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Residenza fiscale e localizzazione del reddito

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Academic year: 2021

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SOMMARIO

PREMESSA

... 5

RESIDENZA FISCALE ED ESTEROVESTIZIONE

... 7

La residenza delle società nel diritto tributario italiano ... 7

La normativa di riferimento ... 7

Attività commerciale ... 11

La prova contraria di cui al comma 5-bis ... 13

La posizione dell’Agenzia delle Entrate ... 15

L’esterovestizione ... 18

Profili internazionali ... 19

Persona fisica ... 20

Persona giuridica: la sede di direzione effettiva ... 23

Profili comunitari ... 27

La sede di direzione effettiva nel diritto comunitario ... 27

La comunicazione n. 785 del 2007 ... 28

Le misure antiabuso in materia di CCCTB ... 28

Profili penal-tributari della esterovestizione ... 31

Effetti fiscali della riqualificazione della residenza in Italia ... 31

Aspetti penali delle società esterovestite ... 33

Profili IRAP e IVA in materia di esterovestizione ... 37

(3)

3

Rilievi ai fini IVA ... 38

La prova della residenza nelle verifiche fiscali ... 42

La prova a carico dell’ente verificatore ... 42

La prova a carico del contribuente ... 45

I controlli dell’Amministrazione finanziaria in materia di residenza fiscale ed esterovestizione ... 47

La verifica fiscale finalizzata all’individuazione della residenza fiscale ... 50

I controlli finalizzati all’individuazione della residenza fiscale delle persone fisiche ... 54

Il rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuente in sede di verifica 56 Stabile organizzazione ... 59

Profili generali ... 59

Stabile organizzazione occulta ... 61

Exit tax ... 63

Persone fisiche ... 63

Persone giuridiche ... 65

Exit tax sospesa per le sedi in area UE ... 66

CONTROL FOREIGN COMPANIES

... 69

Quadro normativo di riferimento e caratteristiche dell’interpello disapplicativo ... 69

Disposizioni cardine ... 69

Il passive income test attrae i redditi in Italia ... 72

L’estensione della disciplina CFC alle controllate localizzate in Paesi white list ... 73

Le peculiarità del tax rate test ... 74

CFC rules: trattamento delle holding e delle stabili organizzazioni ... 79

Holding estere ... 79

(4)

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CFC al test di operatività ... 83

TRUST

... 86

La residenza fiscale del trust nel diritto tributario italiano ... 86

Inquadramento giuridico del trust ... 86

La soggettività passiva del trust... 87

La residenza fiscale del trust... 89

La determinazione del reddito del trust ... 92

Il trasferimento dei beni nel trust ... 94

La qualificazione dei redditi imputati ai beneficiari individuati ... 95

Obblighi contabili ... 97

Aspetti elusivi del trust e normativa di contrasto ... 98

L’interposizione fittizia ... 101 Le norme antielusive ... 103

CONCLUSIONI

... 108

BIBLIOGRAFIA

... 110

PRASSI

... 112

GIURISPRUDENZA

... 113

(5)

5

PREMESSA

Il presente lavoro affronta la tematica della residenza fiscale e della localizzazione del reddito al fine di fornire un quadro chiaro e completo della relativa disciplina, delineando i punti di contatto con determinati istituti oggetto di specifica trattazione. La residenza fiscale delle società e il c.d. fenomeno della esterovestizione rivestono un carattere di estrema attualità che assume una sicura valenza sotto differenti profili.

In primo luogo, sussistono notevoli difficoltà applicative della specifica disciplina a causa del coinvolgimento di ordinamenti differenti, con norme spesso del tutto disomogenee tra di loro, le quali impongono la ricerca costante di strumenti di dialogo tra i vari Stati per evitare fenomeni di dual

residence e, conseguentemente, di doppia imposizione. È ben noto come, in

tema di residenza, si possano applicare vari principi di tassazione, tra cui il principio di mondialità (worldwide principle), per il quale sono tassati tutti i redditi ovunque prodotti da soggetti residenti e i redditi generati nello Stato da soggetti non residenti1, ed il principio di territorialità (source principle), secondo cui sono tassati soltanto i redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti residenti. A tal proposito, in virtù del fatto che l’ordinamento italiano adotta il principio di mondialità, è doveroso evidenziare il legame con l’art. 53 della Costituzione, in quanto, esso recitando che tutti sono tenuti a

concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva,

dalla sua applicazione si evince che tutti i soggetti, ancorché privi della cittadinanza italiana, posti in un rapporto di connessione con il territorio in seguito alla fruizione dei pubblici servizi, sono tenuti a contribuire.

1

A tal proposito, con riguardo alle persone giuridiche, si osserva che l’art. 151 comma 1 del TUIR sancisce che il reddito complessivo delle società e degli enti non residenti è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad esclusione de quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva.

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6

In secondo luogo, analizzando il profilo legislativo, le modifiche normative sono state introdotte ad opera del dl 4 luglio 2006 che, con la previsione del comma 5-bis all’art. 73, ha posto l’onere della prova in capo al contribuente, determinando in questo modo una profonda revisione nella struttura societaria al fine di rispettare i requisiti richiesti dalla legge. Significativi appaiono, inoltre, da un lato l’azione dell’Amministrazione finanziaria che si è susseguita alla normativa suddetta e, dall’altro, gli aggiornamenti apportati dall’OCSE in data 18 luglio 2008 al Modello di convenzione internazionale contro le doppie imposizioni e al relativo Commentario.

Fatta questa doverosa premessa sulle problematiche più attuali e delicate che involgono il tema della residenza fiscale, si evidenzia l’esigenza di attribuire un sufficiente grado di certezza al sistema normativo di riferimento. La possibilità di adottare autonome scelte interpretative da parte di varie Autorità fiscali, soprattutto in assenza di accordi convenzionali, costituisce fattore di sicura negatività che senza dubbio comporta effetti preclusivi anche sul piano dei rapporti economici degli investimenti e, in genere, delle strategie aziendali. Pare quindi opportuno procedere, anzitutto, nella disamina della normativa che disciplina gli aspetti essenziali della residenza fiscale e dell’esterovestizione.

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7

CAPITOLO 1

RESIDENZA FISCALE ED ESTEROVESTIZIONE

La residenza delle società nel diritto tributario italiano

La normativa di riferimento

La materia oggetto di trattazione necessita, anzitutto, di una collocazione a livello normativo allo scopo di porre le basi fondamentali per le successive disamine.

In primis, è d’obbligo richiamare l’articolo 73 del TUIR che, al 1° comma, individua i soggetti che rilevano ai fini dell’Imposta sul Reddito delle Società:

a) le s.p.a., le s.a.p.a., le s.r.l., le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee, le società cooperative europee residenti nel territorio dello Stato;

b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;

c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato;

d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.

