del braccio. Raggiunge il gomito sul lato mediale del muscolo tricipite e qui si impegna in un canale osteofibroso formato dalla doccia epitrocleo-olecranica e da fasci fibrosi che passano a ponte su di essa. Alla sua uscita si fa di nuovo profondo, passando fra il capo omerale e il capo ulnare del muscolo flessore ulnare del carpo e contornando l’ulna, raggiunge la regione anteriore dell’avambraccio. È un nervo misto, deputato all’innervazione sensitiva del gomito e della parte mediale della cute della mano, e a quella motoria del flessore ulnare del carpo, della parte mediale del flessore profondo delle dita e di gran parte della muscolatura intrinseca della mano (ad eccezione dei primi due lombricali e di alcuni muscoli dell’eminenza tenar).

Il nervo mediano è anch’esso un nervo misto che origina dalle radici che vanno da C5 a T1. La sua componente motoria si distribuisce ai muscoli epitrocleari, ai muscoli lombricali e a quelli dell’eminenza ipotenar, mentre la componente sensitiva si distribuisce alla cute della regione anteriore del polso, alla parte laterale palmare della mano e alla superficie palmare delle prime tre dita più metà del quarto. Decorre nella loggia anteriore del braccio accompagnato dall’arteria brachiale e dalle vene omonime, separato dal nervo ulnare, costeggiando il margine mediale del coracobrachiale prima e del bicipite poi. Arrivato alla piega del gomito si appoggia sul muscolo brachiale, venendo incrociato dal lacerto fibroso del bicipite. Prosegue poi nell’avambraccio,

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nuovamente approfondendosi, passando fra il capo ulnare e il capo omerale del muscolo pronatore rotondo.

LA BIOMECCANICA

Il gomito fa parte del gruppo delle articolazioni a cerniera (cardine o ginglimo) e come tale presenta due gradi di libertà, con i quali permette ampi movimenti di flessione e estensione dell’avambraccio sul braccio e più limitati movimenti di rotazione (pronazione e supinazione) dell’avambraccio. In realtà, quando si trova in flessione, permette anche dei modestissimi movimenti di lateralità.

La flesso-estensione è garantita principalmente dalla contrazione di muscoli che alloggiano nel braccio, ma che si inseriscono sull’avambraccio facendo di esso la leva da sollevare. Il principale è il bicipite brachiale, il quale origina con due capi (lungo e breve) a livello di scapola, poi attraversa la spalla fino a inserirsi nella tuberosità radiale; molto importante è anche il muscolo brachioradiale, che comunque partecipa anche ai movimenti di prono-supinazione comportandosi sia da blando supinatore che da blando pronatore. Durante la flesso estensione quindi, l’articolazione omero-ulnare funge da fulcro su cui i flessori agiscono sollevando il radio fino ad un angolo massimo di circa 150°. L’asse di rotazione passa attraverso il capitulum humeri e la zona distale del solco trocleare. Durante la flessione ci sono da 3° a 4° di varo-valgo e una lassità sull’asse di movimento [3]. Il limite che impedisce una flessione maggiore è prettamente fisico, ed è costituito dalla muscolatura anteriore del braccio e soprattutto dal processo coronoideo e dal suo rapporto con la fossa coronoidea. Il tricipite invece spinge posteriormente l’ulna, permettendo di raggiungere un angolo di estensione

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massima di 0°. Un’iperestensione si può avere per rottura dell’olecrano, per lesioni della capsula articolare, oppure per lussazione posteriore del capitello radiale.

La prono-supinazione invece interessa articolazioni diverse a seconda del grado di flessione: se l’avambraccio si trova in estensione completa sul braccio il movimento di rotazione è mediato principalmente dall’articolazione gleno-omerale, con la radio-ulnare prossimale che partecipa in parte minore; nel momento in cui l’avambraccio si trova in flessione è il gomito l’attore protagonista di questo movimento, in particolare con la radio-ulnare prossimale e con la radio-omerale. I muscoli più importanti in questo caso sono di nuovo il bicipite brachiale, che agisce per trazione, il pronatore rotondo e il pronatore quadrato. L’effetto massimo della contrazione muscolare fornita dai prono-supinatori si ha per una flessione di 90° dell’avambraccio sul braccio. Morrey et al. [4], nei loro studi hanno dimostrato come mediamente gli angoli di pronazione e supinazione siano rispettivamente di 70° e di 75°. La limitazione principale a questo movimento è data non tanto da stabilizzatori passivi come i legamenti quanto invece dalla presenza di una muscolatura antagonista che riduce l’angolo massimo di rotazione. Nonostante questo, il legamento quadrato si è dimostrato essere un fondamentale stabilizzatore della prono-supinazione.

Complessivamente quindi possiamo dire che un gomito sano, con tutte le strutture ossee e i tessuti molli indenni, presenta un range di movimento massimo di 150° in flesso-estensione, e un arco di rotazione di circa 150-160°. [5]

Morrey et al [3] hanno verificato in uno studio condotto su un campione di 30 pazienti quello che è il range di mobilità necessario a svolgere le attività basilari nella vita di tutti i giorni (vestirsi, mangiare, legarsi le scarpe ecc). Tutti questi movimenti si sviluppano lungo un arco di 100° di flesso-estensione (da 130° a 30°) e di 100° di rotazione dell’avambraccio (50° di pronazione e 50° di supinazione).

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Tali dati sono stati implementati circa 20 anni più tardi da Sardelli et al [15], i quali hanno cercato di capire quelle che sono le attività quotidiane che stressano maggiormente l’articolazione di gomito. Il maggior stress flesso-estensorio si ha con l’uso dei telefoni cellulari, mentre questa svolge il massimo sforzo pronatorio durante l’utilizzo di una tastiera e quello supinatorio per l’apertura di una porta. Oltre a questi dati, è stata valutata anche l’angolazione in valgismo/varismo dell’articolazione, stimata in 2° +/- 5° in varo e 9° +/- 5° in valgo, con angolazione massima in valgo raggiunta durante l’apertura di una porta.

