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Quadro normativo di riferimento e caratteristiche dell’interpello disapplicativo

Disposizioni cardine

La disciplina prevista in ordine alle Control Foreign Companies (CFC), contenuta negli artt. 167 e 168 del TUIR, rappresenta un’estensione della normativa sulla residenza di cui all’art. 73 del TUIR, in quanto, oltre a riporre le proprie fondamenta sul concetto di residenza ai fini fiscali, è frutto di un’elaborazione volta a rafforzare il comparto a carattere antielusivo dell’ordinamento tributario italiano. Infatti, si tratta, in virtù di tali disposizioni, di combattere forme di erosione di basi imponibili connesse alla localizzazione di attività e di reddito in Paesi a fiscalità privilegiata e, quindi, impedire la canalizzazione del c.d. passive income in zone franche dal prelievo fiscale. Si rende necessario, dunque, riportare quanto stabilito dall’art. 167, comma 1 in materia di imprese estere controllate: se un soggetto residente in Italia detiene,

direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, il controllo di un’impresa, di una società o di altro ente, residente o localizzato in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati, a decorrere dalla chiusura dell’esercizio o del periodo di gestione del soggetto estero partecipato, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi detenute. Tali disposizioni si applicano anche per le partecipazioni in soggetti non residenti

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relativamente ai redditi derivanti da loro stabili organizzazioni situate in Stati o territori diversi da quelli di cui al presente decreto. In questo modo si realizza

una presunzione legale diretta ad attrarre a tassazione i redditi esterovestiti, determinando, così, un’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente in merito al conseguimento illegittimo di risparmi d’imposta. Tali redditi sono assoggettati a tassazione separato con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente e, comunque, non inferiore al 27 per cento. Dall’imposta così determinata sono ammesse in detrazione, ai sensi dell’art. 165 del TUIR, le imposte pagate all’estero a titolo definitivo.

Tuttavia, il comma 5 restringe il campo di applicazione della disposizione sopra descritta ai redditi delle società o altri enti non residenti per i quali la controllante non è riuscita a provare all’Amministrazione finanziaria, alternativamente, che:

a) esercitano un’effettiva attività industriale o commerciale, in via principale, nel mercato dello stato o territorio di insediamento; b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i suddetti

redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata.

La dimostrazione deve avvenire preventivamente mediante interpello obbligatorio ai sensi dell’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente1. L’Agenzia delle Entrate ha definito la locuzione “effettiva attività”2 come radicamento della società partecipata nel Paese o territorio estero di insediamento attraverso la disponibilità in loco di una struttura organizzativa dotata di autonomia gestionale ed idonea allo svolgimento dell’attività commerciale dichiarata. Per quanto riguarda l’istanza di interpello, l’obbligo di presentazione risponde all’esigenza di consentire all’Amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive. L’obbligatorietà dell’istanza non muta,

1 Legge 27 luglio 2000, n. 212. 2 Circolare n. 51/E del 6 ottobre 2010.

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tuttavia, il carattere non vincolante della risposta, per la quale l’Amministrazione ha 120 giorni di tempo. In relazione all’omessa proposizione di istanza di interpello, l’Agenzia delle Entrate, in occasione della Circolare 32/E/2010, ha ritenuto superata una precedente indicazione, contenuta nella Circolare 7/E/2009, con riferimento specifico alle istanze di interpello disapplicativo della disciplina delle società non operative. In precedenza si sosteneva che in assenza di

presentazione dell’istanza, il ricorso è inammissibile in quanto l’istanza non può essere proposta per la prima volta in sede contenziosa col ricorso avverso l’avviso di accertamento e di irrogazione delle sanzioni amministrative.

Diversamente, è ora opinione che la mancata presentazione dell’istanza di interpello non determinerebbe più l’inammissibilità del ricorso avverso l’avviso di accertamento, rimanendo aperta per il contribuente la possibilità di far valere in sede contenziosa le ragioni che lo hanno spinto a disapplicare autonomamente le disposizioni normative. A questo riguardo, risulta quanto mai auspicabile un chiarimento volto a confermare che le previsioni richiamate esplicitamente dalla Circolare 32/E/2010 con riferimento alle società non operative possano essere estese anche all’ambito CFC.