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Relativamente agli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio è stabilito, al comma 5-quinquies, che i redditi di quelli istituiti in Italia e quindi residenti, diversi dai fondi immobiliari, e quelli con sede in Lussemburgo, già autorizzata al collocamento nel territorio dello Stato, sono esenti dalle imposte sui redditi purché il fondo o il soggetto incaricato della gestione sia sottoposto a forme di vigilanza prudenziale. In tal caso il reddito è determinato ai fini IRES ancorché non tassato allo scopo di rendere trasparente e strumentale l’attività esercitata nonché i rapporti intrattenuti con i terzi.

Successivamente, si rende necessario riportare la parte dell’articolo 73 comma 3° del TUIR che interessa ai fini del presente capitolo: sono considerate

residenti ai fini delle imposte sui redditi le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.

Nell’ordinamento tributario nazionale il concetto di residenza nel territorio dello Stato determina per il soggetto residente la soggezione di tutti i redditi ovunque prodotti alla potestà impositiva dello Stato italiano, in virtù del c.d. principio di tassazione mondiale. Per converso, il non residente è tenuto a contribuire per le imposte relative ai redditi prodotti nel Stato italiano.

La sede legale si identifica con la sede sociale indicata nell’atto costitutivo o nello statuto.

Per sede dell’amministrazione deve intendersi, secondo

l’Amministrazione finanziaria italiana, il luogo dove è esercitata l’attività principale e, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, il luogo in cui la società vivi ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali.

Ai sensi del 4° e 5° comma del medesimo articolo è disposto che per le

società e gli enti residenti, l’oggetto esclusivo o principale dell’attività è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in

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forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata; per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale è determinato in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato.

Alla luce di tali disposizioni è utile richiamare la Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, atta a circoscrivere la definizione estremamente ampia di oggetto principale prendendo in considerazione lo svolgimento dell’attività per il cui esercizio la società è stata costituita nonché gli atti produttivi e negoziali ed i rapporti economici che la stessa pone in essere con i terzi. Pertanto, ai fini dell’individuazione dell’oggetto principale dovrà farsi riferimento a dati concreti, materialmente riscontrabili, quali:

 la localizzazione degli investimenti;

 la sede degli impianti produttivi e/o di stoccaggio;

 la sede degli uffici ove si svolgono le funzioni amministrativo-contabili.

Il tema della residenza fiscale delle società estere facenti parte di gruppi multinazionali italiani ha assunto particolare importanza nell’attualità tributaria, soprattutto per effetto dell’art. 73 comma 5-bis del TUIR, il quale dispone che:

salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo ai sensi del 2359 comma 1 del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 del presente articolo, se, in alternativa:

a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi del 2359, comma 1, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro

organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

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È stato poi introdotto il comma 5-quater in base al quale: salvo prova

contraria, si considerano residenti nel territorio dello Stato le società o enti il cui patrimonio sia investito in misura prevalente in quote di fondi di investimento immobiliare chiusi di cui all’art. 37 del TUF e, siano controllati direttamente o indirettamente, per il tramite di società fiduciarie o per interposta persona, da soggetti residenti in Italia.

Ai fini dell’individuazione del controllo si fa riferimento all’art 2359 c.c. che ne prevede tre diverse forme:

a) il soggetto residente detiene la maggioranza dei diritti di voto esercitabili in assemblea (c.d. controllo di diritto); b) il soggetto residente detiene un numero di voti tale da

garantire l’esercizio di un’influenza dominante (c.d. controllo di fatto interno)

c) il soggetto residente esercita il controllo in virtù di particolari vincoli contrattuali (c.d. controllo di fatto esterno).

Tali norme, che prevedono l’introduzione delle succitate presunzioni legali relative, sono state previste dal legislatore con l’intento di contrastare il c.d. fenomeno delle società “esterovestite”, che si identifica nel tentativo da parte di dette società di sottrarre materia imponibile allo Stato creando residenze fittizie in Paesi esteri generalmente a fiscalità privilegiata. La norma contenuta nel comma 5-bis costituisce una presunzione relativa di secondo livello, a supporto della presunzione assoluta di primo livello prevista dal comma 3 dell’art. 73 del TUIR. Dunque, qualora venga integrata una delle fattispecie previste dal terzo comma, la società si considera residente in ogni caso; diversamente, al comma 5-bis, è espressamente prevista la possibilità di fornire prova contraria contrastando quanto dedotto dall’Amministrazione finanziaria. A ciò si aggiunga che, qualora i soggetti esteri non abbiano effettuato gli adempimenti dichiarativi previsti dalla legge, si rende applicabile l’ulteriore disposizione di cui all’art. 41 commi 1 e 2 del D.P.R. n. 600/73 che consente agli

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Uffici impositori di avvalersi di presunzioni ancorché prive dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (normalmente necessari in presenza di presunzioni semplici) per procedere all’accertamento d’ufficio dei redditi non dichiarati. Siamo di fronte, quindi, ad uno scenario costituito da ben tre presunzioni, una assoluta e due relative, che può indurre a riflessioni ed approfondimenti in merito ad una questione di compatibilità con l’ordinamento tributario. In particolare, il problema di pone con riferimento alle presunzioni assolute che non lasciano possibilità di prova contraria, con la diretta conseguenza che potrebbero configurarsi fattispecie lesive del principio di capacità contributiva enunciato dall’art. 53 della Costituzione.

Attività commerciale

Al fine di circoscrivere la definizione di cui al primo comma dell’art. 73, è essenziale definire la nozione di attività commerciale, contenuta nell’art. 55 del TUIR, norma che, oltre a definire i redditi di impresa in ragione del carattere di commercialità, permette di distinguere, nella fattispecie di ente individuale, le situazioni in cui si realizza reddito d’impresa ovvero reddito di lavoro autonomo. In particolare, al 1° comma, per impresa commerciale si intende l’esercizio per

professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa

(lettera b: mangimi ottenibile per almeno un quanto dal terreno, superficie adibita alla produzione non superiore al doppio di quella del terreno; lettera c: i beni devono essere quelli individuati con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze).

Ai sensi dell’articolo 2195 c.c. sono attività commerciali:

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2) attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) attività bancaria o assicurativa;

5) altra attività ausiliarie alle precedenti.

In presenza di più attività, per stabilire quale sia quella abituale, si può ricorrere a due criteri:

 criterio temporale, sposato da dottrina e giurisprudenza, in base al quale si calcola il tempo dedicato all’attività;

 criterio quantitativo, adottato dall’Amministrazione finanziaria, che, nel far prevalere l’effettività, considera l’attività più redditizia. Non molto condivisibile in quanto anche un’attività sussidiaria potrebbe risultare proficua.

Tornando all’art. 55 del TUIR, in virtù di quanto indicato dal 3° comma, per il quale le disposizioni in materia di imposte sui redditi che fanno riferimento

alle attività commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate dal presente articolo, rilevano ai fini dell’articolo 73 anche le

attività di cui al secondo comma dell’articolo 55, sebbene non siano svolte nell’esercizio di imprese commerciali:

a) attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazioni di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.;

b) attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne;

c) attività agricole di cui all’articolo 32, pur se nei limiti ivi stabiliti, se i redditi dei terreni che ne derivano spettano alle società in nome collettivo e in accomandita semplice nonché alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa.

