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dell’abbondanza

7.3 euristiche condivisibili, linguaggio ed educazione.

7.3.1 Dove e quando

Gli eventi espositivi di carattere partecipativo non sono il momento centrale in cui hanno luogo i processi di apprendimento legati all’innovazione sociale. Sono momenti chiave che contribuiscono a questi processi che si sviluppano altrove – probabilmente nelle vicinanze – su tempi che vanno oltre la durata di questi eventi. Ciononostante, la presenza di questi momenti di carattere singolare può svolgere una funzione essenziale nel processo di consolidazione delle nuove dinamiche di gestione culturale di cui ci siamo occupati: legittimandoli e rendendoli visibili ad un pubblico diverso, come nel caso di DO, creando le condizioni iniziali perché possano avere luogo, come in molte delle iniziative promosse da Waag, accompagnandone gli sviluppi, come per TA, o sancendo – per certi versi – la chiusura di una esperienza, co- me nel caso del museo Mater.

Anche i luoghi dell’evento espositivo non sempre coincidono con gli spazi di aggregazione in cui si sono sviluppati i processi di tipo partecipativo, e lo stesso succede con le istituzioni che hanno promosso o accolto queste ini- ziative.

Il caso più semplice, sotto questo punto di vista, è quello della FCAYC dove coincidono l’istituzione promotrice – una fondazione privata che si converte in risorsa pubblica – i luoghi della partecipazione e la sede dell’evento espo- sitivo.

Nell’estremo opposto dello spettro troviamo DO, dove le risorse di una istituzione pubblica come il V&A sono state oggetto di una temporanea

riappropriazione - propiziata in parte dal proprio museo – per fare eco a un

processo collettivo sviluppatosi ai margini dell’istituzione. Waag rappresenta, in qualche modo, un caso intermedio, quello di una fondazione privata, fi- nanziata in parte con fondi pubblici, che agisce strategicamente - dalla pro- pria sede – per formare agenti del cambiamento che possano convertire le rispettive istituzioni di appartenenza (scuole, biblioteche, archivi, musei …) in luoghi aperti alla partecipazione e di diffusione di conoscenze anche attra- verso la realizzazione di eventi espositivi.

Le iniziative appoggiate dal PPUJ1 si muovono nella stessa linea di azione salvo il fatto che tendono a creare nuove piccole realtà istituzionali, promos-

se dal basso – anziché riconvertire istituzioni esistenti – e a dare origine a una rete, su scala locale, di centri analoghi. Ancora diverso infine è il caso dell’ELP che si configura, di per se, come una struttura ubiqua composta da una piccola serie di luoghi.

Tutte queste diverse permutazioni nella relazione tra luoghi e istituzioni sono la viva manifestazione di una progettualità diffusa e lasciano intravedere di- verse potenzialità latenti su cui è possibile intervenire per appoggiare le di- namiche collettive che portano ad abitare, riappropriarsi, riconvertire o generare nuovi luoghi di aggregazione dove poter sperimentare prassi alternative per la gestione culturale.

Per poter cogliere queste potenzialità crediamo sia necessario elaborare, discutere, condividere, verificare … un visione “strategica” del processo in corso che possa servire come quadro generale di riferimento e consentire di massimizzare il risultato delle singole azioni individuali – al di la dei contributi di carattere strettamente professionale. Le esperienze e le riflessioni ri- portate nel corso della ricerca sembrerebbero suggerire alcune delle linee essenziali di questo ipotetico quadro di sintesi.

Il concetto centrale che emerge – come nesso di unione tra luoghi, comunità e conoscenza – è quello di bene comune, nella sua articolazione tra risorse tangibili, come gli spazi pubblici o le risorse naturali, ed intangibili, come i ri- sultati prodotti dal lavoro intellettuale.

I beni comuni costituiscono sia il mezzo che il fine dei processi di innova- zione sociale. Rappresentano la principale risorsa per i processi collaborativi attraverso i quali è possibile riportare – sotto la stessa sfera dei beni comuni – parte della produzione di beni, e della gestione di servizi, che attualmente sono affidate a dinamiche economiche di tipo competitivo o a meccanismi di gestione pubblica percepiti come distanti e/o inefficienti.

7.3.2 Comunità (inclusività e governance)

Nelle esperienze legate alla gestione dei beni culturali, i processi partecipati- vi rappresentano una delle principali occasioni per sperimentare le diverse strategie in grado di consentire a una comunità di utenti di avvicinarsi al patrimonio culturale e di viverlo come un bene comune.