In ogni caso, l’omessa proposizione di interpello produce conseguenze rilevanti dal punto di vista sanzionatorio, così riassumibili:

in linea di principio, verrà irrogata la sanzione prevista dall’art. 11, comma 1, lett. a) del D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 per omissione di comunicazione all’Amministrazione finanziaria, nella misura che va da euro 258 ad euro 2.065;

qualora, in fase di accertamento, l’Amministrazione rilevi, sulla base della documentazione in possesso del contribuente e del contraddittorio con quest’ultimo, l’insussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione della disciplina, gli uffici applicheranno le sanzioni nella misura massima prevista dalla legge. Le maggiori imposte accertate, pertanto, potranno essere sottoposte a sanzione nella misura del 200%, anziché del 100%

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solitamente irrogato dagli Uffici in assenza di ulteriori condizioni aggravanti del comportamento del contribuente.

Il passive income test attrae i redditi in Italia

Proseguendo nella disamina dell’art. 167, si osserva che al comma 5-bis è prevista una deroga, in base alla quale, pur sussistendo il requisito di effettiva attività industriale o commerciale, si applica comunque la previsione antielusiva di cui al comma 1 qualora i proventi della società o altro ente non residente provengano per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente.

Anche in tale fattispecie, secondo quanto disposto nella Circolare n. 51/E/2010, il contribuente potrà richiedere la disapplicazione della normativa CFC, dimostrando la mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione di utili dall’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata. La medesima Circolare ha ulteriormente specificato che perdono di validità le disapplicazioni della disciplina CFC precedentemente riconosciute dall’Agenzia delle Entrate per effetto della dimostrazione dell’esimente di cui alla lett. a) del comma 5 dell’art. 167, data la diversità dei presupposti di diritto sui quali si fondano (passaggio dal requisito dell’effettivo svolgimento dell’attività al requisito dell’effettivo radicamento nel mercato di insediamento). Nondimeno, dovranno essere ripresentati anche gli interpelli relativi alla esimente di cui alla lett. b) del comma 5 che hanno avuto esito positivo.

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L’estensione della disciplina CFC alle controllate localizzate in Paesi

white list

La disciplina in esame è corredata da una ulteriore previsione che incrementa le possibilità che il reddito generato dalle controllate sia attratto in Italia. Il comma 8-bis, infatti, bersaglia le società e gli enti che sono localizzati in Paesi “non black list”, statuendo che il reddito da esse originato sia tassato per trasparenza in capo al soggetto controllante qualora si verifichino congiuntamente le seguenti condizioni:

1) sono assoggettate a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella cui sarebbero stati soggette se residenti in Italia;

2) hanno conseguito proventi derivanti per più del 50% (c.d. passive

income test):

- dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie;

- dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica;

- dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari.

La tassazione in questione può tuttavia, ai sensi del comma 8-ter, essere disapplicata se il soggetto residente dimostra che l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

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Le peculiarità del tax rate test

Il tax rate test richiede di confrontare la tassazione effettiva della società estera con la tassazione virtuale cui la stessa società sarebbe soggetta se fosse residente in Italia. A tal fine, sulla base dei chiarimenti forniti dalla circolare n. 51/E del 2010, occorre procedere come segue:

 il tax rate estero è determinato rapportando le imposte correnti sul reddito pagate dalla società all’utile ante imposte emergente dal bilancio, in modo da quantificare il carico effettivo di imposizione;  il tax rate domestico è calcolato rapportando all’utile ante imposte

le imposte “virtuali” italiane, corrispondenti al reddito imponibile della società estera rideterminato secondo le disposizioni fiscali italiane;

 se il tax rate italiano è più del doppio del tax rate estero, il test si considera superato.

