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Quante storie

Nel documento L'impero universale nella Nuova Spagna (pagine 130-157)

I MPERO E LINGUA LETTERARIA

5. Quante storie

Il manoscritto portoghese è tutto quello di cui disponiamo oggi. Lo accompagna una lettera che il traduttore anonimo afferma essere di pugno dall’Imperatore e composta in spagnolo, mentre le Memorie che traduce sono in francese. Trovandosi in una situazione di estremo pericolo, Carlo V invia precipitosamente il proprio testo al principe Filippo, con queste parole:

Esta historia es la que yo hice en romance, quando venimos por el Rin y la acabe en Augusta: ella no esta hecha como yo queria. Y Dios sabe que no la hize con vanidad, y si della El se tuuo por ofendido, mi ofensa fue mas por ignorancia que por malicia: por cosas seme- jantes el se solía mucho enojar, no queria que por esta lo uviese hecho agora conmigo. Assi por esta como por otras ocasiones no le faltaran causas. Plega a el de templar su yra, y sacarme del trabajo en que me veo. Yo estuue por quemarlo todo, mas porque, si Dios me da a (sic) vida, confio ponerla de manera que el no se deseruira della, para que por aca no ande en peligro de perderse, os la embio, para que agays que alla sea guardada y no abierta hasta…

En Inspruch, 1552 Yo, el Rey

In questa lettera33 compaiono elementi come il senso di colpa, il timore del castigo di Dio e la professione di umiltà, anche letteraria, che sono estranei al discorso delle Memorie, mentre si riallacciano al- le preoccupazioni che – si dice – Carlo V abbia espresso a Francisco de Borja, nella sua ultima dimora di Yuste. Rispetto al presunto mo- mento della loro redazione, vale a dire il 1550, la fortuna dell’imperatore è capovolta. Quando egli scrive da Innsbruch, sta ca- lando da nord l’esercito protestante dei principi guerrieri. Si sono riorganizzati e, tappa dopo tappa, hanno azzerato le conquiste che egli aveva felicemente concluso quattro anni prima. La lettera appare in- terrotta ad effetto e questo ne rende sospetta l’autenticità. Circa il momento opportuno di far conoscere questa sua testimonianza, la vo- lontà dell’imperatore viene fagocitata da tre puntini sospensivi. Se poi egli avesse scritto la lettera a maggio, prima della sua precipitosa fuga notturna verso Dobbiaco, in compagnia di soli cinque servitori, il bri- vido per il destino che l’aspettava sarebbe assicurato.

33

Vi è infine il dilemma della lingua. Afferma l’imperatore che la sua storia, qui ridimensionata a canovaccio di una versione futura da comporre nei dovuti modi, è stata scritta in romance. Si aprono allora due possibilità. Sarà il francese, la prima lingua del protagonista, op- pure lo spagnolo, la sua lingua d’adozione? Ecco un ulteriore dilem- ma rimasto senza risposta. Morel Fatio, convinto che l’originale fosse stato redatto in francese, si spinge fino ad analizzare il possibile stile dell’imperatore a partire dalla sola traduzione34. Fernández Álvarez, che fa propria la tesi contraria appoggiandosi allo studio linguistico di Karl Brandi, precisa che il termine romance “era sinónimo de castel- lano” e che “una traducción casi literal del manuscrito portugués ofre- ce un texto muy similar a los otros escritos castellanos del Empera- dor”. Ribadisce, quindi, che il manoscritto portoghese “corresponde a una versión directa del original de las Memorias”35.

È una certezza che sconfina nella fede. Cadenas y Vicent, che al- la fine della sua indagine ammette di non poter offrire alcuna conclu- sione, con i dati finora disponibili si attiene unicamente a tre ipotesi. A suo parere queste Memorie possono essere una “copia-traducción del original redactado por el Emperador”; oppure una “copia- tradución de las posiblemente reescritas por Van Male”; o ancora un “invento completo desde la primera a la última línea, incluyendo la carta de justificación”36. Del metaforico autoritratto di parole che sono le Memorie di Carlo V non abbiamo l’originale, solo una traduzione non commisurabile. In linea di principio, essa dovrebbe “dire quasi la stessa cosa”37, ma non c’è per noi possibilità di confronto e di rinvio. Non sappiamo dove siano le perdite e dove le compensazioni eventua- li. Mentre siamo in grado di vedere come l’immagine che di Carlo V ripropone Tiziano mostri quasi la stessa cosa di quella dipinta da Seis- seneger, le Memorie in portoghese di Carlo V sono invece una ma- schera senza volto, una forma disancorata sia dall’autore che dal mo- dello.