Gli stabilizzatori passivi

In virtù di superfici articolari piuttosto congrue l’articolazione di gomito è intrinsecamente stabile.

Studi effettuati da An et al., hanno evidenziato il contributo alla stabilità articolare della testa del radio, associando la rimozione di parti crescenti dell’olecrano [6]. Si è vista una sempre minore stabilità, rappresentabile con un andamento lineare, sia in flessione che in estensione. Inoltre, tali studi hanno anche evidenziato come una percentuale variabile fra il 75% e l’85% degli stress in valgo vanno ad insistere sulla metà prossimale dell’olecrano, mentre il 60-67% degli stress in varo insistono sulla coronoide (metà distale delle cavità sigmoidea) [6]. Se si rimuove anche quest’ultima in modo sempre maggiore il gomito risulta ovviamente più instabile, ma se si reseca la testa del radio l’instabilità compare per resezioni minori della coronoide [3]. Il capitello radiale agisce come stabilizzatore secondario agli stress in valgo e indirettamente come stabilizzatore in varo. Morrey e collaboratori hanno evidenziato come la resezione del capitello non aumenti significativamente l’instabilità in valgo finché non viene

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sezionato il legamento collaterale mediale ulnare [8]. Pertanto, il capitello radiale diventa un importante stabilizzatore in valgo quando il legamento collaterale mediale ulnare è lesionato. Il capitello è anche coinvolto nel complesso legamentoso collaterale laterale [9].

Diversi autori hanno studiato il ruolo del processo coronoideo. Closkey et al. Hanno dimostrato che, se i legamenti collaterali mediale e laterale sono integri, è sufficiente la rimozione del 50% del processo coronoideo per causare un’instabilità posteriore significativa [10]. O’Driscoll et al. Invece hanno evidenziato come in presenza di un danno ai legamenti collaterali e al capitello radiale, per avere un gomito instabile sia sufficiente la resezione del 33% del processo coronoideo [11]. Con una lesione concomitante delle strutture legamentose quindi, anche fratture minime della coronoide possono intaccare la stabilità ossea dell’articolazione.

Tra gli stabilizzatori passivi sono fondamentali anche i legamenti collaterale mediale (MCL) e laterale (LCL).

Il MCL è suddiviso in varie componenti. Il fascio anteriore è uno dei principali stabilizzatori articolari in valgo lungo tutto l’arco di movimento, mentre il fascio posteriore ha un ruolo importante soprattutto avvicinandosi ai massimi gradi di flessione. In particolare, con un carico in valgo, la porzione anteriore del fascio anteriore è tesa tra gli 0° e gli 85°, mentre la porzione posteriore è tesa tra i 55° e i 140° di flessione. Morrey et al hanno successivamente dimostrato che sezionando il fascio posteriore comunque non si aumenta in modo significativo l’instabilità in valgo [8]. Il LCL origina in prossimità all’asse di rotazione. Questo fa si che sia uniformemente teso sia in estensione che in flessione [3]. Può essere visto come un complesso costituito dal legamento collaterale radiale e dal suo accessorio, dal legamento anulare e dal collaterale ulnare laterale. O'Driscoll et al. inizialmente hanno descritto quest’ultimo

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come lo stabilizzatore legamentoso principale allo stress in varo e all'instabilità rotatoria posterolaterale [11], ma recentemente è stato evidenziato come non sia l'unica struttura importante per questo compito. Il legamento anulare infine, con i suoi fasci anteriori si tende durante la supinazione mentre con quelli posteriori si tende nella pronazione. Alla stabilità contribuisce ovviamente anche la capsula, la quale comprende tutte le superfici articolari coinvolte; essa viene maggiormente tesa durante l’estensione mentre si rilassa in flessione.

Gli stabilizzatori attivi

I muscoli che circondano l’articolazione del gomito possono essere divisi in 4 gruppi:

- Posteriore (sede degli estensori), innervati dal n. radiale.

- Laterale (estensori del polso e delle dita, supinatori) anch’essi innervati dal n. radiale.

- Mediale (gruppo dei pronatori, inclusi il flessore radiale del carpo, il flessore ulnare del carpo, palmare lungo) innervati dal n. ulnare

- Anteriore (flessori) innervati dal n. muscolocutaneo.

I muscoli precedentemente descritti attraversano l’articolazione del gomito, e con la loro contrazione esercitano delle forze sulla stessa in modo dinamico ma bilanciato. Ciò permette una compressione variabile sulle strutture articolari, cosa che funge da meccanismo di blocco e quindi da stabilizzatore. In particolare, secondo studi elettromiografici le forze maggiori vengono esercitate dal bicipite, dal tricipite e dal brachiale [3]. Esse si scaricano assialmente sull’omero distale in prossimità della

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massima estensione, mentre tendono a ridursi all’aumentare della flessione La loro importanza è stata confermata anche da Morrey et al, i quali hanno dimostrato il loro ruolo anche in assenza del legamento collaterale mediale e del capitello radiale [8]. La parte laterale dell'articolazione del gomito è stabilizzata staticamente e dinamicamente dal gruppo estensore-supinatore [12]. Per il loro orientamento e la loro origine i muscoli del gruppo flessore-pronatore sembrano invece fornire un supporto dinamico alla sollecitazione in valgo della parte mediale. In particolare, il flessore ulnare del carpo e una parte dei flessori superficiali delle dita si trovano direttamente sopra al fascio anteriore del legamento collaterale mediale [13].

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3. PATOLOGIE DELL’ARTICOLAZIONE

Le patologie che possono interessare l’articolazione di gomito e che possono portare a richiedere un intervento ricostruttivo sono diverse. Un gruppo importante è quello dei tumori, sia primitivi che secondari, i quali necessitano di operazioni chirurgiche in cui spesso la componente ossea deve essere resecata in maniera estesa onde evitare possibili recidive. Questo tipo di interventi viene richiesto anche per risolvere la sintomatologia dolorosa e ristabilire la corretta mobilità articolare in pazienti affetti da malattie su base autoimmune, come l’artrite reumatoide, o su base infiammatoria. In altre circostanze si possono verificare delle lesioni traumatiche non trattabili con l’osteosintesi, oppure fratture particolarmente complesse possono portare a riparazioni non ottimali (pseudoartrosi) o a interventi che favoriscono la degenerazione dell’articolazione (artrosi). Infine un’altra possibile causa di intervento sono le infezioni, sostenute dagli agenti eziologici più disparati, che però fortunatamente hanno visto un calo della loro incidenza negli ultimi anni grazie al miglioramento delle terapie antibiotiche e a quello delle condizioni igienico-sanitarie.