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A completamento del connubio articolo 73 e 55 rileva l’articolo 81 del TUIR in base al quale il reddito complessivo delle società e degli enti, esercenti attività commerciale in via esclusiva o principale, è considerato reddito d’impresa.

La prova contraria di cui al comma 5-bis

Come rilevato dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E/20081, gli elementi di collegamento della legal entity estera controllata da soggetto residente in Italia, devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell’ente con un determinato territorio, con l’augurio che avvenga in contraddittorio con il contribuente.

In assenza di espressa previsione normativa, si ritiene che la prova circa l’esistenza all’estero della sede dell’amministrazione debba essere fornita in sede di accertamento. La norma, infatti, non prevede la possibilità di dimostrare in via preventiva l’inapplicabilità della norma al caso concreto (come disciplinato in tema di CFC) né sarebbe esperibile la procedura di interpello ordinario di cui all’art. 11 dello Statuto dei diritti del Contribuente, con la quale si persegue lo scopo di comprovare obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione della norma; nel caso specifico di trattazione, invece, le questioni che potrebbero essere prospettate in tema di individuazione della sede dell’amministrazione non sarebbero di carattere interpretativo, ma fattuale ovvero di valutazione della efficacia di riscontri materiali e probatori (ad esempio il contribuente dimostra che ai fini dell’accertamento il requisito del controllo non risulta di fatto integrato). In tale direzione, una conseguenza di non poco conto della notifica dell’avviso di accertamento è l’eventuale iscrizione a ruolo provvisoria dei tributi, inconveniente che può essere evitato con la formulazione

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dell’istanza di sospensione cautelare dell’atto impugnato alla commissione tributaria provinciale competente.

La dimostrazione dell’effettiva residenza all’estero di società partecipate da soggetti residenti, oltre che su elementi di prova di natura formale, idonei ad attestare unicamente il radicamento sul territorio estero dell’entità ivi localizzata, dovrà necessariamente vertere su fatti e circostanze incontrovertibili che comprovino, oltre ogni ragionevole dubbio, l’autonomia giuridica, contrattuale, finanziaria e funzionale della legal entity estera, oltre che le motivazioni imprenditoriali sottostanti alla configurazione del gruppo. In questo modo il contribuente può vincere la presunzione dimostrando che la sede dell’amministrazione è situata all’estero. A nulla rileva, naturalmente, il riscontro dell’insussistenza degli altri elementi previsti al 3° comma dell’art. 73.

A mero titolo esemplificativo, si potrebbero annoverare i seguenti documenti di prova:

 effettività degli insediamenti produttivi all’estero e delle ragioni imprenditoriali ad essi sottesi;

 modello organizzativo chiaro e trasparente con evidenza del ruolo di ciascuna società estera sotto i profili economico e strategico;  descrizione dei flussi informativi e contrattuali intercompany;  esistenza di sistemi di tesoreria centralizzata (c.d. cash pooling),

rilevanti da un punto di vista di autonomia finanziaria;

 grado di autonomia gestionale dei soggetti preposti all’attività d’impresa all’estero (c.d. country manager) in termini di

organizzazione del personale, di potere di spesa, di

approvvigionamento e di negoziazione di contratti con i clienti esteri;

 regolare e periodico svolgimento delle riunioni del consiglio di amministrazione presso la sede sociale (utili in questo caso biglietti aerei/ricevute d’albergo attestanti spostamenti in Italia degli amministratori).

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La prova contraria assume caratteristiche peculiari con riferimento alle

holding passive, società che si limitano a detenere partecipazioni in società

residenti in Italia senza svolgere alcuna attività economica. A causa dell’assenza di significative strutture materiali od organizzative dovrebbe essere necessariamente fornita la piena prova, vale a dire:

 la prova dell’inesistenza degli elementi costitutivi della sede dell’amministrazione in Italia, ovvero

 la prova della localizzazione della stessa all’estero, a ciò rilevando il luogo dove sono disposti gli atti volitivi della società.

La posizione dell’Agenzia delle Entrate

Fondamentale a riguardo è la denuncia presentata nel 2009 dall’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti di Milano alla Commissione Europea2, con la quale si evidenziava la ritenuta lesione del principio di libertà di stabilimento con l’applicazione del comma 5-bis. L’Agenzia delle Entrate, interpellata dalla Commissione al fine di ricevere dei chiarimenti in merito, ha statuito3 che la norma suddetta costituisce il punto di partenza per una verifica più ampia, da effettuarsi in contraddittorio con il contribuente, sull’intensità del legame tra la società e lo Stato estero e tra la medesima società e l’Italia. Tale precisazione assume notevole rilievo in quanto conferma che le fattispecie al verificarsi delle quali la società estera si considera esterovestita, assurgono a meri elementi indiziari che depotenziano la presunzione legale insita nella norma in esame e mitigano conseguentemente l’inversione dell’onere della prova, a carico del contribuente. Di fatto, quindi, eventuali accertamenti emessi sulla base dell’applicazione letterale della norma

2

Reperibile dal sito internet “Milano.aidc.pro”.

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risulterebbero nulli perché viziati alla radice. È evidente che ogni valutazione dell’Amministrazione finanziaria dovrà essere svolta caso per caso in funzione delle caratteristiche della società.

Dalle informazioni fornite in risposta ai quesiti della Commissione Europea dal Direttore Centrale dell’Agenzia delle Entrate4 si evincono altresì due aspetti particolarmente interessanti.

In primo luogo, l’Agenzia delle Entrate ha asserito che il certificato di residenza fiscale rilasciato da parte di uno Stato membro attesta l’insussistenza di un attendibile collegamento con l’Italia. Tuttavia, si tratta di una prova necessaria e valida, ma non sufficiente a rigettare la presunzione in questione.

In secondo luogo, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, qualora una società sia considerata esterovestita e quindi residente in Italia, in forza dell’art. 73 comma 5-bis, ter e quater, viene di prassi attivata l’assistenza amministrativa con gli Stati membri dell’Unione Europea. Le informazioni richieste nell’ambito di detta procedura sono le seguenti:

 per quanto riguarda il requisito del controllo, si chiedono delucidazioni sulla composizione della compagine societaria della società oggetto di verifica ed, eventualmente, di società partecipata o controllante allo scopo di individuare ipotetiche partecipazioni indirette detenute da soggetti italiani;

 con riferimento agli amministratori, la richiesta si riferisce alla composizione del consiglio con specificazione dell’identità e residenza dei singoli consiglieri, oltre alle informazioni idonee a dimostrare che l’amministrazione effettiva avviene al di fuori del

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territorio italiano e che l’entità gode di autonomia organizzativa, finanziaria e amministrativa.

Si tratta di due aspetti tra loro collegati nel momento in cui, pur in presenza di una certificazione di residenza, l’Amministrazione finanziaria ritiene opportuno svolgere ulteriori indagini, istaurando la procedura di reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri.

