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U LTERIORI R IFERIMENTI BIBLIOGRAFIC

Nel documento L'impero universale nella Nuova Spagna (pagine 192-200)

I MPERO E SACRO

U LTERIORI R IFERIMENTI BIBLIOGRAFIC

Barbiero A. – Piano S. (a cura di), Religioni e monti sacri, Centro di documentazione dei Sacri Monti, Ponzano Monferrato 2006, pp. 275-286.

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Twitchett D. – Loewe M. (a cura di), The Cambridge History of Chi- na: Vol. 1, The Ch’in and Han Empires, Cambridge University Press, Cambridge 1986.

Gian Giuseppe Filippi

L

A CONCEZIONE IMPERIALE NELL

’I

NDIA CLASSICA

Alcuni storici dell’India sostengono che esiste una forte anomalia nello sviluppo primigenio di questa civiltà. Da circa la metà del se- condo millennio dell’evo antico, in quello snodo cronologico di pas- saggio tra l’età del bronzo e quella del ferro, presso tutte le popolazio- ni storicamente attestate lo stato s’identificò con la figura del Re, grande conquistatore, eroe culturale e figura divina. Dalla Cina a Cre- ta, dall’Egitto all’Assiria, tanto per citare esempi ben noti, monarchie personali si tradussero in regimi dinastici consolidati nel tempo. In In- dia, invece, l’istituzione del Re divino non si sarebbe mai realizzata in ragione della presenza di una casta sacerdotale stabilmente dominan- te, tale da oscurare il sovrano, rājan e l’intera casta nobiliare dei guer- rieri, rājanya1

, considerati individualmente come Re virtuali2. Secon- do quest’opinione, ciò costituirebbe un’eccezione nello sviluppo sto- rico delle istituzioni statali, tale da penalizzare lo svolgimento succes- sivo degli eventi indiani, condannando un Subcontinente altamente civilizzato a un continuo fallimento nell’affermazione delle sue strut- ture politiche e a una debolezza patologica nei confronti dei popoli confinanti3. Questa dell’anomalia indiana è teoria d’indubbia sugge-

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Si tratta di una concezione paragonabile a quella europea dei Pari del Regno. 2

Tant’è vero che in aree fortemente induizzate, ma con scarsa presenza di brahmani, la divinizzazione del Re si affermò con grande facilità. Pensiamo qui alla Cambogia, all’Indonesia e a Champa (Vietnam). A questo si può aggiungere quell’area pedehima- layana corrispondente all’attuale stato del Bihar, che fin da epoca vedica fu rétta da re- pubbliche aristocratiche, proprio perché ivi il sacerdozio era pressoché assente e quindi impotente a imporre il sistema dinastico prescritto dai testi sacri. Questa situazione può essere una delle ragioni per cui in quell’area comparissero poi due religioni antibra- hmaniche fondate da due Prìncipi: il Jainismo e il Buddhismo.

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Per la verità, e in modo strettamente paragonabile all’esempio della Cina, l’India subì continuamente invasioni di sciti, kuṣāṇa, unni, parti, persiani, che, paradossalmente, la rafforzarono e ne ampliarono il territorio. Il fascino della sua civiltà riuscì a sempre a conquistare l’animo dei suoi barbari conquistatori, che sempre furono assimilati fino a scomparire nella complessa struttura sociale delle caste. Græcia capta ferum victorem

cepit (Orazio, Epist. Il, 1, 156). Persino i musulmani indiani assunsero forme proprie,

accettando, per esempio, il sistema castale. Fecero eccezione i britannici, che subirono il fascino dall’India, ma la cui presunzione di superiorità razziale impedì l’integrazione in un’unica civiltà.