Tema affascinante e sempre attuale per chi si occupi di letteratu- ra, a partire per lo meno da un polveroso mucchio di scartoffie (un “cartapacio”), trovato per caso da un lettore avido che da allora in poi cesserà di essere un narratore scontento. Aveva infatti dovuto inter-

34

Ivi, pp. 175-180. 35

M. Fernández Álvarez (a cura di), op. cit., p. 474. 36

V. de Cadenas y Vicent, op. cit., p. 47. 37

U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003.

rompere il racconto avventuroso a cui stava lavorando, perché il ma- noscritto anonimo da cui traeva le informazioni era monco. L’azione cruciale del protagonista, minacciato dalla spada di un avversario di basso rango, era dunque rimasta congelata sine die. Ma una storia pri- va della fine non ha senso38 e comprensibilmente il suo “segundo au- tor”, come egli stesso si definisce, non rinuncia alla speranza che negli archivi e nelle scrivanie della regione ci siano tracce ulteriori del suo eroe, che a suo parere non merita certo l’oblio. Ma quelle tracce egli le trova invece in una strada di Toledo e quando meno se lo aspetta, grazie al suo incondizionato amore per la lettura che gli fa rovistare perfino i vecchiumi scritti in una lingua che non conosce, l’arabo. È così che, nel fascio di anticaglie che svende un ragazzino, il narratore rimasto senza argomento si imbatte in un libro che attira la sua atten- zione, pur senza capirci niente. Ha bisogno di sapere. Va allora in cer- ca di un morisco – un arabo convertito – che possa dirgli di cosa parla quel testo. Il morisco alfabetizzato lo apre a metà, scorre con gli occhi qualche riga e scoppia a ridere di gusto. Ecco stabilito all’istante il vincolo fra chi non solo è capace di leggere-in-comune, ma anche di condividere il valore della comicità, benché i due provengano da cul- ture in conflitto. Si incontrano intorno a una figura femminile: incom- parabile dama per un solo cavaliere e rozzissima contadina per tutti gli altri. Questa incarnazione lacerata dell’apparire e dell’essere prova che quel libro fortunosamente sottratto all’incuria riguarda proprio ciò che il narratore stava cercando con trepidazione. Gli è capitata fra le mani la Historia de Don Quijote de la Mancha, escrita por Cide Ha- mete Benegeli, historiador arábigo. È il suo feticcio. Compra il libro insieme al resto delle carte fra cui era confuso e assolda il morisco per farsi tradurre subito tutti i documenti relativi al suo eroe “en lengua castellana, sin quitarles ni añadirles nada”39. La fedeltà alla lettera dei testi non è negoziabile, poiché ne va della verità, lo scopo di chi si do- cumenta con scrupolo e passione. Il nostro lettore/narratore ha final- mente accesso ad altre avventure di colui che lo ha coinvolto a tal punto da indurlo a restituirne al mondo la storia spezzata con un nuo- vo discorso: il suo. Egli non può trattenersi dal diffondere quanto ha riconosciuto come proprio e reso presente a se stesso sia per ragioni

38

F. Kermode, The sense of an ending: studies in the theory of fiction, Oxford Univer- sity Press, London 1970.

39

M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, Edición del Instituto Cervantes, dirigi- da por Francisco Rico con la colaboración de Joaquín Foradellas, Instituto Cervantes- Crítica, Barcelona 1998, I, IX.

evidenti, legate alla società del suo tempo, che per moti inconsapevoli. Poiché è una vicenda che lo riguarda, se ne fa portavoce e diventa un nuovo anello della tradizione.