Sia nei casi oncologici che in quelli non oncologici spesso si rendono necessarie resezioni ossee estese: nel primo caso, oltre a rimuovere la massa tumorale che ha sostituito il normale tessuto osseo bisogna lasciare anche un margine libero da malattia; nel secondo caso, la patologia in essere distrugge completamente e estesamente l’osso, al punto tale da richiedere una sua rimozione perché non più adatto ad un’eventuale osteosintesi.

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LA PATOLOGIA TUMORALE

L’articolazione di gomito è un sito non comune di presentazione di tumori ossei o di metastasi. Dai dati dell’Istituto Rizzoli, solo 91 (1,2%) delle 7830 lesioni primitive maligne dell’osso si riscontrano a questo livello; il 62% di esse coinvolge l’estremità distale dell’omero, il 23% l’estremità prossimale del radio e il 15% quella dell’ulna. Inoltre, si stimano 218 localizzazioni in questa regione su 11.118 neoplasie ossee benigne (2%) [14]. Nonostante la loro rarità essi rappresentano delle patologie di grosso impatto sulla salute del paziente, e richiedono interventi chirurgici complessi.

Sarcoma di Ewing

È una neoplasia maligna che fino a pochi anni fa veniva considerata di incerta classificazione. Oggi viene inserita nel gruppo dei tumori periferici primitivi neuro-ectodermici (PNET), cioè fra le neoplasie originanti da cellule derivate dalla cresta neurale [16]. Si presentano nel 90% dei casi fra i 5-25 anni, con picco massimo fra i 10 e i 20, con una lieve prevalenza nel sesso maschile (M:F 1,5:1). La loro localizzazione principale risiede nelle diafisi e nelle metafisi delle ossa lunghe, e nello scheletro del tronco, mentre a livello del gomito lo troviamo nell’1,7% dei casi [17]. La prognosi dipende dall’eventuale presenza di metastasi alla diagnosi, ma si può dire che complessivamente essa è migliore quando colpisce gli arti piuttosto che il tronco. L’elevata radiosensibilità rende l’irradiazione il gold standard nel trattamento locale [16].

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Osteosarcoma

È un tumore maligno primitivo dell’osso a istogenesi mesenchimale caratterizzato dalla produzione di matrice osteoide, cartilaginea ed ossea. Rappresenta il tumore maligno primitivo più frequente dell’apparato scheletrico e tende a colpire maggiormente i giovani (10-30 anni) con un’età media di 19 anni [16]. In rari casi insorgono in età più avanzata, ma in genere ciò avviene su un osso pagetico o irradiato [17]. Colpisce prevalentemente il sesso maschile (M:F 1,5-2:1) a livello delle metafisi delle ossa lunghe (80% attorno al ginocchio, 50% sul femore); la presentazione a livello dell’estremo distale di omero, della testa del radio o del segmento prossimale dell’ulna non è molto frequente (0,7%) [17]. Nel 10-20% dei casi si presentano già metastatici alla diagnosi, l’80% delle volte a livello polmonare e il 10% in altri segmenti dello scheletro, rendendo ragione del loro alto grado di malignità. Quando la malattia interessa sin dall’inizio molteplici ossa, essa risulta difficilmente trattabile [16].

Condrosarcoma

Il condrosarcoma è una neoplasia maligna formata da cellule che tendono a differenziarsi in cartilagine. In letteratura rappresenta il secondo tumore osseo per frequenza nell’adulto dopo l’osteosarcoma. È eccezionale nei bambini e sotto i 20 anni, predilige infatti l’età compresa fra i 30 e i 60 anni e il sesso maschile. Tende a localizzarsi nella metafisi delle ossa lunghe e nel bacino. L’incidenza a livello della regione del gomito è del 2,4% [17].

Nel condrosarcoma si riconoscono diversi gradi istologici di malignità, cui corrispondono terapie e prognosi differenti. Questo dipende dalla differenziazione

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cellulare, dall’entità delle anomalie nucleari e dall’aspetto della sostanza fondamentale; inoltre hanno la capacità di progredire verso un grado di malignità più elevato oppure di evolversi a fibrosarcoma, osteosarcoma o istiocitoma fibroso maligno. I diversi gradi di malignità vengono così suddivisi [18]:

- G1  basso grado di malignità, tasso di sopravvivenza a 5aa del 90%. - G2  grado intermedio; tasso di sopravvivenza a 5aa dell’81%

- G3  alto grado di malignità; tasso di sopravvivenza a 5aa del 43%. Oltre il 70% di essi ha avuto una disseminazione a distanza.

Fibrosarcoma

Neoplasia che origina dai fibroblasti del tessuto connettivo. Può colpire la cute, i tendini, le fasce muscolari e il periostio. Una sua forma particolare, il fibrosarcoma dal connettivo non osteoblastico, interessa le metafisi delle ossa lunghe. Colpisce in genere l’età adulta con lieve prevalenza nel sesso maschile. È una neoplasia piuttosto rara, ma che quando colpisce la regione del gomito impone grosse resezioni con successiva necessità di sopperire alle gravi perdite ossee.