stione e fonda i suoi postulati su alcune evidenze obiettive. Il limite della teoria consiste, tuttavia, nell’appoggiarsi su alcune osservazioni ignorandone altre; o, meglio, nel selezionare tra diversi dati storici quelli metodologicamente più controllabili e atti a confermare l’ipotesi iniziale – già promossa a teoria; ciò s’opera semplicemente ignorando evidenze altrettanto obiettive, ma in contraddizione con l’impostazione ideologica dello storico. Per esempio, gli storici dell’India spesso sono forniti di nozioni archeologiche, più facili da acquisire, mentre lo stesso non si può dire riguardo alla loro forma- zione filologica. Tendenzialmente lo storico si troverà maggiormente a suo agio nell’interpretare i dati provenienti dagli scavi, essendo l’archeologia una scienza introduttiva alla storia, piuttosto che a di- pendere controvoglia dalle traduzioni delle fonti letterarie pubblicate da sanscritisti o esperti d’altre lingue dell’India antica, il cui interesse filologico spesso prescinde da una impostazione storica. Purtroppo l’archeologia dell’India del periodo da noi indicato rimane una fonte d’informazione poco trasparente, a causa di fattori ambientali deva- stanti (sommovimenti tellurici, variazioni repentine dei corsi fluviali, bradisismi di grande portata) e climatici particolarmente erosivi (mon- soni, esondazioni, muffe, insetti). A questa scarsità d’informazione s’aggiunga il particolare che in India l’antichissima pratica della cre- mazione sottrae agli archeologi le loro principali fonti d’indagine, le tombe. Se a questo quadro sconfortante si aggiunge la particolare liti- giosità dilagante tra gli archeologi che si occupano d’India, apparirà evidente come l’indagine letteraria rimanga privilegiata. Non che su questo versante tutto risulti cristallino ed esente da controversie; ma, per lo meno, la copia di informazioni di una delle letterature più ric- che del pianeta a partire dal Ṛgveda in poi, garantisce un campo di ri- cerca ben fondato.

Anzitutto si deve dare atto che i sostenitori della teoria dell’anomalia indiana partono da un dato certo: il sistema castale as- segna inequivocabilmente la supremazia sociale ai sacerdoti, i brāhmaṇa, riconoscendo ai Re e all’aristocrazia guerriera solamente un ruolo di secondo piano4. Ciò appare evidente fin dagli inni ritenuti

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La lettura ottocentesca dei testi vedici, secondo la quale in origine non ci sarebbe traccia di alcuna gerarchia castale, è sprovvista di alcun fondamento e deve essere rite- nuta ideologica. L’egualitarismo della civiltà primitiva indiana riposa nelle credenze mistico-sociali del romanticismo. Le caste, invece, nel Veda sono presenti ovunque, e non solamente tra gli esseri umani, ma anche tra gli déi, i demoni e persino tra gli ani- mali.

più antichi fra le saṃhitā del Ṛgveda5

. Se vi furono degli episodi di rivolta di aristócrati, kṣatriya6

, contro la casta sacerdotale in un’antichità insondabile, essi furono privi di risultato, come appare evidente dal mito di Paraśurāma7. Secondo questo mito gli kṣatriya si

sarebbero presi delle libertà nei confronti della casta brahmanica, per cui furono puniti dal dio Visnu8. Egli, sceso sulla terra sotto le spoglie di un sacerdote-guerriero, Rāma con l’ascia, mise in atto un vero sterminio di kṣatriya, per la qual cosa ancor oggi si sostiene che l’esiguo numero di appartenenti alla seconda casta va fatto risalire a quel mitico evento9.