Nella medesima circolare, l’Agenzia delle Entrate, riguardo alle imposte anticipate e differite, ha giustificato la loro esclusione dal calcolo suddetto asserendo che, nonostante concorrano alla determinazione dell’onere fiscale complessivo di competenza di un esercizio, non incidono sulla quantificazione dell’importo da versarsi, a titolo di imposte sul reddito, per l’esercizio stesso; ha, inoltre, stabilito che eventuali effetti distorsivi derivanti dalla mancata considerazione di rilevanti importi di imposte anticipate e/o differite andranno valutati in sede di dimostrazione della non artificiosità della costruzione. Tale soluzione non appare soddisfacente sotto il profilo del diritto comunitario in relazione al principio di proporzionalità, poiché addossa al contribuente un onere amministrativo evitabile consistente nella rilevazione di dette distorsioni nell’istanza di interpello.

Sempre con riferimento alla quantificazione della tassazione effettiva estera, è di particolare importanza verificare se le perdite fiscali realizzate dal

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soggetto controllato estero siano rilevanti in questo senso e, in caso affermativo, individuare le regole da seguire per il loro riporto. A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate, nella già citata Circolare n. 51/E/2010, ha precisato che le perdite fiscali sono utilizzate in compensazione secondo le regole vigenti nello Stato o territorio di localizzazione del soggetto controllato estero. Ciò comporta che potranno verificarsi disarmonie nella determinazione delle basi imponibili su cui calcolare la tassazione effettiva estera e la tassazione teorica domestica. Al riguardo, autorevole dottrina3 ha affermato che, qualora la differenza tra le regole comporti l’applicazione della normativa CFC, dovrebbe essere possibile chiedere la disapplicazione di tale normativa:

 presentando l’istanza di interpello di cui al comma 8-ter dell’art. 167 del TUIR;

 dimostrando in tale sede la non elusività della partecipazione nel soggetto estero controllato.

Ulteriore fattispecie legata al tema delle perdite è quella presa in considerazione dalla Circolare n. 23/E/20114. L’Agenzia delle Entrate analizza il caso in cui la società estera chiude il bilancio in perdita, ma le imposte sono comunque dovute per effetto di variazioni fiscali in aumento: dato che le imposte vengono rapportate alla perdita d’esercizio, il tax rate estero ed italiano assumono un valore negativo. Ecco che il confronto, secondo la Circolare, deve essere effettuato tra le imposte virtualmente dovute in Italia e le imposte effettivamente pagate nello Stato estero di localizzazione, e il test considera superato se le prime sono più del doppio delle seconde.

In riferimento alla periodicità, il confronto tra la tassazione teorica domestica e la tassazione effettiva estera deve essere effettuato per ogni periodo di imposta e, ai fini di eventuali controlli, il contribuente deve conservare la documentazione da cui risulta l’esito della verifica. Quest’ultimo onere può risultare particolarmente gravoso, specialmente per i gruppi multinazionali di

3 M. PIAZZA, cit., 3443.

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medie e grandi dimensioni. Nei casi di maggiori complessità, quindi, potrebbe essere preferibile applicare la tassazione per trasparenza, rinunciando ad effettuare gli adempimenti per il tax rate test. La valutazioni del contribuente devono però tenere conto di quanto precisato nella citata circolare n. 23/E/2011, in base alla quale la normativa CFC non può essere basata su valutazioni di convenienza del contribuente residente, ma su circostanze di fatto attinenti all’artificiosità o meno della struttura estera. Di conseguenza, il soggetto controllante italiano, se applica la tassazione per trasparenza in un periodo d’imposta, è obbligato a mantenere tale comportamento anche nei periodi d’imposta successivi, a prescindere dal fatto che il passive income test e il tax

rate test vengano superati o meno. Per disapplicare la tassazione per trasparenza,

secondo l’Agenzia, è necessario attivare la procedura di interpello e dimostrare la non artificiosità della struttura estera.