Questa celeberrima discontinuità inventata da Cervantes ci con- sente le scorciatoie dell’analogia, stabilendo una relazione di tipo pa- radigmatico con le Memorie di Carlo V, pur sapendo che in tale rela- zione “non è mai possibile separare […] esemplarità e singolarità”40. Qui il vincolo è dato dai molteplici racconti esistenti. Come la storia del cavaliere errante Don Chisciotte, la storia dell’imperatore errante Carlo V dipende da un palinsesto di fonti, in parte cercate e in parte fortuite, in parte veridiche e in parte fittizie. Inoltre, entrambe le nar- razioni sono soggette alle rocambolesche incognite del desiderio, al piacere del testo da leggere e da raccontare41.

Tanti sono i discorsi nati intorno alle Memorie di Carlo V ma, a tutt’oggi, non possiamo considerarle autentiche e nemmeno attribuirle alla pratica illustre delle contraffazioni. Mentre dimorano nel limbo degli indecidibili, che fare? Se si decidesse di svalutarle come testi- monianza storiografica, potrebbero essere prese in considerazione come un rifacimento dall’alto grado mimetico rispetto al modello au- tobiografico in uso. Il testo dell’imperatore diventerebbe allora il testo sull’imperatore. Carlo V passerebbe da persona vera a personaggio verosimile. Accantonato l’ambito fattuale dell’empiria, le sue Memo- rie potrebbero entrare nell’universo simbolico della letteratura. E non come ripiego.

Dopo i dibattiti novecenteschi, che cosa rappresentino rispetti- vamente il discorso storiografico e il discorso letterario è noto. Nel vasto grembo delle sue possibilità, oggi più che mai la letteratura – così abituata alle commistioni di genere – potrebbe accogliere queste Memorie come un ready made narrativo, alla maniera dei manufatti strumentali recuperati alle arti visive da Marcel Duchamp. L’enigmatico imperatore sarebbe così oggetto di una conoscenza tra- slata che si acquisisce secondo il principio del come se, all’incrocio di quei processi di configurazione del tempo umano che promuovono sia il racconto veridico che il racconto di finzione42. Della vita turbolenta di Carlo V molto è stato detto e molto resta da dire. Conserviamo que-

40

G. Agamben, Che cos’è un paradigma?, in Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

41

R. Barthes, Le plaisir du texte, Seuil, Paris 1973. 42

ste sue Memorie come un piccolo reperto incastonato fra la trama e l’ordito del nostro infinito discorrere.

Nicoletta Pesaro

S

EMANTICA DEL MODO NARRATIVO

:

ECHI DELL

’I

MPERO E VOCE DELL

IO NELLA NARRATIVA CINESE

DELLA TERRA

NATIA

’(1920-1930)

Il termine Impero utilizzato in questo contributo va inteso come una duplice metafora: da un lato come metafora di un codice di com- portamento morale e sociale stratificatosi e consolidatosi nei secoli dell’impero cinese, dall’altro come un altrettanto stratificato e conso- lidato set di convenzioni narrative che contraddistingue in modo par- ticolare la tradizione narrativa cinese in vernacolo fino alle soglie del Novecento. Entrambi questi modelli, com’è noto, entrarono in crisi nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

Nella Cina che si apriva al mondo e alla letteratura mondiale, cercando una propria collocazione dopo il primo impatto ed entusia- smo per sperimentazioni accentuate e occidentalismi malcelati, seguiti al cosiddetto Movimento del Quattro maggio 1919, la narrativa dedi- cata al villaggio, alla “terra natia” xiangtu xiaoshuo 乡土小说, può e deve intendersi come una ricerca nuova di identità culturale e artistica al medesimo tempo. Intorno al 1923, fu proprio l’angusto spettro delle tematiche fino ad allora trattate (per lo più autobiografiche) a spingere gli autori verso racconti più aperti alla società, ad ambienti estranei al- la sfera strettamente personale: nacque così, sotto l’impulso del più grande scrittore cinese moderno, Lu Xun 鲁迅, il filone narrativo del- la “terra natia”, che spostava l’interesse e la creazione dall’individuo al villaggio, inteso come cronotopo culturale della Cina tradizionale. Permane naturalmente un aspetto autobiografico: come nel celebre racconto Guxiang 故乡 (Paese natale, 1922) di Lu Xun, il mondo ru- rale, infatti, viene identificato da questi autori nella propria infanzia e, metonimicamente, nell’infanzia stessa della Cina la cui cultura tradi- zionale affonda le radici nella terra tu 土1.