Proseguendo nel delineare la posizione dell’Agenzia delle Entrate, secondo quanto espresso nella Circolare n. 28/E/20065, sotto il profilo comunitario non sarebbero ravvisabili problemi di compatibilità con il Trattato UE in quanto gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato, e sotto il profilo internazionale non sussistono contrasti con le doppie imposizioni dal momento che gli elementi posti a fondamento della suddetta presunzione derivano dai principi rinvenibili nel Commentario al Modello OCSE, tra cui la sede di amministrazione effettiva.

L’Agenzia delle Entrate, nella medesima Circolare, ha osservato che, nelle ipotesi in cui si interpongano sub-holding estere tra i soggetti residenti e controllanti, queste vengono attratte nel campo di applicazione della presunzione. Gli effetti di più immediato impatto sono l’assoggettamento al regime di imponibilità o di esenzione ai sensi degli articoli 86 e 87 del TUIR delle plusvalenze realizzate dalla cessione di partecipazioni nonché la tassazione piena degli utili di partecipazione proveniente da società residenti in Paesi a fiscalità privilegiata. Per converso i flussi di dividendi, interessi e royalties in uscita dall’Italia non saranno assoggettati a ritenuta ed eventuali ritenute subite nel periodo d’imposta per il quale tali soggetti sono considerati residenti potranno essere scomputate in sede di dichiarazione annuale.

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L’esterovestizione

In via generale, per esterovestizione si intende il tentativo, posto in essere strumentalmente da parte di soggetti d’imposta italiani, di sottrarre alla legge tributaria dello Stato italiano fonti di reddito, astrattamente imponibili nel territorio dello Stato, e attività d’impresa, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.

Il fenomeno in questione non riguarda i redditi prodotti dalle società

off-shore al di fuori del territorio dello Stato nel quale esse sono solo formalmente

residenti; le società off-shore rientrano nel campo di applicazione della disciplina antielusiva relativa alle CFC, motivo per cui saranno oggetto di specifica e successiva trattazione.

Il problema della corretta individuazione della residenza fiscale ai sensi dei commi 3 e 5-bis dell’art. 73 del TUIR si pone per le società holding di gestione di partecipazioni e per le società industriali e commerciali. Nel primo caso l’esterovestizione di redditi può verificarsi nell’ipotesi di costituzione delle stesse nel territorio di Stati che prevedono regimi di participation exemption per le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni; nel secondo si ha la c.d. esterovestizione di attività, vale a dire la collocazione all’estero, unicamente sotto il profilo formale, del luogo di produzione del reddito d’impresa.

La costruzione di strutture societarie estere dirette al conseguimento di uno o entrambi gli obiettivi può talora presentare le seguenti caratteristiche alternative, tutte connesse al grado di intensità del rapporto intercorrente tra l’iniziativa imprenditoriale e il territorio dello Stato estero:

 allineamento degli elementi formali e sostanziali (c.d. substance

and form): solitamente presente in strutture nelle quali sussiste un

forte legame con il territorio dello Stato di localizzazione, accompagnato da un bilanciato rispetto del requisito della forma

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(ad es., perseguimento dell’oggetto sociale e svolgimento attività di gestione presso la sede legale);

 assenza di sostanza, in presenza di forma (c.d. form over

substance): configurazione strutturale per ragioni di mera

convenienza fiscale;

 assenza di forma, in presenza di sostanza (c.d. substance over

form): preminenza all’elemento sostanziale specialmente nella fase

di start-up o di espansione in nuovi mercati.

Profili internazionali

L’articolo 4 paragrafo 1 del Modello di Convenzione dell’OCSE stabilisce che l’espressione residente di uno Stato designa ogni persona che, in virtù della

legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato o per il patrimonio ivi situato.

Quest’ultima disposizione precisa che ai fini della Convenzione un soggetto non può essere considerato residente in un Paese se lo stesso è assoggettato ad imposizione in tale Paese solo in base al principio di territorialità.

Poiché il Modello OCSE non introduce un’univoca definizione di residenza fiscale, bensì un rimando alla definizione fornita dalle legislazioni nazionali, si verificano frequentemente situazioni in cui un soggetto è considerato fiscalmente residente in entrambi gli Stati in base alle rispettive normative domestiche.

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Persona fisica

Nel caso in cui si verifichi un caso di doppia residenza di persona fisica, assume rilievo il 2° paragrafo dell’articolo 4, che mira a risolvere il conflitto stabilendo lo Stato di effettiva residenza attraverso specifici criteri di collegamento del contribuente allo Stato denominati tie-breaker rules, che dovranno essere verificati seguendo l’ordine gerarchico in cui sono elencati. I criteri per la definizione della residenza fiscale sono nell’ordine:

1. abitazione permanente; 2. centro degli interessi vitali; 3. soggiorno abituale;

4. nazionalità;

5. accordo tra le autorità competenti dei due Paesi contraenti.

1. Sul tema, il Commentario al Modello OCSE fornisce indicazioni utili e in particolare chiarisce che l’abitazione:

- può essere posseduta a qualsiasi titolo;

- deve disporre di un’adeguata organizzazione che consenta al contribuente una lunga e non occasionale permanenza. La previsione in esame sembrerebbe riconducibile al concetto di residenza ex art. 43 del Codice Civile, tuttavia la nozione di residenza intesa come dimora abituale non prevede la possibilità che essa venga identificata in più luoghi contemporaneamente, mentre la norma convenzionale non esclude tale possibilità.

2. Il centro degli interessi vitali corrisponde al luogo in cui le relazioni personali ed economiche dell’individuo sono più strette. A tal proposito occorre tener conto delle relazioni familiari e sociali del contribuente, delle sue attività politiche, culturali o di altro genere, della sua sede di

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affari e del luogo dal quale amministra le sue proprietà. Queste circostanze devono essere esaminate in una visione globale, avuta considerazione della particolare situazione dell’individuo.

Si evidenzia che il concetto di centro degli interessi vitali è molto vicino alla nozione di domicilio e che l’orientamento prevalente dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza attribuisce solitamente una notevole rilevanza ai legami personali ed affettivi. Ciò nonostante, è interessante citare una recente sentenza dell’aprile 20126 nella quale la Cassazione ha ritenuto che il domicilio del contribuente, trasferitosi con la moglie a Montecarlo, fosse in Italia in virtù del suo pieno coinvolgimento nelle vicende economiche e morali della famiglia, dando di fatto prevalenza agli interessi economici del contribuente.

3. Il Commentario non fornisce una chiara interpretazione dei requisiti da verificare al fine di individuare qual è l’intervallo di tempo minimo richiesto affinché possa dirsi rispettato il criterio del soggiorno abituale, limitandosi a richiedere una durata sufficientemente ampia tale da consentire di determinare se la residenza in ciascuno degli Stati sia abituale o meno.

4. Per quanto riguarda la nazionalità la Convenzione fa espresso rinvio alla normativa interna per la definizione della cittadinanza di un soggetto. 5. Se nessuna delle suesposte tie-breaker rules ha avuto esito positivo, la

questione della residenza viene risolta di comune accordo tra gli Stati contraenti in base alla procedura amichevole di cui all’articolo 25 della Convenzione stessa.

