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II. 1.5.7.2 Hersent e Richeut in due chansons

II.2 UNA BRANCHE D’AUTORE: RENART LE NOIR (BR XIII)

II.2.3. Seconda sezione della branche (vv 846-2366)

II.2.3.1. Quête de nourriture

Raggiunta una prateria in cerca di rifugio, Renart trova un covone di fieno su cui riposarsi, quindi prega «deu et saint Germein / Que il li envoit a manger» (vv. 858-859) e subito «venir voit / Une cornaille» (vv. 862-863).

Il passaggio di Renart dalla assoluta animalità allo zoomorfismo è però graduale: si ripropone la classica trama della ricerca di cibo, ma ancora Renart non parla, ovvero non inganna la sua preda con lusinghe e retorica (lo farà con un villano più avanti), bensì, per farle «grant engin» (v. 867), ricorre nuovamente allo stratagemma tipicamente volpino della finta morte (vv. 868-871), pratica altrove adottata solo con degli uomini (ad esempio con i carrettieri di anguille della branche III)154:

Lors se laisse chaoir sovin Le dos desoz, les piez desus, La langue traite, n’i ot plus:

Iloc se gisoit estendu (vv. 868-871)

[Allora si lascia cadere supino / La schiena sotto, i piedi in alto, / La lingua di fuori, e niente più: / Lì si mise a giacere disteso].

L’animale, dal canto suo, riconosce subito la volpe come Renart («j’ai trové ci Renart mort» v. 876), ma l’azione si consuma rapidamente, senza scambi dialogici, e in cinque versi Renart divora l’anonima cornacchia:

Renart l’a saisi par le col. Con il la tint, si en fu lies, De lui a ses gernons torchez.

153 Renart prega Dio di trovare del cibo e si trova davanti «une fosse / Qui molt estoit parfonde et grant» (vv. 264-265),

che prima gli sembra «de ronces pleine» (v. 271), poi ricca di un’enorme quantità di more (v. 275-277), anche se gli resteranno precluse. In seguito, incontrato Roonel, medita di appenderlo a un albero e subito trova una corda, dimenticata da un contadino (vv. 367-372). Successivamente, Renart è alla ricerca di un’erba di sua conoscenza per guarire la propria ferita, e chiede aiuto a Dio per trovarla, dunque oltrepassa un sentiero e guarda in un fosso, prontamente trovando l’erba che cercava. Poco oltre, andandosene «en joiant» nella foresta, s’imbatte casualmente in «un cirisier trop bien cargié» (vv. 767-769), e così via.

154 Le uniche altre circostanze in cui Renart si fa credere morto dagli animali sono in combattimento: in questa stessa

branche, in cui per concludere lo scontro con Roonel «conme mors s’est aparelliez» (v. 2266), e nella sequenza della triplice morte della branche XVII, ma in questi casi l’astuzia non è finalizzata a catturare una preda.

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Si en a fait ses joes bruire,

Einz ne tant ne quant n’en mist cuire (vv. 884-888)

[Renart l’ha afferrata per il collo. / Quando l’ebbe presa – ne fu lieto – / Si leccò i baffi. / Quindi, ne ha fatto scrocchiare le sue mandibole, / Senza neanche cucinarla].

Risolto l’approvvigionamento, si conclude anche questo segmento narrativo, con Renart che si addormenta fino all’indomani (v. 895) sul mucchio di fieno su cui si era installato.

La completa staticità di questa scena parentetica, in cui Renart neanche va propriamente in quête de

nourriture, ma lascia ch’essa venga a lui (appunto simulando un’immobilità di morte), è un’altra

particolarità che contribuisce a mantenere l’episodio ancora relativamente distante dalla “normale” struttura delle branches, insieme alla mancata caratterizzazione del volatile, all’assenza di battute e alla velocità con cui il tutto è liquidato.

Per i motivi suddetti, dietro all’inganno che Renart ordisce contro la cornacchia non c’è, stavolta, alcun particolare orientamento ideologico, ma persistono ancora dinamiche fortemente animalesche, di predatore e preda, e la stessa cornacchia si avvicina più a un animale-figurante, come sono i capponi occasionalmente divorati da Renart, che a un personaggio dalla fisionomia definita, come i baroni della corte di Noble, nonostante sia contro questi ultimi che Renart notoriamente adoperi la sua ruse, e non contro le prede convenzionali, che si limita a catturare con un’aggressione diretta e sempre vittoriosa.