Avendo stabilito quanto precede, ovvero la singolarità del caso indiano per cui anche il Re deve essere considerato incomparabilmen- te inferiore al Sacerdote, si procederà dimostrando che anche l’India antica conobbe e riconobbe la funzione civilizzatrice dei Sovrani. An- che in questo caso, però, sono necessarie alcune precisazioni. Dai testi appare evidente che la figura del Re con caratteristiche divine appar- tiene a un’antichità insondabile. Il Re, sovrano di tutta la terra, è per

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L’antichità di questa raccolta vedica è invero difficile da datare. A questo proposito si deve anche considerare che la sua trasmissione è rimasta orale per decine di secoli. Friedrich Max Müller, a metà dell’ottocento, stabilì, in base all’arcaicità della sua lin- gua, che il Ṛgveda dovesse essere datato intorno al XV secolo a. C. Non entreremo in considerazioni filologiche riguardo questa teoria facilmente confutabile, ma osservata ancor oggi come dogma da alcuni indologi, limitandoci a retrodatare la composizione di gran parte della raccolta al XIX secolo. Infatti, per tutti i primi nove dei dieci libri del Ṛgveda, il fiume sacro dell’India per eccellenza anziché il Gange, è la Sarasvat ī, corso d’acqua scomparso durante il XIX secolo, com’è dimostrato abbondantemente dall’idrogeologia contemporanea.

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Il vedico rājanya fu sostituito, in epoca successiva, dal termine kṣatriya. Questa paro- la, che indica la casta dei guerrieri e dei signori di principati, procede da ksatra, domi- nio, che, a sua volta s’imparenta a kṣetra, campo, sia inteso come area coltivabile sia come terreno di battaglia. In entrambi i casi si allude ai complessi significati della pa- rola ārya. Il sanscrito kṣatriya corrisponde all’avestico xšathrapâ, satrapo. Per maggio- re informazione, aggiungeremo che in epoca antica gli kṣatriya che non appartenevano a famiglie regnanti erano detti ugra, mentre i membri di famiglie reali rājāputra, da cui più tardi il termine rājapūt.

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Tracce storiche di una rivolta di kṣatriya sono però riscontrabili nella comparsa delle due religioni “eterodosse,” nāstika dharma, il Jainismo e il Buddhismo. Nonostante l’iniziale successo, dopo diversi secoli anche queste rivolte religiose furono neutraliz- zate. Il Jainismo alla fin fine riconobbe la propria debolezza come religione priva di sacerdozio, accettando che gli officianti nei suoi templi fossero brahmani hindū. Il Buddhismo, invece, migrò fuori dell’India.

8Mahābhārata, I, 66, 48. 9Agni Purāṇa, CCLXXVI, 22.

eccellenza Manu, il primo uomo, che stabilì le regole10 per l’esistenza degli esseri di questo mondo. Il termine rājan, negli altri casi, è attri- buito a divinità che svolgono la funzione di reggitori, quali Varuṇa, Agni, Soma e, per eccellenza, Indra, Re degli déi. Si deve intendere che il regno, rājya, di Manu rappresenta davvero l’età dell’oro della mitologia indiana11, dopo di che, con il succedersi di un’altra era, l’equilibrio e la perfezione delle origini vennero a oscurarsi. Lo stesso Regno rimase suddiviso tra diversi Re12, frequentemente in lotta tra loro, e il vero Regnum, la sovranità su tutta la terra, rimase come il ri- cordo di un Eden perduto. Tuttavia si concepì che, sebbene in un’epoca decaduta13, alcuni rājan d’eccezionale personalità, inclini alla verità e alla virtù, potessero restaurare il Regno primordiale, as- soggettando tutta la terra alla pace e alla giustizia14. Un monarca di un singolo regno, dunque, poteva ripristinare l’ordine primigenio perse- guendo gli ideali di santità e di conquista, diventando così Imperatore. Come si può notare, l’ideale imperiale, a differenza di quello regale, è basato sul principio della restaurazione. In questo modo il Regno, an- dato in frantumi come un vaso di ceramica, poteva essere riunificato nell’Impero15. Non a caso Imperatore suona in sanscrito saṃrāṭ, colui che riunisce i regni, e impero sāmrājiya, integrazione di regni. Ben presto però il termine saṃrāṭ fu usato come sinonimo dei più popolari titoli di sārvabhauma, [signore dell’] intero mondo, ādhipati, supremo

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Non a caso la radice √rij-reg, da cui derivano i titoli regi in gran parte delle lingue della famiglia indoeuropea, indica l’idea di regolare, mettere ordine, misurare, estende- re.