Va, in ogni caso, rilevato che, in assenza di una Convenzione, nel caso in cui una persona fisica abbia, in base alle norme nazionali di ciascun Paese, il centro degli interessi vitali in due Stati membri dell’Unione europea il problema

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di dual residence si risolve attribuendola allo Stato in cui sono rinvenibili i legami personali7.

Le regole per dirimere la doppia residenza possono essere applicate anche alle singole frazioni di periodo d’imposta in cui si verifica la doppia residenza. Il Commentario prende in considerazione il caso in cui un soggetto risulta fiscalmente residente in uno Stato per una parte del periodo d’imposta e, a seguito del suo trasferimento nell’altro Stato contraente, vi soggiorni per più di 183 giorni; tale lasso di tempo è presupposto per cui il soggetto risulti fiscalmente residente in detto altro Stato per l’intero periodo d’imposta, originando un problema di doppia residenza per la prima frazione del periodo d’imposta. Con riferimento alla normativa italiana si segnala ad oggi la mancanza di specifiche previsioni di legge che disciplinino esplicitamente l’acquisto o la perdita della residenza in corso d’anno e l’assenza di un’interpretazione da parte dell’Amministrazione finanziaria. La normativa italiana, all’art. 2 comma 2 del TUIR, prevede infatti che, al fine di determinare la residenza fiscale di una persona fisica, i requisiti previsti debbano essere valutati avendo riguardo all’intero periodo d’imposta e, pertanto, lo status di soggetto fiscalmente residente o non residente deve intendersi per l’intero anno solare. A conferma di tale approccio, nella Risoluzione n. 471/E/20088 l’Agenzia delle Entrate ha precisato che gli eventuali problemi di doppia residenza devono essere risolti esclusivamente applicando le disposizioni convenzionali ed interne che disciplinano il credito d’imposta, ossia l’art. 23 della Convenzione e l’art. 165 del TUIR. Tale articolo così recita al comma 1°: se alla formazione del

reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino a concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in deduzione. Inoltre non è possibile estendere

l’applicazione del principio del frazionamento della residenza all’interno di un

7 Principio affermato dalla Corte di Giustizia CE nella sentenza 12 luglio 2001, causa C-262/99. 8 In Banca dati BIG Suite, IPSOA.

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periodo d’imposta se tale principio non è espressamente previsto nel testo della Convenzione stessa, come stabilito nella Convenzione con la Svizzera e in quella con la Germania.

L’approccio restrittivo dell’Agenzia delle Entrate che si evince dalla suddetta Risoluzione non consente quindi di risolvere i casi di doppia residenza coerentemente alle previsioni del Commentario 2010 al Modello OCSE contro le doppie imposizioni. Ne consegue che si possono verificare casi di doppia imposizione risolvibili esclusivamente attraverso la regola del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero, la cui applicazione può tuttavia determinare in capo al contribuente sia disagi finanziari, legati alle tempistiche connesse all’imposta estera divenuta definitiva, sia un maggior onere fiscale nei frequenti casi in cui l’imposta estera relativa al reddito di fonte estera è inferiore rispetto a quella italiana calcolata sul medesimo reddito.

Alla luce di quanto esposto e poiché la Risoluzione ha data anteriore rispetto all’ultima pubblicazione del Commentario OCSE avvenuta nel 2010, sarebbe opportuno che l’Amministrazione finanziaria aggiornasse la propria posizione in merito al concetto di residenza parziale, non avendo il Governo italiano a suo tempo posto riserve all’applicazione dell’articolo 4 e del relativo Commentario OCSE.

Persona giuridica: la sede di direzione effettiva

Secondo quanto previsto dal paragrafo 3 dell’art. 4, quando, in base alle

disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati, essa è considerata residente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva. Tale conflitto può sorgere, ad esempio,

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(criterio formale), mentre la disciplina di altro Stato faccia riferimento al territorio di ubicazione della sede effettiva (criterio effettivo).

La sede di direzione effettiva è il luogo dove sono sostanzialmente adottate le decisioni principali relative alla gestione della società, nonché quelle necessarie per l’esercizio della sua attività d’impresa.

Risulta importante distinguere il luogo in cui le decisioni sono effettivamente adottate e il luogo dove avviene la loro approvazione formale, tenendo in considerazione quanto segue:

 se la casa-madre, o altro soggetto che detiene una partecipazione di maggioranza, effettivamente adotta le decisioni chiave commerciali e di management per lo svolgimento dell’attività d’impresa, il luogo di sede di direzione effettiva coincide con il luogo in cui tali decisioni sono adottate ad opera della case-madre;

 se il CdA approva formalmente le decisioni-chiave necessarie per lo svolgimento dell’attività d’impresa in uno Stato, ma le stesse sono adottate durante meetings tenuti in uno Stato diverso, il luogo dell’effective management deve ritenersi coincidere con quest’ultimo Stato.

Il Modello OCSE 2008, tra le altre modifiche, ha definito i fattori di riferimento da tenere in considerazione per la determinazione della sede di direzione effettiva delle persone giuridiche. Anzitutto, è da precisare il fatto che alcuni Stati considerano relativamente rari i casi di doppia residenza delle persone giuridiche, motivo per cui essi dovrebbero essere esaminati e risolti singolarmente secondo un approccio case-by-case.

Agli Stati è stata altresì riconosciuta, con l’introduzione del paragrafo 24.1 del Commentario all’art. 4, la facoltà di attribuire alle autorità competenti il compito di risolvere i casi di dual residence, le quali determinano di comune

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accordo in quale dei due Stati la persona giuridica dovrà ritenersi residente ponendo attenzione alla sede di direzione effettiva, al luogo di costituzione ovvero ad ogni altro fattore rilevante. In assenza di accordo, la persona giuridica non ha diritto ad alcuna esenzione fiscale, se non nei limiti concordati dalle autorità competenti degli Stati contraenti. Ai fini della determinazione della residenza le autorità competenti dovranno tener conto dei seguenti fattori:

 il luogo del day-to-day management della persona giuridica;  il luogo in cui si trova il quartier generale;

 la legislazione applicabile alla persona giuridica;  il luogo in cui è tenuta la contabilità;

 il luogo in cui si riuniscono i membri del CdA;

 il luogo in cui il Chief Executive Officer normalmente svolge le proprie funzioni.

I suindicati fattori non hanno carattere esaustivo. La risoluzione dei casi di doppia residenza deve avere inizio entro tre anni dalla notifica dell’atto alla persona giuridica. La procedura in questione, analoga a quella prevista per la risoluzione dei casi di doppia residenza delle persone fisiche, non esclude il ricorso alla procedura di composizione amichevole di cui all’art. 25 del Modello OCSE.

Per quanto rileva ai nostri interessi, l’Italia, nelle proprie osservazioni, ha individuato quale criterio di determinazione della sede di direzione effettiva, il luogo dove l’attività principale e sostanziale dell’ente è esercitata, in linea con quanto previsto dall’art. 73 TUIR.

