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La giurisdizione

4.1 La prudenza di dar leggi a’ popoli

Gran parte dell’età moderna fu percorsa dall’utopica volontà di creare una nuova società sotto la guida del potere monarchico assoluto, in cui il progetto legislativo par- tiva dall’assioma che scopus legis est aut ut eum quem punit emendet aut poena eius caeteros meliores reddet aut sublatis malis caeteri securiores vivant. Ai principi di piccoli o grandi stati si dedicarono trattati che guidassero le loro azioni politiche con esempi ed ammo- nimenti ripresi dai testi antichi passati indenni alla dura cernita della censura tridenti- na, così si scriveva che Collocato il Prencipe nella successione, e data di sé con le prime attio- ni quella più efficace opinione, che si può, di Religioso, e di prudente, accioché tal fama non svanisca, ma vada crescendo fino al termine, che gli bisogni, per gettare fondamenti saldi, e sta- bili, cominciare giudiziosamente à maneggiare quelli strumenti del regnare de’ quali il primo è l’intelligenza di penetrare la natura de’sudditi.

Dall’atteggiamento del principe, definito “intelligentia”, nasce il secondo capo, che è la prudenza di dar leggi convenienti a’ popoli d’un paese particolare […] non potrà giammai un Prencipe dar leggi convenienti ad uno Stato, se prima egli non hà intiera notizia della particolar natura, e di quelli affetti, che frà quelle genti sogliono essere più intenti, e più vivaci166.

166 I brani sono tratti da L. RICCI, Thesoro politico, parte II, La Compagnia nova della Stampa, Bolo-

gna, 1612, pp. 323-324. L’opera è dedicata al principe di Mantova e del Monferrato Francesco Gonzaga ed in essa si contengono Trattati, Discorsi, Relationi, Ragguagli, Instruttioni, di molta importanza per li ma-

neggi, interessi, pretensioni, dipendenze, e disegni de’Principi. Si indicano anche i fruitori ideali di un tale ti- po di opera molto aggradevole à gli elevati, e nobilissimi ingegni, che si compiacciono di materia di Stato; et anco

è molto utile à gli stessi Principi, à Secretari, Ambasciatori, et à tutti quelli, che ne gli affari de’Principi

L’ordinaria funzione giurisdizionale di primo grado era stata già da tempo rico- nosciuta al feudatario ed, in età carolina, si affermò sempre più frequentemente l’attribuzione anche di quella per le secundae causae, allargando significativamente il potere signorile all’interno dei feudi.

Nel concreto il barone risultava l’ufficiale regio possessore della titolarità della giurisdizione, mentre gli officiales, ai quali delegava i compiti giurisdizionali della Cor- te, erano investiti dell’esercizio della giustizia nei feudi loro affidati, infatti Barones nul- lam possunt exercere jurisdictionem in vassallos per se ipsos, sed per suos Officiales tantum.

Appare evidente la difficoltà di sfuggire alle maglie della giustizia baronale qua- lora il feudatario avesse ricevuto dal sovrano la giurisdizione delle prime e delle se- conde cause, cosicché non scandalizza l’amara constatazione di Tommaso Grammati- co, giudice della Gran Corte della Vicaria, Barones sunt sicut Reges in terris suis, maxime illi, qui habent etiam secundas causas, et Rex ibi non habet nisi iurisdicionem in habitu: et fa- ciunt quicquid volunt167.

Ma una vera e propria piaga nell’amministrazione della giustizia era la venalità degli uffici pubblici che permetteva la vendita degli incarichi al miglior offerente, il qua- le, a sua volta, poteva affittare l’ufficio a figure subalterne che incameravano somme di denaro maggiorate da abusi ingiustificati, esercitando vere e proprie estorsioni favorite dalla mancanza di ordini relativi alla conservazione della documentazione processua- le, almeno fino ai primi decenni del ‘600.

L’introduzione di uomini provenienti da classi sociali non nobili, ma specializzati nelle funzioni amministrative richieste dai complessi apparati burocratici dello stato moderno, favorì la loro promozione sociale nella comunità e garantì larghi strati di consenso intorno all’azione politica della monarchia, determinando la mediazione buro- cratica all’interno dello stato moderno168.

La venalità degli uffici s’intrecciava con il progetto politico della Monarchia spa- gnola che, per ampliare l’organico e le funzioni dell’amministrazione, ricorse a tale

167 Il riferimento è presente nel testo di A. CERNIGLIARO, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli (1505- 1557), Jovene, Napoli, 1983, vol. II, pag. 484, nota 253.