Tumore a cellule giganti (TCG)

Il TCG (detto anche osteoclastoma) è un tumore localmente aggressivo caratterizzato dalla presenza di questi numerosi elementi cellulari di grosse dimensioni che sono al centro della proliferazione neoplastica, a differenza di altre lesioni in cui elementi simili costituiscono componenti reattive, depositi calcarei ecc. Nel 10% dei casi, nonostante la

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sua benignità, si può osservare una trasformazione in sarcoma, spontaneamente o previa induzione da radioterapia. È un tumore caratteristico dell’età giovanile e adulta, specie tra i 20 e i 40 anni, con una lieve predilezione per il sesso femminile. Non è comunque raro diagnosticarlo prima dei 15 anni, né intorno alla IV-V decade di vita. Nel 90% dei casi si osserva nelle ossa lunghe, a livello meta-epifisario prevalentemente del femore e della tibia. Campanacci ha osservato su un campione di 291 pazienti affetti da TCG soltanto 7 localizzazioni di gomito (2,4%). Esistono anche casi straordinari di TCG multiplo, ma prima di confermare una diagnosi di questo tipo bisogna escludere con certezza altre patologie, fra cui l’iperparatiroidismo primitivo [17].

Osteoma osteoide

È una neoplasia benigna ossea composta di sostanza osteoide e trabecole di osso neoformato depositato in tessuto connettivo altamente vascolarizzato; presenta un “nidus” centrale circondato da una zona di reazione ossea [16]. Nonostante sia sempre di piccole dimensioni, è estremamente dolente. Rappresenta il terzo tumore per ordine di incidenza fra i benigni. Può presentarsi a qualsiasi età, anche se più del 90% delle volte si manifesta fra i 5 e i 25 anni, prevalentemente nei maschi (rapporto 2:1). La sua localizzazione tipica è comunque quella della diafisi o metafisi delle ossa lunghe, specie femore, tibia e omero. Il gomito è raramente interessato (0,5%) [17].

Lesioni oncoematologiche

Alcuni tumori oncoematologici possono provocare delle lesioni ossee in grado di danneggiare l’articolazione di gomito fino a rendere necessario un intervento

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ricostruttivo. Uno dei più frequenti è il reticolosarcoma, una neoplasia maligna reticolo-endoteliale del midollo osseo che origina da elementi istiocitari dello scheletro, con una predilezione per femore, tibia e omero. Altra neoplasia frequente è il plasmocitoma, in cui si realizza una proliferazione maligna delle plasmacellule; talvolta essa avviene fuori dal contesto osseo, mentre talvolta cresce all’interno dello scheletro prendendo così il nome di “plasmocitoma solitario dell’osso”; inoltre questa malattia può progredire a mieloma multiplo. Tra le patologie che possono interessare il gomito, anche se meno frequentemente, troviamo anche il linfosarcoma e il morbo di Hodgkin [17].

Cisti aneurismatiche

È una neoformazione pseudotumorale dello scheletro, espansiva e deostruente, che inizia frequentemente dalla superficie dell’osso. La sua natura è iperemico-emorragica iperplastica [17]. L’eziologia di queste lesioni è tutt’ora sconosciuta, anche se recentemente sono state riscontrate delle traslocazioni a livello dei cromosomi 16 e 17 che sembrano propendere verso una causa puramente neoplastica. È relativamente frequente, si presenta nella seconda decade di età e prevalentemente nel sesso femminile. È coinvolta la sede meta-epifisaria delle ossa lunghe (tibia, perone, avambraccio). Il gomito sembra essere interessato in un 5,5% dei casi. Si tratta di una lesione fortemente demolitiva, che provoca forte dolore e instabilità, danneggiando irreversibilmente l’articolazione.

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Lesioni simil-tumorali

Le lesioni simil-tumorali sono un gruppo di patologie che simulano la presenza di una neoplasia maligna senza presentare tali caratteristiche istologiche. Tra le più frequenti troviamo la miosite ossificante, le cisti ganglionari e le cisti sinoviali.

Metastasi

Le metastasi rappresentano il tumore maligno più frequente nello scheletro. Quando parliamo di questa malattia parliamo di metastasi da carcinoma, poiché quelle da sarcoma sono talmente rare e terminali da avere scarso interesse clinico [17]. I principali tumori che metastatizzano a livello del gomito sono il carcinoma renale, il polmonare, il mammario, il tiroideo e il mieloma multiplo, con 90 pazienti colpiti su 4431 (2%) [14]. La sede comunque varia a seconda del tipo di neoplasia primitiva; il fatto che il carcinoma della mammella e della tiroide, due tumori ad alta incidenza, diano prevalentemente metastasi a livello della colonna vertebrale e del bacino spiega anche perché la percentuale delle ripetizioni in tali sedi sia molto più elevata.

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LE MALATTIE INFIAMMATORIE

Artrite reumatoide

Malattia infiammatoria cronica su base autoimmune che colpisce le articolazioni munite di membrana sinoviale, e che può condurre a gravi alterazioni articolari. È una patologia sistemica, con interessamento pluri-articolare e con lesioni anche para-articolari che acuiscono la sintomatologia dolorosa. Le articolazioni di mano e polso sono le più colpite, con la comparsa di deformità importanti e spesso caratteristiche, ma anche ginocchio, gomito e anca possono essere frequentemente e precocemente coinvolte. Il sesso femminile è più colpito (con un rapporto di 4:1), generalmente fra i 30 e i 50 anni [16]. Ad oggi, l’artrite reumatoide rappresenta la principale indicazione all’impianto di protesi di gomito di primo impianto.

Artrite psoriasica

Artropatia infiammatoria associata alla psoriasi. Colpisce di solito il giovane adulto fra i 30 ed i 45 anni, lievemente più nei maschi che nelle femmine. Le sedi di presentazione somigliano a quelle dell’artrite reumatoide, ma la localizzazione qui è tipicamente asimmetrica. Il gomito è in questo caso più raramente coinvolto, ma quando questo accade le lesioni sono fortemente destruenti e la prognosi è peggiore [16].

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CONDIZIONI TRAUMATICHE, POST-TRAUMATICHE E DEGENERATIVE

Il verificarsi di una frattura necessita sempre di un qualche presidio volto a favorire la riparazione della lesione. In questi casi il primo approccio è generalmente quello di tentare una sintesi. Quando sono coinvolte le strutture articolari la situazione è più complessa, in quanto una riparazione non ottimale potrebbe compromettere la funzionalità e la stabilità del gomito.