Nel momento in cui non sia possibile determinare univocamente la sede di direzione effettiva, gli Stati interessati dal caso di dual residence possono ricorrere alla procedura amichevole di accordo reciproco di cui all’art. 25 del Modello OCSE, che può essere istaurata esclusivamente in casi che ricadono nell’ambito di applicazione del paragrafo 1, vale a dire nei casi in cui il prelievo

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sia stato imposto, o sia in procinto di essere imposto, in contrasto con le disposizioni convenzionali. La procedura amichevole, a differenza delle procedure contenziose di diritto interno, può essere avviata su richiesta del contribuente senza attendere la certezza della misura impositiva. I reclami presentati ai sensi del paragrafo 1, nel rispetto delle normali formalità previste per i reclami in materia fiscale, devono soddisfare una duplice condizione:

- devono essere inoltrati alle competenti autorità dello Stato di residenza del contribuente;

- devono essere inoltrati entro tre anni dalla prima notifica dell’atto che comporta un’imposizione non conforme alle disposizioni convenzionali. È nella facoltà degli Stati contraenti prevedere un termine più ampio nell’interesse del contribuente e con riferimento ai termini previsti dalle rispettive legislazioni nazionali. Inoltre, detto termine decorre, secondo l’interpretazione più favorevole al contribuente, dalla notifica non dell’atto generale di natura amministrativa bensì dell’atto impositivo risultante dall’iscrizione a ruolo ovvero da altro atto utilizzato per la riscossione o l’applicazione delle imposte.

Una volta istaurata la procedura, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 25 le autorità competenti degli Stati coinvolti hanno l’obbligo di negoziare quand’anche non sia possibile raggiungere un’intesa reciproca. In quest’ultima ipotesi, dispone il paragrafo 5, trascorsi due anni dalla presentazione del caso all’autorità competente dell’altro Stato contraente, ogni questione irrisolta sarà sottoposta a procedura arbitrale se la persona lo richiede, a condizione che non sia già stata emessa una decisione da un organo giudiziario o amministrativo di uno dei due Stati. Solo la persona direttamente interessata può respingere la decisione arbitrale, altrimenti vincolante per entrambi gli Stati contraenti. Qualora, invece, le autorità competenti raggiungano un accordo reciproco, il contribuente conserva comunque la facoltà di rifiutare la soluzione concordata e rimettere il caso alle autorità giudiziarie competenti interne, a meno che non decida di beneficiarne.

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La procedura arbitrale è parte integrante della procedura di accordo reciproco e non costituisce meccanismo alternativo di risoluzione delle controversie in materia di doppia imposizione. Il modello disciplina, in apposite clausole, i relativi aspetti formali e procedurali, liberamente modificabili dagli Stati contraenti al momento della conclusione della convenzione bilaterale.

Profili comunitari

La sede di direzione effettiva nel diritto comunitario

L’ordinamento comunitario non offre una definizione di sede di direzione effettiva distinta ed autonoma da quella prevista dall’ordinamento internazionale né una tale definizione può desumersi dal principio di libertà di stabilimento sancito dall’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), il quale stabilisce che le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno

Stato membro nel territorio di un altro Stato membro sono vietate. Per stabilimento si intende la possibilità, per un cittadino comunitario, di partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica di uno Stato membro diverso dal suo Stato di origine e di trarne vantaggio. La stessa

definizione di residenza fornita dalla direttive comunitarie madre-figlia e fusioni corrisponde a quella di cui all’art. 4 del Modello OCSE che fissa la sede di direzione effettiva quale criterio in base al quale determinare la residenza stessa.

Gli interventi della Corte di Giustizia delle Comunità Europee sulla compatibilità delle legislazioni antiabuso nazionali con le libertà fondamentali consentono di individuare un significativo nesso tra sede di direzione effettiva in un determinato Stato e svolgimento di un’effettiva attività economica nel medesimo Stato. I principi espressi dalla Corte di Giustizia costituiscono la base,

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fungendo da linee guida, delle considerazioni in materia effettuate dalla Commissione Europea:

 nella comunicazione n. 785 del 2007;

 nel Working Paper n. 65 relativo alla misure antiabuso in ambito di base imponibile comune consolidata e nella proposta di direttiva in materia di Common Consolidated Corporate Tax Base del 16 marzo 2011.

La comunicazione n. 785 del 2007

La Commissione rileva che per essere giustificate, le norme antiabuso devono essere circoscritte a situazioni in cui sussiste un ulteriore elemento di abuso. Esse, inoltre, non devono avere una portata troppo ampia, ma essere mirate a situazioni in cui non esiste un insediamento effettivo o, più in generale, in cui manca una motivazione commerciale. La Commissione, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia, sottolinea che la necessità di impedire l’elusione o l’abuso può costituire motivo imperativo di interesse generale capace di giustificare una restrizione delle libertà fondamentali. Il concetto di elusione fiscale è tuttavia limitato a costruzioni di pure artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato. La normativa fiscale nazionale può considerarsi legittima in quanto sia proporzionata ed abbia lo scopo specifico di impedire costruzioni di puro artificio.

La Commissione è dell’avviso che il semplice stabilimento di una consociata in un altro Stato membro non comporta, di per sé, elusione fiscale; la circostanza secondo la quale le attività svolte da una sede secondaria in un altro Stato membro sarebbero potuto essere esercitate dal contribuente anche sul proprio territorio di residenza non può permettere di concludere che esista una costruzione di puro artificio. Nella valutazione relativa all’insediamento di una

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società su un dato territorio, le difficoltà concernono principalmente la determinazione del livello di presenza economica; al riguardo, rilevano fattori oggettivi quali la sede di direzione effettiva, la presenza tangibile della società in un dato territorio, nonché il rischio commerciale effettivo da essa assunto.

Sul piano del principio di proporzionalità, la Commissione rileva che, al fine di determinare se una transazione rappresenti una costruzione di puro artificio, le norme antiabuso nazionali possono comprendere criteri di sicurezza (c.d. safe harbours) applicabili alle situazioni più probabilmente abusive. Tuttavia, allo scopo di garantire che transazioni e insediamenti effettivi non vengano illegittimamente sanzionati è essenziale che il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali ed economiche. La portata dell’onere della prova a carico del contribuente, la quale dovrebbe avere ad oggetto la dimostrazione che le transazioni commerciali sono state poste in essere in buona fede, può determinarsi solo caso per caso. La Commissione ritiene che l’onere della prova non dovrebbe gravare solo sul contribuente, dovendo tener conto, da un lato, della capacità generale di quest’ultimo di conformarsi alle norme, dall’altro, del tipo di operazione considerata. È ugualmente essenziale, nell’interesse del principio di proporzionalità, che il risultato della pertinente valutazione da parte dell’autorità fiscale venga sottoposto a un controllo giurisdizionale indipendente.