1

Il primo carattere del composto xiangtu (乡土), che qui traduciamo “terra natia”, è

xiang 乡 che nella grafia non semplificata 鄉 rappresenta schematicamente due perso-

ne (rispettivamente identificate da 乡 e 阝) sedute una di fronte all’altra con un ele- mento significante “cibo” al centro. L’offrire cibo all’ospite significava nella tradizio- ne instaurare rapporti stabili con lui, il significato traslato del carattere portò nei secoli a identificare 鄉 con le origini, la famiglia.

I principali esponenti di questa corrente narrativa sono Wang Luyan 王鲁彦, Xu Jie 许杰, Peng Jiahuang 彭家煌, Tai Jingnong 台 静农, Xu Qinwen 许钦文 e Qian Xian’ai 䞿先艾. Un afflato nostal- gico e intenti di critica sociale animano questa tendenza, le cui temati- che e suggestioni sono liricamente espresse nel seguente breve testo di prosa poetica.

Quattro uomini si muovono su un sentiero tra i campi, come quattro ombre, ciascuno abbraccia dentro di sé la propria solitudine e l’amarezza del mondo.

La luce lunare è nebulosa, il villaggio è ormai lontano. Nel torrentello non scorre acqua, nei campi non c’è raccolto.

Il vecchio pioppo sulle tombe lungo la strada alla luce della luna sembra ancora più rinsecchito e decrepito.

Solo il vento autunnale sta soffiando malinconico. Non c’è rugiada.

Un viaggio senza meta, dove stanno andando? Il mondo è un grande deserto.

Tacciono soltanto, come delle ombre.

Camminano a testa bassa guardando la propria ombra scomparire nella polvere gialla, pensando al destino di coloro che hanno lasciato al paese natale.

Risale alla memoria la vita del tempo antico, oggi quella vita non tornerà più. Perciò i loro passi si fanno ancora più lenti.

Che vita era quella di un tempo? Bastava gettare in terra qualche se- me ed era il raccolto. A cosa servivano mani e piedi?

La gente al villaggio soleva far fermentare il vino, tessere, ridere e cantare.

C’era gioia nel lavoro. Bastava guadagnare cinque filze di monete, non era forse un mu di terra propria?

Dolci erano i verdi germogli del grano, profumata la terra.

Ma poco a poco la terra è diventata incolta, e non appartiene più a lo- ro.

Quattro uomini si muovono su un sentiero tra i campi, come quattro ombre.

Ma nuvole nere s’addensano intorno, ricoprendo la Madre Terra. Anche se piovesse, a che servirebbe? Che si può sperare di raccoglie- re dall’erba ingiallita e dai campi altrui? Chi se ne è andato non può più tornare. È sempre stato così, sin dai tempi più remoti.”

In fondo al cuore, inconsciamente, sprofondano nella tristezza di do- ver morire lontano da casa.

Le rane in cerca d’acqua inseguite dalla serpe affamata lanciano un triste grido.

Il vento autunnale fischia incomprensibili maledizioni sulle campa- gne.

“C’è un futuro nelle tenebre?”

Così il cuore intristito sprofonda come piombo, aggravando il pesan- te fardello di ciascuno.

Muovendosi, in silenzio, le quattro ombre sono inghiottite dalla nera notte2.

Sebbene questo testo non appartenga al filone narrativo qui trat- tato, del quale è comunque coevo, esso ben si presta a rappresentarlo, calando il lettore nelle atmosfere ora amare ora nostalgiche e nelle tematiche, invece pesantemente sociali ed economiche, di questo ge- nere narrativo formatosi nella fase iniziale della Cina moderna. Ri- spetto alla produzione precedente, i racconti ‘della terra natia’ appro- dano a una maggiore sensibilità e complessità sul piano formale, pur rinunciando all’esasperazione di certi esperimenti3. Nei testi apparte- nenti a questa fase, che intende essere più rappresentativa dell’identità culturale cinese, le strategie narrative sono meno palesemente eccen- triche e tuttavia, forse, più sottilmente compiute. Nondimeno, le in- tenzioni cultural-nazionalistiche di rappresentare o ricostruire un’identità cinese dopo la crisi del millenario impero collidono in questo sotto-genere narrativo con una duplice contraddizione.