Le fratture che possono interessare questa sede sono:

- Fratture sovracondiloidee dell’omero  molto frequenti nei bambini per trauma in flessione o in estensione, associate rispettivamente ad un movimento anteriore o dorsale del frammento distale di omero. Pericolose le complicanze, da lesioni del n. Radiale a quelle del n. Mediano, dalla sindrome di Volkmann al vizioso consolidamento in varismo o valgismo.

- Fratture dell’olecrano dell’ulna  tipiche dell’adulto per trauma diretto, richiedono molto spesso un trattamento chirurgico.

- Fratture intercondiloidee  rare, colpiscono a “V” o a “T” l’epifisi distale di omero.

- Fratture del capitello radiale  abbastanza frequenti, legate a trauma indiretto su mano in difesa. [19]

In questi casi comunque difficilmente si ricorre all’artroplastica, ma si preferisce l’utilizzo di mezzi di fissazione interna o esterna; nella condizione in cui si presenti un ampio difetto osseo derivante dal trauma o una condizione di scarsa qualità dell’osso dovuta alle condizioni del paziente, l’osteosintesi potrebbe non essere possibile, facendo

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propendere il chirurgo verso la scelta di sostituire l’articolazione. Negli ultimi anni ad esempio, le fratture molto comminute in pazienti anziani e/o con una scarsa qualità dell’osso sono diventate un’indicazione chirurgica alla ricostruzione di gomito con impianto protesico.

Un’altra condizione che potrebbe portare alla sostituzione di gomito con impianto protesico è una frattura in pseudoartrosi, situazione non rara a questo livello; la sostituzione articolare si rende necessaria per l’instabilità del segmento osseo e il dolore persistente dovuto alla condizione di pseudoartrosi. Il difetto osseo in questa situazione è spesso paragonabile a quello dovuto alla resezione di una neoplasia ossea, che rende inadeguato l’uso di una protesi di primo impianto e che necessita spesso di interventi di chirurgia ricostruttiva maggiore con megaprotesi o protesi composite.

L’artrosi primaria è una patologia rara a livello di questa articolazione ed è difficilmente tratta con impianto protesico, come invece avviene nella coxartrosi e nella gonartrosi. È relativamente più frequente nei soggetti anziani che hanno svolto lavori pesanti. Una condizione più frequente è l’artrosi post-traumatica o secondaria dovuta a esiti di fratture articolari trattate con mezzi di sintesi come viti e placche o fissatori esterni. Una riparazione anatomica di tali lesioni è molto complessa, le superfici articolari difficilmente possono essere ricostruite in maniera perfettamente congruente questo espone l’articolazione a una maggiore usura che porta ad una degenerazione precoce. Tale situazione, correlata all’età e alle richieste funzionali del paziente, può richiedere l’impianto di una protesi.

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ESITI DI INFEZIONI

Un processo infiammatorio aspecifico di natura infettiva, che origina dal midollo osseo, prende il nome di osteomielite. Eziologicamente, più dell’80% è sostenuta da Staphylococcus Aureus, ma molti altri agenti potrebbero essere responsabili, sia batterici che virali, fungini o parassitari. I microrganismi possono raggiungere l’osso trasportati dalla corrente ematica, entrando attraverso porte d’accesso a volte anche trascurabili (si parla di osteomieliti primarie o ematogene) oppure possono propagarsi per continuità da processi infettivi contigui (osteomieliti secondarie), o ancora penetrare dall’esterno sfruttando delle soluzioni di continuo come quelle che si realizzano in caso di fratture esposte. Si presentano più frequentemente nei giovani, fra i 5 e i 15 anni, con un rapporto maschi/femmine di 3:1.

Un’infezione provoca gravi danni localmente, in quanto il midollo tende a rispondere al germe in maniera estremamente violenta con abbondante essudato che si forma in una regione confinata fra delle pareti rigide; la pressione aumenta notevolmente, provocando una compressione sui piccoli vasi che favorisce la necrosi. Le epifisi possiedono una vascolarizzazione autonoma, separata da quella delle metafisi, perciò spesso rimangono immuni dall’invasione del patogeno e così anche le superfici articolari. Quando nell’osteomielite si realizza lo squilibrio fra la notevole massa del tessuto osseo necrotico e la scarsa capacità digestiva dei fermenti proteolitici dell’essudato infiammatorio, non è possibile una rapida fluidificazione ed eliminazione del segmento di compatta caduto in necrosi. Alla lunga l’intensità locale dell’infezione cala ma peggiora il disequilibrio fra le forze in gioco, evento che predispone alla proliferazione di germi a più bassa virulenza che rimangono in sede cronicizzando [16]. Il tessuto necrotico deve essere rimosso in quanto si tratta di una regione lesionata in

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modo irreversibile; pertanto l’unica opzione terapeutica rimane la sostituzione. L’intervento però non è indicato se l’infezione è attiva; in questo caso bisogna prima provare con la terapia medica. Se ciò non è sufficiente e l’infezione cronicizza, o se comunque gli esiti sono estremamente distruttivi, bisogna ricorrere ad un innesto osseo o ad un impianto protesico.

In passato erano frequenti i casi di tubercolosi, le quali rappresentavano l’indicazione primaria all’intervento di artrodesi di gomito. Oggi le infezioni che coinvolgono la regione di gomito si realizzano principalmente come complicanza di precedenti interventi chirurgici. L’incidenza dopo ricostruzione totale dell’articolazione si attesta fra il 3% e l’8%, una percentuale più alta di tutti gli interventi analoghi in altre sedi. Una delle cause potrebbe essere l’alto numero di pazienti operati che sono affetti da artrite reumatoide, una patologia che trova maggiori indicazioni all’artroplastica che in altre articolazioni [20]. Con l’introduzione di farmaci sempre più efficaci su di essa, l’incidenza delle infezioni è fortunatamente scesa al 3%, confermando anche la teoria secondo la quale l’intervento deve essere effettuato quando l’artrite è ben controllata con la terapia medica. Da studi effettuati da vari autori, fra i quali Cheung et al [21] e Yamaguchi et al [22], la maggior parte delle infezioni è sostenuta da Staphylococcus Epidermidis e Staphylococcus Aureus. La contaminazione dell’impianto necessita di terapia antibiotica il più possibile specifica; in caso di fallimento, l’unica opzione rimane la revisione dell’impianto in uno o due tempi.