Le misure antiabuso in materia di CCCTB

Principi analoghi si ritrovano alla base della disciplina antiabuso applicabile in materia di CCCTB9. Tale metodo di imposizione prevede l’introduzione di una normativa fiscale europea unica su base opzionale, diretta a sostituire i ventisette regimi fiscali nazionali vigenti nella definizione della base

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Common Consolidated Corporate Tax Base: metodo illustrato per la prima volta dalla Commissione Europea nella comunicazione n. 582 e nello studio n. 1681 del 2001, concernenti l’esposizione di una nuova strategia di eliminazione degli ostacoli fiscali esistenti nel mercato interno.

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imponibile delle società con attività transazionale. La base imponibile così calcolata è poi ripartita fra gli Stati interessati, i quali applicano l’aliquota propria. Una base imponibile così generata determinerebbe una significativa riduzione del rischio che le legislazioni fiscali nazionali siano dichiarate incompatibili con i principi di libertà di stabilimento sanciti dal Trattato UE, mentre i sistemi fiscali nazionali risulterebbero meno vulnerabili ai fenomeni di evasione e frode fiscale. La disciplina antiabuso contenuta nella proposta di direttiva del 16 marzi 2011 contempla, accanto ad una norma a carattere generale, disposizioni specifiche in tema di Controlled Foreign Companies (CFC) ed indeducibilità degli interessi.

La Commissione Europea ha rilevato come una disposizione antiabuso di carattere generale consentirebbe alle Amministrazioni finanziarie di riqualificare le transazioni del tutto fittizie, lasciando al contribuente la possibilità di dimostrare la sussistenza di un’effettiva ragione economica. Ai fini del calcolo della base imponibile non si tiene conto delle c.d. transazioni artificiali effettuate dal contribuente con l’unico obiettivo di eludere l’imposta.

Le norme antiabuso a carattere specifico in materia di CFC si pongono come obiettivo principale quello di impedire alle società residenti di trasferire reddito alle controllate con sede in Paesi a fiscalità privilegiata. È incluso nella base imponibile il reddito di società residente in uno Stato terzo quando, tra gli altri, in quest’ultimo Paese il medesimo reddito è assoggettato ad imposta secondo un’aliquota inferiore del 40% rispetto a quella media applicabile nello Stato membro interessato. La disposizione non si applica quando tra i due Stati vige un accordo sullo scambio effettivo di informazioni. Stesse previsioni si applicano anche in tema di indeducibilità degli interessi corrisposti ad un’impresa associata con sede in uno Stato terzo.

La combinata applicazione delle norme suindicate è la soluzione sposata dalla Commissione Europea nell’ambito del consolidato comunitario. Un’unica disposizione di carattere generale presenterebbe, infatti, dei limiti connessi alla difficoltà di una sua applicazione uniforme negli Stati membri interessati.

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Profili penal-tributari della esterovestizione

La contestazione da parte dell’Ente verificatore, nelle vesti dell’Agenzia delle Entrate o della Polizia Tributaria, della residenza fiscale in Italia di società o enti esteri, in applicazione di una delle disposizioni sopra richiamate, evidenzia la necessità di esaminare attentamente le possibili conseguenze che potrebbero verificarsi in capo al soggetto estero sotto i distinti aspetti:

 fiscali;

 penal-tributari.

Particolarmente importanti, in un siffatto contesto, sono i profili di responsabilità di coloro che potrebbero essere considerati amministratori (di fatto) della società estera.

Effetti fiscali della riqualificazione della residenza in Italia

Si ritiene necessario effettuare alcune considerazioni con riferimento alle modalità di determinazione del reddito complessivo della società estera considerata fiscalmente residente. Ai sensi dell’art. 83 del TUIR il reddito complessivo è determinato apportando all’utile o alla perdita del conto economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta, le variazioni in aumento ed in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle successive disposizioni dettate in tema di reddito d’impresa. Rimangono tuttavia ancora privi di chiarimenti ufficiali i riferimenti contabili essenziali dai quali desumere la base di computo del reddito complessivo. In particolare, assumendo la necessità di una ridefinizione delle poste economico-patrimoniali sulla scorta dei principi contabili italiani o internazionali, non appare univocamente stabilito

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se il bilancio che verrà fiscalmente recepito in Italia debba evidenziare i valori contabili o quelli effettivi della società.

Come rilevato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare del 4 agosto 2006 n. 28/E10, gli effetti di più immediato impatto per le legal entities estere riguardano:

 l’assoggettamento al regime, rispettivamente, di imponibilità o di esenzione ex artt. 86 e 87 del TUIR delle plusvalenze realizzate dalla cessione di partecipazioni;

 l’assoggettamento a ritenuta di dividendi, interessi e royalties corrisposti a soggetti non residenti o a soggetti residenti fuori dal regime d’impresa;

 la tassazione piena degli utili di partecipazione provenienti da società residenti in Paesi a fiscalità privilegiata ex. art 89 comma 3 del TUIR.

Al contrario, i flussi di dividendi, interessi e royalties in uscita dall’Italia non saranno assoggettati a ritenuta in presenza delle condizioni previste dall’ordinamento vigente ed eventuali ritenute subite nel periodo d’imposta per il quale tali soggetti sono considerati residenti potranno essere scomputate in sede di dichiarazione annuale.

Fra i potenziali effetti derivanti dalla residenza fiscale in Italia, rientrerebbe la possibilità di optare per tre anni, a partire dall’esercizio successivo al periodo d’imposta in corso, per il consolidato nazionale di cui agli artt. 117 e ss. del TUIR, con il conseguente riconoscimento in Italia delle eventuali perdite prodotte all’estero. In tal caso, l’opzione per il consolidato nazionale comporta, di per sé, l’esplicito riconoscimento della esterovestizione delle società estere; oppure può conseguire al definitivo riconoscimento dell’esterovestizione in ambito processuale.

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In conseguenza della qualificazione delle società controllate come enti residenti fiscalmente in Italia, potrebbe porsi il problema dell’applicabilità alle medesime società della disciplina prevista per le società non operative.

Ulteriori effetti fiscali derivanti dall’accertamento di esterovestizione potrebbero ravvisarsi nei fenomeni di doppia imposizione in presenza di imposte effettivamente assolte all’estero. A tal proposito appare dubbio che possa essere riconosciuto l’accreditamento di imposte assolte all’estero sulla base della disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni stipulate tra l’Italia e gli Stati ove sono localizzate le controllate, dal momento che tale meccanismo presuppone necessariamente la concorde ripartizione delle reciproche potestà impositive degli Stati contraenti.

Potrebbe quindi soccorrere l’applicazione della norma tributaria interna prevista dall’articolo 165 del TUIR, in base al quale se alla formazione del

reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta dovuta fino a concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione. Tuttavia, il riconoscimento del

credito per le imposte pagate all’estero non potrebbe tecnicamente trovare applicazione in presenza di redditi di fonte prettamente italiana.