Da un lato, lo scontro/incontro con l’occidente e con la modernità (spesso coincidente nell’immaginario cinese con l’occidente stesso) era stato il primo fattore di crisi e di graduale annichilimento dell’Impero; dall’altro, la ricerca da parte degli scrittori e degli intel- lettuali del Novecento in genere di una identità autonoma e nello stes- so tempo moderna si scontra con la consapevolezza della drammatica arretratezza e della necessità di riforma del mondo rurale. Questa sorta

2

Li Ni丽尼, Qiu ye 秋夜 (Notte d’autunno), 1934, in Li Ni,Ying zhi ge 鹰之歌 (Il

canto dell’aquila), Zhuhai chubanshe, Zhuhai 1997, p. 65. La traduzione di questo e degli altri brani citati è di chi scrive.

3

Per esempio di autori come Lu Xun e Yu Dafu 郁达夫 nei primissimi anni ‘20: que- sti due autori, infatti, spiccano tra gli altri per l’uso di monologhi interiori, focalizza- zioni variabili, inversioni del tempo narrativo e altre tecniche stranianti, specie per la tradizione cinese.

di “ricerca delle radici” cinesi ante litteram4 porta questi scrittori, pa- radossalmente, a doverle rigettare.

Il Movimento del Quattro maggio, citato all’inizio di questo con- tributo, tra i suoi primari obiettivi si poneva appunto una illuministica liberazione dell’individuo dal giogo del sistema imperiale, sia sul pia- no strettamente personale che su quello della comunità rurale, vittima da secoli di sfruttamento e superstizioni. In estrema sintesi la “narrati- va della terra natia” mette in evidenza queste due contraddizioni: lo scontro tra Impero e modernità, e tra Impero e individuo.

Spinti da tali tumultuose ma concrete contraddizioni e aspirazio- ni, gli autori di questa narrativa, dedicata appunto alla terra e alle sue ataviche tradizioni, spesso percepite come nefaste, mostrano una pa- dronanza notevole, per la loro giovane età, di tecniche e schemi narra- tivi innovativi nel quadro della letteratura cinese. La questione tuttora dibattuta è quanto essi fossero consapevoli di tali tecniche e strategie e quanto invece agissero per una inconscia imitazione di alcuni testi della letteratura occidentale, abbondantemente tradotta e introdotta in Cina tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Esiste, tuttavia, una terza possibilità: ossia che alcuni meccanismi narrativi della tradizione autoctona, re-inventati da questi scrittori alla ricerca di nuove strutture, possano aver condotto il testo narrativo a effetti stranianti, capaci di esprimere il malessere della società contadina in antitesi con il passato imperiale; benché ciò avvenga talora tramite il filtro della soggettività, l’autore da un lato impara sempre più a ma- scherarsi dietro la figura del narratore o tra le pieghe di punti di vista mobili, e, dall’altro, riduce sensibilmente la propria distanza dai suoi personaggi5.

Lo strumento adottato con maggiore forza e sottigliezza (anche se non sempre con i risultati attesi) nel tentativo di emancipare la “vo- ce dell’io” dalla “voce dell’Impero” è di certo l’uso del modo narrati- vo nelle sue più varie possibilità: si tratta di una scoperta notevole da- to che la figura del narratore e il modo narrativo erano strettamente imbrigliati a canoni e convenzioni secolari, nati con il cosiddetto “contesto simulato” del narratore/cantastorie (legato alle origini orali della narrativa cinese) e conservati nel tempo, secondo Henry Zhao,

4

Il movimento della xungen wenxue 寻根文学 (letteratura della ricerca delle radici) sorse alla metà degli anni ‘80 ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti scrittori come A- cheng 阿城 e Han Shaogong 韩少功.

5

H. Zhao, The Uneasy Narrator. Chinese Fiction from the Traditional to the Modern, Oxford University Press, Oxford 1995, p. 87.

“because they served some other purposes, the most important of which was to install a stereotyped narrative frame”6.

Questo modello viene decisamente infranto nell’epoca del Quat- tro maggio. È lecito quindi interrogarsi sull’efficacia del contrasto op- posto nelle strategie narrative di questi autori a tali “echi imperiali”, intesi qui duplicemente: sia sul piano ideologico, come espressione di

Nel documento L'impero universale nella Nuova Spagna (pagine 130-157)