Il calcolo del tax rate italiano deve essere effettuato partendo dall’utile (o perdita) risultante dal bilancio di esercizio della società estera, redatto secondo la corretta applicazione dei principi contabili adottati dall’impresa estera. La circolare n. 23/E/2011, al paragrafo 2.5, esamina i casi in cui detti i principi contabili sono diversi da quelli applicati dal soggetto controllante italiano, fissando le seguenti direttive:

a) se il bilancio della società estera è redatto secondo i criteri IAS/IFRS, il reddito virtualmente imponibile in Italia deve essere determinato secondo le disposizioni fiscali italiane previste per i soggetti IAS/IFRS adopter;

b) se invece il bilancio della società estera è redatto secondo diversi principi contabili, il reddito virtualmente imponibile deve essere determinato secondo le disposizioni fiscali italiane previste per i soggetti non IAS/IFRS adopter.

Ultimo argomento da esaminare connesso al tax rate test è quello che concerne i valori di partenza da un punto di vista fiscale, determinati nella

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Circolare 51/E/20105 la quale riprende le disposizioni di cui all’art. 2, comma 2 del D.M. n. 429/2001, con l’effetto che:

i valori di partenza sono quelli risultanti dal bilancio relativo all’esercizio anteriore a quello a cui si applica la normativa CFC (i.e. bilancio dell’esercizio 2009) a condizione che gli stessi siano conformi a quelli derivanti dall’applicazione dei criteri contabili adottati nei precedenti esercizi o ne venga attestata la congruità da uno o più soggetti in possesso dei requisiti previsti per l’iscrizione al Registro dei revisori contabili, di cui all’art. 11 del D.lgs. 27 gennaio 2002, n. 88;

gli ammortamenti e i fondi per rischi ed oneri risultanti dal predetto bilancio si considerano dedotti anche se diversi da quelli ammessi dal TUIR, ovvero se eccedenti i limiti di deducibilità ivi previsti. La Circolare n. 23/E/2011, al paragrafo 7, contiene un importante precisazione sulla individuazione dei valori fiscali negli esercizi successivi a quello di prima applicazione della normativa CFC. Viene preso in considerazione il caso di un contribuente che acquisisce il controllo di una “passive income

company” nel 2012; nel 2014 la società supera anche il tax rate test e il soggetto

controllante italiano decide di applicare la tassazione per trasparenza. La Circolare fissa i seguente criteri:

 a partire dall’esercizio 2012 il soggetto italiano calcola il tax rate domestico assumendo come valori di partenza fiscali quelli risultanti dal bilancio dell’esercizio 2011;

 sulla base di questi valori, negli esercizi 2012 e 2013 viene calcolato il tax rate domestico, apportando le necessarie variazioni in aumento e in diminuzione;

 nel 2014 ai fini della tassazione per trasparenza, il reddito viene determinato sulla base dei valori fiscali utilizzati per il calcolo del

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tax rate domestico (e non sui valori di bilancio dell’esercizio

precedente);

 nel caso in cui venga riconosciuta, in sede di interpello, la disapplicazione del regime CFC i valori fiscali vengono azzerati;  se mutano i presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento della

disapplicazione del regime CFC, è necessario quantificare nuovamente il tax rate domestico prendendo in considerazione i valori del bilancio relativo all’esercizio anteriore a quello in cui mutano i presupposti.

La Circolare applica il principio della continuità dei valori fiscali, che consente il riporto delle perdite virtuali domestiche. Il calcolo del tax rate domestico assume come valori fiscali i valori del bilancio dell’esercizio anteriore a quello di prima applicazione della normativa CFC, e valori così individuati si trasmettono di esercizio in esercizio ai fini del calcolo dei tax rate successivi. La continuità dei valori fiscali può interrompersi quando, in sede di interpello, viene riconosciuta la disapplicazione del regime CFC e riparte, con un nuovo bilancio di riferimento, quando mutano i presupposti posti a fondamento dell’interpello disapplicativo. La stessa Circolare riconosce però che il principio della continuità dei valori fiscali può essere derogato per ragioni di semplificazione e consente al contribuente di usare, come valori di partenza fiscali, i valori risultanti dal bilancio relativo all’esercizio precedente. In questo caso, tuttavia, viene meno il presupposto per la riportabilità delle perdite fiscali.