Aspetti penali delle società esterovestite

Gli amministratori delle società che risultano esterovestite a seguito della procedura di cui al comma 5-bis dell’art. 73 TUIR, dal momento che non è stata fornita prova contraria ovvero non è stata ritenuta valida dall’Amministrazione finanziaria, riceveranno l’avviso di accertamento con recupero delle imposte

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evase; tuttavia, vi è altresì la possibilità di essere destinatari di rilevanti conseguenze sanzionatorie, sia di carattere tributario che di carattere penale.

Le sanzioni penali sono quelle maggiormente preoccupanti per chi svolge attività imprenditoriali, in quanto comportano la revoca di affidamenti bancari, l’impossibilità di partecipare ad appalti, l’incapacità di rivestire funzioni direttive presso persone giuridiche. Occorre distinguere due situazioni:

 trasmissione della denuncia alla Procura della Repubblica;  sentenza con la quale è disposta la responsabilità penale.

La prima fattispecie è dettata dalle norme del codice di procedura penale che impongono al Direttore dell’Ufficio, quale pubblico ufficiale, di presentare la denuncia stessa a pena di reato per omessa denuncia.

Altre caratteristiche presenta la seconda fattispecie, alla quale non si perviene automaticamente per il solo fatto che è stata presentata denuncia, ma si perfeziona nel momento in cui il Pubblico Ministero ha raccolto prove convincenti della responsabilità dell’imputato, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo del dolo di evasione fiscale.

In ogni caso, il reato tributario commesso dagli amministratori in questione è di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 comma 1 del d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, a mente del quale è punito con la reclusione da uno a tre anni

chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore a euro trentamila. La

determinazione della soglia quantitativa in esame, in forza del principio di separazione tra giurisdizione penale e tributaria, compete esclusivamente al giudice penale, per cui se anche è stata presentata la denuncia dall’Ufficio in quanto convinto del superamento della soglia, il P.M. potrebbe arrivare a diverse conclusioni (ad esempio, attraverso la nomina di un consulente tecnico). Ciò per quanto riguarda l’elemento materiale del reato. Può verificarsi il caso in cui i redditi della società esterovestita non raggiungano la soglia prevista e che quindi

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l’Amministrazione finanziaria non presenti la denuncia al P.M.; tuttavia quest’ultimo, venuto comunque a conoscenza del fatto, attraverso indagini per falso il bilancio oppure perché qualche socio di minoranza ha presentato autonomamente denuncia, effettua le indagini necessarie ed ottiene la prova del superamento della soglia per via diversa dall’accertamento dell’Amministrazione finanziaria. Va sottolineato che, in caso di non superamento della soglia, operano soltanto le sanzioni amministrative.

Per quanto riguarda l’elemento psicologico del reato si potrebbe sostenere che qui non siamo in presenza di una finalità propriamente evasiva, bensì elusiva. È comunque difficile dimostrare che non sono state presentate le dichiarazioni senza finalità di sottrarsi al pagamento delle imposte al Fisco italiano, anche se ovviamente può avvenire il contrario. L’unica strada per poter sostenere la buona fede, e la parallela inesistenza del reato per mancanza di dolo, è quella di richiedere l’applicazione dell’art. 15 del d.lgs. 74/2000, in base al quale al di

fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’art. 47 comma 3 c.p. (vale a dire errore su legge diversa dalla legge penale), non danno luogo a fatti punibili le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione.

Occorre, quindi, che l’Amministrazione finanziaria abbia dato luogo con il proprio comportamento incerto a condizioni reali di incertezza nell’applicazione dell’art. 73 comma 5-bis (per esempio, non contestando casi simili sotto il profilo della esterovestizione oppure emettendo circolari di contenuto tale da far credere al contribuente che non integrava i presupposti per la contestazione).

In conclusione, dunque, la responsabilità penale per il reato di omessa dichiarazione non deriva automaticamente dal fallimento della prova contraria da parte del contribuente, ma è pronunciabile solo allorché il giudice penale ha potuto ricostruire l’esistenza di tutti gli elementi del reato medesimo. In particolare, quale regola generale che trova accoglimento nella giurisprudenza di

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Cassazione, non opera l’automatica trasferibilità in sede penale delle presunzioni tributarie in virtù del principio del c.d. libero convincimento del giudice.

Indipendentemente dalla problematica posta dal comma 5-bis, può rilevare ai fini penali anche la dimostrazione della sede legale, della sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale nel territorio dello Stato di cui al comma 3 dello stesso art. 73 TUIR. Se la società viene considerato residente nello Stato, ne deriva che le dichiarazioni fiscali presentate all’estero non sono valide ai fini penali e quindi viene contestata, anche in questo caso, la fattispecie dell’art. 5 d.lgs. 74/2000.

Diverso è, però, il metodo attraverso cui si può arrivare alla denuncia penale per il reato stesso:

i. nel caso di fallimento, da parte del contribuente, della prova contraria alla presunzione, si pone la particolare problematica della valenza delle presunzioni fiscali in ambito penale, dove non operano automaticamente, stante i diversi metodi probatori esistenti nel processo penale (libero convincimento del giudice);

ii. nel caso di inesistenza della presunzione, compete al giudice valutare, sempre ai soli fini fiscali, senza essere vincolato alle ricostruzione compiute in sede tributaria dall’Amministrazione finanziaria, se la società sia da considerarsi residente in Italia oppure all’estero.

In quest’ultimo caso, la valutazione del giudice penale può divergere da quella effettuata in sede tributaria, generando una conseguenza tipica del principio del “doppio binario” che caratterizza i rapporti tra accertamento e contenzioso fiscale, da una parte, e processo penale, dall’altra11.

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Profili IRAP e IVA in materia di esterovestizione

La riqualificazione in Italia della residenza fiscale di società ed enti esteri pone alcuni profili di criticità relativi all’imposta sul valore aggiunto e all’imposta regionale sull’attività produttiva, tra cui la mancata dichiarazione di ricavi ai fini delle imposte dirette, eventualmente disconoscendo i componenti negativi di reddito da parte dell’Ente verificatore, nonché l’IVA dovuta sull’imponibile dichiarato, con conseguente recupero dell’imposta evasa ed applicazione delle sanzioni amministrative previste. A ciò possono aggiungersi rilievi formali, comuni alle imposte dirette e all’IVA, consistenti nella irregolare od omessa tenuta della contabilità, in violazione dell’art. 9 comma 1 del d.lgs. 471/1997, con previsione della irrogazione della sanzione compresa fra euro 1.032,00 ed euro 7.746,00 a norma del medesimo articolo.

Rilievi ai fini IRAP

Il presupposto impositivo dell’IRAP consiste, ex art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, nell’esercizio abituale di un’attività autonomamente

organizzata diretta alla produzione o alla scambio di beni o alla prestazione di servizi. Finalità ultima della norma, come sottolineato dalla migliore dottrina,

viene ravvisata nella volontà di tassare il valore della produzione netta aziendale, quale entità reale che si identifica con la potenzialità economica e produttiva espressa da coordinamento, organizzazione e disponibilità dei fattori della produzione.

L’art. 3 del d.lgs. 446/1997 individua alla lettera e) del comma 1 le società non residenti nel territorio dello Stato quali soggetti passivi dell’imposta

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