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4. LA RICOSTRUZIONE DEL GOMITO

CLASSIFICAZIONE

Le strategie ricostruttive delle gravi perdite osteoarticolari di gomito sono diverse, ognuna delle quali ha le sue indicazioni e controindicazioni, i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. La scelta viene presa sulla base della patologia del paziente, sul potenziale outcome, sull’aspettativa di vita del malato ecc.

Nei soggetti oncologici si necessita sempre di una cospicua rimozione di tessuto osseo, che in sede operatoria deve essere adeguatamente ricostruito. In questi casi è utile la classificazione introdotta da Enneking e accettata dalla Musculoskeletal Tumor Society [27], la quale ci permette di descrivere esattamente la sede della neoplasia nella regione di gomito e di conseguenza le aree da resecare (fig.2); in base alla quantità di osso mancante e alla sede interessata, viene indicata la più appropriata strategia ricostruttiva.

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INDAGINI PRE-OPERATORIE

Per poter scegliere il miglior intervento chirurgico per il paziente bisogna studiare approfonditamente la regione di gomito. L’esame standard è la radiografia, che ci permette di localizzare e riconoscere il tipo di lesione. Se ci troviamo in ambito oncologico sono obbligatorie anche TC e RMN; in questi casi è importante capire se la neoplasia si è estesa lungo il canale midollare e/o nello spazio sub periostale (triangolo di Codman), poiché la linea di resezione deve stare almeno 1cm al di sopra del canale per le lesioni benigne e 3cm per le maligne. Inoltre, le immagini devono contenere l’omero e l’avambraccio in toto per cercare eventuali skip lesions, le quali richiederebbero un aumento dell’osso da sacrificare. Nel caso in cui la malattia si estenda in sede intra-articolare bisogna ricorrere ad una escissione en-bloc di tutto il complesso.

TC e RMN permettono di studiare anche le strutture nobili che devono essere riconosciute e salvaguardate in sede di intervento, come l’a. brachiale, il n. radiale e il n. ulnare. In alcune circostanze infatti questi possono essere già danneggiati, oppure in contatto o addirittura invasi da una neoplasia. Particolare attenzione va posta all’epicondilo mediale dell’omero (in cui si trova la doccia in cui è alloggiato il n. ulnare) e il solco del n. radiale.

Sulla base di questi dati, se l’idea è quella di inserire un innesto o una protesi custom made bisogna completare lo studio con una TC 3D che ci consente di avere una ricostruzione fedele delle strutture ossee e articolari [25]

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INSIDIE

Una delle principali complicanze che si verifica a seguito di un intervento ricostruttivo di gomito è quella del danno di una delle strutture nervose che alloggiano in questa regione. Da studi effettuati su pazienti oncologici, la resezione comporta un’incidenza del 17-31% di lesioni nervose [36] (fig.3).

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Se la lesione interessa esclusivamente la porzione distale di omero, con necessità di sostituzione esclusivamente di questa zona, per salvaguardare il n. ulnare è consigliata la tecnica del “triceps-sparing” [37], in cui si solleva il tendine del muscolo tricipite dall’olecrano scoprendo e identificando il nervo. Quando però la patologia in essere comporta la resezione di segmenti più prossimali anche il n. radiale è a rischio; a questo punto è preferibile un accesso laterale, con esposizione del gruppo muscolare anteriore e posteriore. Solo quando i nervi sono stati identificati e messi in sicurezza si può procedere con la resezione ossea.

Quando si verificano lesioni nervose in sede operatoria, il trapianto di nervo rimane un’opzione solo in pazienti giovani che non necessitano di chemio/radioterapia; altra possibilità è quella della sutura termino-terminale con anteposizione, soprattutto per il n. ulnare, ma le chance di successo sono scarse.

Nei pazienti oncologici è spesso necessario rimuovere anche le strutture muscolari, come il bicipite, il brachiale anteriore o il tricipite; ciò comporterebbe una completa perdita della capacità di flettere e/o estendere il gomito, perciò si ricorre al trasferimento di un lembo di muscolo gran dorsale per ristabilire il movimento (trasferimento dell’unità motoria). Questo viene fatto soprattutto nei più giovani, con maggiori richieste funzionali, mentre nei più anziani si lascia ai muscoli epicondiloidei il compito di compensare il deficit flessorio e alla forza di gravità quello di estendere il gomito. Un’altra insidia è quella della copertura cutanea completa; ciò è fondamentale da un lato per ridurre il rischio di infezioni post-operatorie, dall’altro per impedire limitazioni funzionali al movimento dati dalla tensione esercitata dai tessuti molli. A questo proposito l’utilizzo del test diagnostico con la luce di Wood per controllare la vitalità della pelle aiuta a prevenire il rischio di necrosi cutanea severa, che complicherebbe l’intervento. Le difficoltà che potrebbero insorgere nella chiusura della ferita chirurgica

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andrebbero discusse prima dell’intervento con un chirurgo plastico esperto, prendendo in considerazione la possibilità di praticare lembi di rotazione dall’avambraccio (lembo cinese [38]) o lembi liberi (ad esempio lembo di gran dorsale o dal tensore della fascia lata [39]) al fine di ottenere una buona copertura cutanea.

Per poter effettuare un intervento chirurgico e avere buone probabilità di ottenere un buon risultato finale è indispensabile prendere in attenta considerazione tutti questi punti.

L’ARTRODESI

Per artrodesi si intende l’azione chirurgica atta a trasformare un’articolazione dinamica in una statica; tecnicamente quindi, tale azione può essere vista come una “anchilosi chirurgica”.