168 A. MUSI, Stato moderno e mediazione burocratica, in “Archivio Storico Italiano, CXLIV, 1986, pp. 75-

pratica e, se essa non garantiva una fonte d’entrata praticamente continua, tuttavia creava una fitta rete di interessi fortemente legati alle fortune dell’amministrazione pubblica e, quin- di, dal punto di vista politico, al consolidamento del potere centrale169.

Il fulcro del sistema punitivo tendeva ad incentrarsi sull’arbitrium del giudice, co- sicché sarebbe risultato molto più facile ch’egli si piegasse al volere del barone e, a li- vello superiore, si verificava il paradosso che nelle Prammatiche la pena edittale era commutabile con altre ad arbitrio del viceré, rendendo arbitraria la pena per la quale esisteva una codificazione specifica170.

“Arbitrium” e “disparilitas in tractatione” costituivano le norme che regolavano la giustizia dai più bassi ai più alti gradi dei tribunali del Regno napoletano e le reti di re- lazioni nelle alte sfere del potere facevano sì che i nobili patteggiassero con i giudici la pena e, sborsando denaro, riuscissero ad ottenere giudizi favorevoli, annullando le ac- cuse o mitigando le pene.

Da tempo i comuni meridionali avevano avviato il processo di emancipazione politico-istituzionale che li portò all’elaborazione di capitoli e alla codificazione delle modalità di elezione e funzionamento dei parlamenti, espressione di una democrazia diretta che non riuscirà a tenere a freno la progressiva chiusura oligarchica e a matura- re processi operativi idonei a garantire gli interessi della comunità. In tal senso le capi- tolazioni stipulate in precedenza furono un punto di vantaggio per i vassalli di quelle terre che le possedevano e le esibirono al feudatario.

Ma gli antichi testi subirono un’ulteriore revisione da parte del signore che prete- se una nuova forma pattizia con i vassalli, ponendo sempre più attenzione all’allargamento di ulteriori spazi per la riscossione di nuovi e più pesanti proventi su riserve, fino a pochi anni prima, demaniali171.

169 La tesi è formulata da G. GALASSO, Alla periferia dell’impero. Il regno di Napoli nel periodo spagnolo, (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino, 1994. Mentre sullo studio della burocrazia che pervade ogni aspetto della vita economico-sociale del territorio in età moderna cfr. A. MUSI, Stato e stratificazioni sociali nel Re-

gno di Napoli, in “Clio”, 29, 1993, pp. 191-211.

170 P. L. ROVITO, Prova legale ed indizi, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, CII, 1984,

pp.157-187.

171 Cfr. M. A. VISCEGLIA, Comunità, signori feudali e officiales in Terra d’Otranto fra XVI e XVII secolo, in

Se nel corso degli anni lo spirito civico primevo dell’universitas civium venne len- tamente scemando, per l’imposizione di una struttura amministrativa che esercitò dall’alto la pressione fiscale sulla popolazione attraverso il filtro del baronaggio, tutta- via, nel Mezzogiorno il comune non si sviluppò in antagonismo con la monarchia.

Il sovrano costituì il contrappeso al vero potere forte della società meridionale, il ba- ronaggio feudale, per il quale il comune è il terreno di caccia in cui estendere la giurisdizione feudale, influendo sul controllo delle principali cariche elettive, occupando spazi rilevanti di po- tere economico, sottraendo di fatto competenze di natura demaniale, ecc.172.

Le note introduttive riportate servono ad inserire nel contesto storico-politico di fine Cinquecento i documenti d’archivio ritrovati nel fondo dei principi di Torella, per un’indagine mirata sugli aspetti del buongoverno nei feudi che testimoniano la ferma volontà del signore di inserirsi all’interno dei diversi contesti territoriali, cosciente dell’importanza delle relazioni con i vassalli, con i detentori del potere locale e centrale e con la corona, al fine di salvaguardare lo sfruttamento delle risorse umane e materiali dei feudi e ricercare il consenso fra i vassalli.

Il principe sarà tamquam Pater non tamquam lupus per gli uomini posti sotto la sua signoria, secondo l’ideale paternalistico della conservazione degli antichi privilegi, ma anche della ricerca di risposte concrete alle necessità delle comunità che vanno lette nell’ambito del periodo storico in cui s’inseriscono, altrimenti si rischia di cadere nell’errore di condensare l’età vicereale spagnola nel giudizio lapidario del Colletta: così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI […] Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattoli- co a Carlo II; e travagliarono in vario modo e principi e regno trenta romani pontefici, da Ales- sandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de’quali alcuno buono, molti tristi, pa- recchi pessimi173.

172 A. MUSI, Mercato S. Severino…, cit., pp. 109-110.