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CFC rules: trattamento delle holding e delle stabili organizzazioni

Holding estere

Per quanto concerne il caso specifico delle holding estere, la Circolare n. 51/E/2010 ha precisato che per le holding in possesso esclusivamente di partecipazioni dotate dei requisiti previsti per il regime di participation

exemption di cui all’art. 87 del TUIR, è riconosciuta, in linea di principio, la

sostanziale equivalenza tra l’esenzione totale e l’indeducibilità dei costi, da un lato, e la tassazione dell’1,375% (27,5% di aliquota IRES applicata al 5% imponibile delle plusvalenze) a fronte della deducibilità dei costi, dall’altro. Nell’ambito della stessa Circolare, si delucida inoltre che, qualora si intenda disapplicare la disciplina CFC, si dovrà presentare apposita istanza di interpello, nel cui ambito sarà adeguatamente valutata la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della menzionata equivalenza di regimi impositivi.

Con la successiva Circolare n. 23/E/2011, l’Agenzia delle Entrate ha fornito ulteriori precisazioni con riguardo alle seguenti tematiche:

a) estensione del descritto principio anche alle holding estere che possiedono prevalentemente partecipazioni che godono della

participation exemption;

b) possibilità di predisporre un’istanza di interpello semplificata per dette società, in cui dimostrare l’equivalenza dei regimi impositivi. Per quanto riguarda il primo aspetto, secondo il parere dell’Agenzia delle Entrate, detto principio vale anche per le holding pure estere che detengono prevalentemente partecipazioni che godono dei requisiti di cui all’art. 87 del TUIR. A tal proposito, la prevalenza deve essere valutata in base al criterio di cui al comma 5 del medesimo articolo, in base al quale, affinché i requisiti sussistano, il valore corrente delle partecipazioni che godono della participation

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exemption devono rappresentare la maggior parte del patrimonio sociale,

anch’esso a valori correnti, della holding estera, considerando anche gli avviamenti positivi e negativi, anche se non iscritti.

Con riferimento alla seconda tematica, l’Amministrazione finanziaria ha stabilito che non è prevista la predisposizione di un interpello semplificato. Ne consegue che le holding in esame – al pari di tutte le altre controllate estere che integrano entrambe le condizioni di cui al comma 8-bis dell’art. 167 – devono dimostrare di disporre di una struttura non artificiosa nello Stato in cui sono localizzate. In tale sede, l’equivalenza dei regimi sarà tenuta adeguatamente in considerazione al fine di valutare se l’insediamento estero è stato creato per il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale.

Sempre trattando delle holding estere, la Circolare più volte citata n. 23 del 2011 ha fornito delle puntualizzazioni in merito alla modalità di presentazione dell’istanza di interpello nel caso di un’impresa residente che controlli, direttamente o indirettamente, una holding estera, che a sua volta detenga numerose partecipazioni in società estere, collegate tra lo da un nesso funzionale. Sia la holding che le sue partecipate ricadono nell’ambito di applicazione della normativa CFC. Al fine di facilitare gli adempimenti a carico del contribuente, il socio italiano può presentare un’unica istanza di interpello. Fermo restando che l’esimente di cui al comma 8-ter dell’art. 167 del TUIR presuppone un esame da condurre case by case, cioè a livello di singola società controllata estera, in caso di strutture estere particolarmente articolate cosiddette “a grappolo”, sarà adeguatamente valutata, in sede di interpello, la circostanza che tale struttura non comporti la distrazione di utile dall’Italia verso altri Paesi o territori, nonché le ragioni economiche e imprenditoriali alla base della stessa. In altre parole, il contribuente potrà illustrare in maniera dettagliata le funzioni svolte dalla holding e dalle società da esse partecipate, il legame economico-

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