In passato l’artrodesi veniva effettuata principalmente su pazienti in cui l’articolazione era stata distrutta da un’infezione sostenuta da Mycobacterium Tubercolosis, agente eziologico della TBC [23]. Oggi invece, grazie anche alla riduzione dell’incidenza di tale infezione, questa strategia ricostruttiva non rappresenta esattamente il gold standard nel trattamento delle gravi lesioni osteo-articolari di gomito, in quanto già dalla definizione si capisce come si venga a perdere completamente la funzione motoria dello stesso; si tratta comunque di una tecnica di salvataggio in condizioni molto complesse laddove le altre tecniche ricostruttive hanno fallito. Le indicazioni chirurgiche per l’artrodesi quindi sono [23]:

- Pseudoartrosi molto dolorosa;

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- Pazienti con artrite post-traumatica ma ancora troppo giovani per sottoporsi a artroplastica;

- Lesioni complesse, come fratture comminute intra-articolari dell’estremità distale dell’omero con distruzione articolare oppure in tutti quegli infortuni in cui viene a mancare una grossa componente sia ossea che di tessuto molle; - Osteomielite cronica e sequele settiche di artrite;

- Fallimento del posizionamento di un fissatore interno.

In altre condizioni invece l’artrodesi è controindicata. Innanzitutto è consigliabile avere una completa funzionalità e stabilità della spalla oltre che una buona funzionalità della mano, nonostante la mancata possibilità di movimento del gomito venga compensata prevalentemente dai movimenti spinali e da quelli del polso. Senza questi requisiti l’artrodesi tende ad essere sconsigliata. Le maggiori controindicazioni [23] a questo tipo di intervento sono:

- Estese perdite ossee;

- Eccessive perdite di tessuto molle non ricostruibile.

- Situazioni in cui il necessario abbassamento estensivo dell’arto provochi lesioni sulle strutture neurovascolari.

L’incidenza della fusione delle componenti ossee varia dal 56% al 100% [23]. I risultati in termini di risoluzione del dolore sono ottimali, mentre altrettanto non si può dire della motilità articolare, intrinsecamente limitata nell’operazione. L’artrodesi rappresenta quindi una valida opzione chirurgica in pazienti giovani con lesioni complesse, molto

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dolorose e difficilmente trattabili con altre tecniche; d’altro canto, la capacità di utilizzare il gomito risulta irrimediabilmente compromessa.

LE PROTESI DI PRIMO IMPIANTO

Le strategie ricostruttive dell’articolazione del gomito rappresentano un campo in continua evoluzione. Al suo interno, una parte importante è quella legata all’utilizzo delle protesi, ovvero degli strumenti in grado di riprodurre artificialmente le strutture articolari in modo da risolvere la patologia in essere e ripristinare una buona funzionalità.

I modelli protesici disponibili per effettuare la sostituzione del gomito sono suddivisi in “linked” e “unlinked”, sulla base della presenza o meno di un meccanismo vincolante (detto anche cerniera) fra la componente omerale e quella ulnare. Questa caratteristica è completamente diversa dal grado di “constraint” della protesi, che esprime invece una caratteristica biomeccanica dell’impianto; viene definito come la capacità dei capi articolari di resistere alla dislocazione ed è strettamente dipendente dalla geometria delle componenti protesiche e della loro interazione con gli stabilizzatori statici e dinamici del gomito. Il grado di constraint (minimally constrained, semi-constrained e constrained) è variabile tra i diversi impianti protesici e non è deducibile né dal tipo di giunto (unlinked o linked) nè dal loro grado di conformità, ossia, dalla somiglianza morfologica della protesi con l’anatomia normale dell’articolazione. Al contrario il grado di constraint può essere stabilito solo da complessi studi biomeccanici; è stato dimostrato, infatti, che alcuni tipi di impianti non vincolati hanno un grado di constraint maggiore di quelli vincolati [24].

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Le protesi totali di gomito di tipo linked attualmente disponibili sono tutte semi-constrained, ossia possiedono un vincolo relativamente lasso (sloppy-hinge) che consente minimi movimenti rotazionali (5-7°) ed in varo-valgo (circa 5-10°) tra la componente ulnare e quella omerale.

Negli ultimi anni è stato introdotto un giunto lasso che ha drasticamente modificato la sopravvivenza delle protesi totali di gomito, poiché ha consentito di ridurre l’entità dello stress all’interfaccia protesi-osso-cemento. Ciò ha permesso di diminuire il tasso di mobilizzazioni asettiche e delle fratture peri-protesiche che si osservava con le protesi a vincolo fisso (fixed-hinge). Un’altra recente variazione del design protesico che ha contribuito al prolungamento della sopravvivenza di questi impianti è stata l’introduzione della flangia anteriore, la quale ha permesso di contrastare al meglio le forze dirette posteriormente e gli stress torsionali riducendo il rischio di mobilizzazioni asettiche.

Le indicazioni principali all’intervento di protesi di gomito sono:

- Artropatie infiammatorie croniche in stato avanzato (artrite reumatoide, artrite psoriasica in stadi III e IV secondo la classificazione della Mayo Clinic);

- Artropatie degenerative post-traumatiche, specie in pazienti di età superiore ai 60 anni e con basse richieste funzionali;

- Fratture comminute dell’estremo distale dell’omero non sintetizzabili, in pazienti anziani o con pregressa artropatia, o con ridotta qualità dell’osso e bassa aspettativa di vita;

- Pseudoartrosi intra-articolare in pazienti anziani; - Artropatia emofilica;

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- Esiti invalidanti con perdita massiva di osso post-trauma o resezioni tumorali.

In queste situazioni il quadro clinico è dominato dal dolore, dalla rigidità e/o dalla instabilità articolare, a volte anche estremamente invalidante. L’impianto protesico permette di risolvere rapidamente tali problematiche, soprattutto nei pazienti artritici, i quali hanno non solo questo miglioramento eclatante della sintomatologia, ma hanno anche una sopravvivenza attesa della protesi superiore, poiché la natura sistemica e poliarticolare della malattia lo obbliga a delle minori richieste funzionali.