Infatti, la scena non fa altro che replicare il modello del comportamento volpino descritto dal Fisiologo, secondo cui la volpe, affamata,

proicit se in terram, et volvit se super eam tamquam mortua; et, attrahens intra se flatus suos, ita se inflat ut penitus non respiret. Aves vero videntes eam sic inflatam et quasi cruentatam iacentem, et linguam eius aperto ore foris eiectam, putant eam esse mortuam; et descendunt et sedent super eam: illa vero rapit eas et devorat (Physiologus latinus, versio B, XV, leggibile, con le altre versioni e le relative traduzioni, in Zambon 2018, qui p. 234)

[si getta per terra e vi si rovescia come morta; e, trattenendo il fiato dentro di sé, si gonfia tanto che quasi non respira più. Gli uccelli, vedendola giacere così gonfia come macchiata di sangue, e vedendo la sua lingua gettata fuori dalla bocca aperta, la credono morta e scendono e vi si posano sopra. Quella li ghermisce e li divora] (traduzione da Zambon 2018, p. 235).

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La cattura del volatile, comunque, altera lievemente quella che è una puntuale emulazione di un’altra branche renardiana, la VII (La Confession Renart), presumibile fonte d’ispirazione dell’intera sequenza.

La struttura della branche VII è replicata quasi in toto, con Renart che, depredata un’abbazia, fugge «par un grant bos» (v. 199) fino a raggiungere «un mulon de fein ahuné» (v. 214) su cui può riposarsi, salvo poi scoprire, al suo risveglio, di trovarsi bloccato a causa dell’esondazione di un fiume vicino. Riesce comunque a procurarsi una preda, il nibbio Hubert, che inganna non fingendosi morto, ma convincendolo a fargli da confessore prima della morte imminente, per poi divorarlo.

Come Renart «a ses gernons torchiez» per la cornacchia della branche XIII (v. 886), così non con Hubert sussistono dei parallelismi testuali, ma con gli animali di secondo grado che egli “preleva” dai recinti e di cui si descrive sovente il divoramento: nella stessa branche VII, la volpe premedita che «ferai mes gernons bruire» (v. 292), quando catturerà un’oca di proprietà del contadino Gonberz.

La variante della cattura tramite la mort feinte è comunque desumibile anch’essa da un’altra

branche, la XVII, nella quale, però, lo stratagemma non è concepito da Renart al fine di nutrirsi, ma

per sottrarsi a un duello mortale con Chantecler: creduto morto, è avvicinato dalla cornacchia Bruna e dal corvo Rohart, che vorrebbero approfittarne, ma mentre quest’ultimo tenta di beccarlo, Renart lo azzanna, non divorandolo ma sottraendogli una zampa (branche XVII, vv. 1422-1450).

Il motivo dell’isolamento sul covone, comune alla branche VII, è invece sviluppato nel seguito della branche XIII come punto di partenza per la nuova vicenda, che scaturisce dalla difficile situazione in cui si trova Renart appena sveglio, cioè completamente circondato dall’acqua di una piena: «si vit plein / Le pre d’eve entor le muilon» (vv. 896-867), e dalla quale si salverà ingannando un villano di passaggio. È qui che finalmente Renart recupera appieno la propria identità di trickster, non a caso insieme alla parola, e il suo lamento viene riportato in forma diretta:

“Ha dex” fait Renart, “que feron? Con par est cele eve creüe! Ainz que ele soit descreüe,

Serai ci (je cuit) morz de fein” (vv. 898-901)

[“Ah, Dio”, dice Renart, “che farò? / Quanto si è alzata la marea! / Prima che sarà riscesa, / Qui sarò morto di fame, credo].

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A riprova di una sottile coincidenza tra il recupero della parola e la presa di coscienza della propria infelice condizione, si noti che una situazione in tutto analoga si verifica nella branche XXV (Pinçart le héron):

“Pereceus, malvais, plains d’outraige! Ja me suet on tenir por saige:

Mais onques voir n’oi point de sens, Ne ne fis de nul biens porpens. […]

Près sui de mort, or le sai bien” (vv. 187-195 etc. fino al v. 206)

[“Pigro, malvagio, tracotante! / Giammai mi si può considerare saggio: / ma in verità non ho mai avuto un briciolo di buon senso, / Ne ho mai pensato a qualcosa di buono. / … / Sono quasi morto, ora lo so bene”],

con un lamento dai toni più autocritici che può ricordare quello del famoso trickster winnebago: «È per cose come questa che la gente mi chiama Wakdjũnkaga, il buffone. E ha ragione» (in Jung/Kerény/Radin 2006, pp. 41-42).

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