Questi processi costituiscono, allo stesso tempo, un importante elemento nelle politiche di inclusività delle istituzioni culturali e nella diversificazione

dei profili di utenza. Attraverso queste occasioni di collaborazione si possono consolidare relazioni durevoli nel tempo, ciò che in termini di consumo cultu-

rale si denominerebbe fidelizzazione e che in una logica prosumer dovrebbe

portare ad una dinamica di almeno parziale co-gestione delle iniziative. I processi di cui ci siamo occupati fanno quindi perno su due concetti fondamentali: l’inclusività e l’autogestione. La prima intesa sia in un senso orizzontale, come capacità di connettere le diversità, che in verticale, nel rinforzare i legami di fiducia di una comunità con le sue istituzioni. La se- conda come esercizio di responsabilità collettiva e come laboratorio per nuove forme di democrazia partecipativa.

È su questi assi che dovrà misurarsi la nostra capacità di generare soluzioni progettuali specifiche e di contribuire, al di là delle nostre competenze pro- fessionali, allo sviluppo di iniziative analoghe.

7.3.3 Conoscenza (aperta ed esplicita)

Nel corso della ricerca ci è sembrato di cogliere una sempre maggiore consapevolezza dell’importanza strategica del documentare le esperienze – oltre che nel realizzarle – contribuendo in questo modo a creare, alimentare e sostenere i diversi sistemi di conoscenza aperta.

Nei casi presi in esame, questa sensibilità emerge chiaramente nelle pras- si delle nuove tipologie di istituzioni culturali, come la FCAYC, WAAG o MLP, mentre rimane in un secondo piano nel caso di istituzioni di tipo più tradizio- nale – vecchie e nuove – come i musei V&A e MATER, così come in molti aspetti della pratica professionale di consulting, studi tecnici e liberi profes- sionisti.

Questa consapevolezza rispetto alla funzione sociale dei commons intangi- bili dovrebbe inoltre portarci a una seria riflessione sugli attuali meccanismi di diffusione della conoscenza anche in ambiti, come il mondo accademico, dove – per definizione – dovrebbe prodursi sempre e sistematicamente in modalità aperta.

A questo proposito, molti ricorderanno la vicenda di The Cost of Know-

ledge1, una campagna di protesta promossa nel 2012 dal matematico Timo-

thy Gowers contro le pratiche commerciali di Elsevier – un noto editore di pubblicazioni accademiche. Al margine di altre possibili considerazioni, uno dei risultati della campagna è stato quello di contribuire significativamente a dare visibilità ad iniziative, già in corso da anni, che si erano proposte di aggiornare al nuovo contesto digitale le relazioni tra autori, editori, distribu- tori e lettori di pubblicazioni scientifiche2.

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una iniziativa che si colloca a cavallo tra la etica professionale e l’attivismo politico.

Rimanendo sempre nell’ambito accademico, crediamo valga la pena

soffermarsi sulla natura dei contenuti che dovrebbero alimentare i sistemi di conoscenza aperta. Il tipo di conoscenza documentata nel corso dei casi presi in esame è spesso il risultato di un approccio euristico e si basa es- senzialmente sull’esperienza diretta. Crediamo che l’adozione generalizzata di prassi e criteri di produttività scientifica provenienti dal campo delle scienze esatte abbia, in qualche modo, penalizzato la diffusione di questo ti- po di conoscenze, di carattere empirico, contribuendo a creare un divario

1http://thecostofknowledge.com

sempre più marcato tra la pratica professionale del Design ed il mondo della formazione accademica.

Pur senza condividerne gli argomenti, osserviamo come spesso le posi- zioni di chi rivendica una conoscenza di tipo empirico finiscano per assumere anche una forte connotazione anti-accademica e ci sembra doveroso

prendere atto del potenziale pericolo che anche la ricerca accademica nell’ambito del Design possa finire in una dinamica autoreferenziale e gene- rare situazioni paradossali, come il celebre “Affare Sokal”, la vicenda legata alla pubblicazione sulla rivista “Social Text” di una articolo dal titolo “Violare le frontiere: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica” dal contenuto volutamente assurdo e privo di logica ma formalmente

impeccabile.

Allo stesso tempo, in controtendenza a quanto appena descritto, assistiamo con interesse al moltiplicarsi delle occasioni di incontro tra professione e istruzione formale, grazie alle attività dei nuovi spazi informali di aggregazio- ne nelle quali è possibile mettere a confronto la produzione accademica con la domanda emergente di una conoscenza esplicita.