Sulla base della presenza di una buona riserva ossea, e di una struttura capsulo-ligamentosa sufficientemente integra, possiamo pensare di utilizzare indifferentemente una protesi vincolata o una non vincolata; se queste condizioni non sussistono è indicato l’uso esclusivo delle protesi linked. L’indicazione principale la troviamo nei pazienti con artrosi post-traumatica, dove la lesione è molto complessa e il quadro clinico è caratterizzato da dolore e instabilità più o meno gravi. L’osso è estremamente deteriorato, pertanto va rimossa la regione lesionata prima di inserire la protesi.

Tra le controindicazioni, assolute e relative troviamo invece;

- Infezioni attive o recenti; - Fratture esposte;

- Anchilosi non dolorosa in pazienti con basse richieste funzionali; - Paralisi dei muscoli del braccio (in particolare dei flessori); - Gravi deficit funzionali della mano;

- Attività lavorative manuali che prevedono il sollevamento ed il trasporto di pesi; - Pregressa artrodesi;

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- Scarsa affidabilità del paziente, che se non predisposto ad accettare la limitaione funzionale che l’intervento richiede, porterebbe ad un fallimento terapeutico certo.

Quest’ultimo punto non è una banalità. Una volta impiantata la protesi è fondamentale che il paziente segua un attento programma di fisioterapia e che sia pienamente cosciente e consapevole dei limiti funzionali che ha la sua articolazione una volta ricostruita. Maggiore sarà la sua compliance, minori saranno le possibilità di usura, fallimento meccanico e mobilizzazione asettica.

LE MEGAPROTESI

Le megaprotesi sono degli impianti particolari che differiscono dalle più semplici protesi di primo impianto. Ne esistono di due tipi: le cosiddette “custom made”, ovvero quelle realizzate su misura delle strutture ossee e articolari del paziente, e quelle dette modulari.

Per quanto riguarda le prime, si capisce come queste abbiano un ottimo fit, ma il problema principale risiede nel fatto che sul tavolo operatorio, se qualcosa andasse rivisto, non sono più utilizzabili, presentando quindi scarsa flessibilità di utilizzo. Le protesi modulari invece sono molto più semplici da usare e concedono molta più flessibilità intra-operatoria.

Sia le custom made che le modulari sono estremamente resistenti, tanto che in letteratura si registrano pochissimi casi di frattura. Da un punto di vista meccanico esse possiedono un giunto a cerniera con un asse cilindrico trasverso e dei ganci circolari di fissazione che conferiscono stabilità all’intera articolazione. Negli ultimi anni è stata

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anche aggiunta anteriormente una placca in grado di aumentare la resistenza alle forze rotazionali e quindi di limitare quella che è una delle principali complicanze che si verificano anche negli impianti di protesi convenzionali, ovvero l’allentamento dello stelo. La placca viene associata a una vite uni o bi-corticale che attraversa lo stelo riducendo i micromovimenti a cui vengono sottoposte le protesi, soprattutto se non cementate; nel caso di vite bi-corticale però il foro deve distare almeno 5 cm dal collo dello stelo per impedire la frattura dell’impianto.

In genere gli elementi protesici intercalari (di diverse lunghezze) sono collegati mediante un meccanismo a cono con fissaggio con vite trasversale (assiale o periferica) o con una configurazione tipo “step cut” con due viti di compressione trasversali. Bisogna prestare molta attenzione a questo aspetto in quanto, negli arti superiori, la protesi viene sottoposta a forze di trazione più che di compressione come avviene negli arti inferiori, e che giustifica l’alto rischio di disassemblaggio protesico. Lo stelo ha una sezione cilindrica o esagonale con una superficie porosa con configurazione a stella per la fissazione biologica, o con una superficie liscia con scanalature per la versione da cementare. Il disegno esagonale o a stella dello stelo hanno una buona resistenza alle forze di torsione, ma hanno scarsa resistenza a quelle di trazione che viene fornita solo per attrito tra le superfici.

Il nucleo dei pezzi intercalari è spesso scavato da numerosi buchi sulla superficie, non solo per ridurre il peso ma anche per permettere l’ancoraggio dei tessuti molli usando dei legamenti artificiali [25]. Spesso viene anche inserita una vite assiale per unire la componente intercalare con quella articolare.

Una delle maggiori preoccupazioni resta la funzione muscolare, soprattutto se viene resecato tutto il gruppo flessorio; la residua componente muscolare epicondiloidea e epitrocleare è difficilmente suturabile alla superficie protesica e non può sostituire a

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dovere il bicipite brachiale e il brachioradiale. Un tentativo di migliorare questo aspetto è stato fatto con l’utilizzo di una membrana di rivestimento della superficie protesica, detto “trevira tube”, che ha come complicanza associata un incremento delle infezioni post-operatorie [25].

Le megaprotesi rappresentano ad oggi un’ottima possibilità di ricostruzione nelle gravi perdite ossee dell’estremità distale dell’omero, causate da precedenti interventi di resezione tumorale o dal fallimento di altre strategie ricostruttive [26]. Esse vengono anche utilizzate nel trattamento di patologie come la pseudoartrosi, gli esiti di osteomielite, e negli esiti di fratture. Fintanto che la lesione comporta la resezione delle zone 1-2-3 di Enneking [27] può essere usata anche una protesi convenzionale, ma se la lesione è più estesa e la resezione ossea è massiva è più indicato l’utilizzo di un megaimpianto, modulare o custom made.

Le megaprotesi, così come le protesi convenzionali, permettono di risolvere definitivamente il problema del dolore in questi pazienti, e garantiscono anche una buona mobilità. I risultati funzionali raggiunti mostrano una flessione di 105° e un ritardo estensorio di circa 10-35°. La sopravvivenza a due anni di questi impianti si attesta fra il 62-75%. Dopo gli allentamenti asettici (20%), le infezioni (15%) rappresentano le principali ragioni del fallimento ricostruttivo [25].

LE PROTESI COMPOSITE

Sono impianti che prevedono la combinazione di protesi di primo impianto e innesti ossei; l’uso di una protesi convenzionale al posto di una megaprotesi riduce in questo caso i costi [26].

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