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Anche la mitologia indiana, come quella esiodea, conosce quattro età, che si succe- dono nel senso della decadenza. Le quattro età sono dette satyayuga, tretāyuga, dvā-

parayuga e kaliyuga.

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Questi sovrani erano riconosciuti come legittimi successori di Manu, la loro limita- zione consistendo esclusivamente nella loro pluralità causata dalla decadenza dell’intero mondo. A costoro furono anche attribuiti i titoli di raj, re, pārthiva, signore di un dominio, kṣamābhṛt, capo di una signoria, nṛpa, padrone di uomini, bhūpa, pa- drone di terre, mahīkṣit, il massimo supervisore.

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Gli Imperatori cominciarono a comparire nella seconda età del mondo, durante il

tretāyuga. Brahmāṇḍa Purāṇa, I, 1, 98; II, 23, 71; Matsya Purāṇa, CXLII, 64-65; Vāmana Purāṇa, LVII, 66-80.

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Da ciò si evince come la qualifica di Imperatore sia strettamente personale e, perciò, essa non assuma caratteristiche dinastiche.

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Ci si riferisce qui al simbolo della frantumazione di un singolo vaso in quattro vasi identici per opera prodigiosa dei Ṛbhus. ṚV, I, 110, 3.

signore, adhirāja rajñām, Re dei re, e di cakravartin, colui che fa gi- rare la ruota [del mondo fino all’oceano esterno, āsamudrakṣitīśa]16

. Per meglio capire quali sono rispettivamente le funzioni caratte- ristiche di un Re e quelle di un Imperatore universale, sarà necessario aggiungere alcune note sui fini della vita com’erano concepiti dagli antichi indiani. Nell’India classica si enumerarono quattro ideali, ca- turvarga, e precisamente: kāma, artha, dharma e mokṣa. Kāma com- prende la sfera del desiderio e della sua soddisfazione. Si tratta del dominio sottoposto all’esperienza del mondo attraverso i cinque sensi, e al piacere che se ne deve trarre, evitandone le conseguenze sgrade- voli. La concezione di massima prevede che l’essere umano sia prov- visto dei mezzi per trarre piacere dal mondo che lo circonda, per cui egli ha un naturale diritto a ricercarne il godimento e a evitarne la sof- ferenza. Questo ideale presuppone la capacità di scelta e di rifiuto che accomuna la casta dei nobili kṣatriya e a quella dei viś, i ricchi.

Artha, invece, è la sfera del potere, inteso come gestione della cosa pubblica, della giustizia e della difesa. È cosa propria ai rājanya e, in particolare, al Re. Dharma è il dominio della Legge universale, che dà regola al mondo e ordina e armonizza le gerarchie degli esseri. Dharma s’imparenta per mezzo della radice √ dṛ-dhru al termine dhruva, l’immobile, che definisce la stella polare, unico punto fisso dell’universo mondo. Da quest’ultima affermazione si può ben com- prendere che il dharma è l’ideale del cakravartin17. Ora, poiché l’ordine cosmico, ṛtam, non è conservato dalla volontà degli individui, ma dai rituali solenni che sono in grado di contrastare la decadenza

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Sul significato di cakravartin come motore immobile dell’intero universo, axis

mundi, concordano tutti gli specialisti. Certamente il termine può assumere significati

più peculiari se attribuiti a personaggi diversi. Per esempio, se attribuito al Buddha, es- so significherà, colui che ha messo in moto la ruota [della legge]. Nel Veda è usato per definire Indra come colui che mise in moto il sole nella sua orbita (apparente), dando così inizio al tempo. ṚV, IV, 17, 14. Sulla concezione universale della ruota che dà il nome al cakravarti è detto: “Il grande cakra che ha forma di una ruota di carro, più grande della ruota del mondo, più grande della ruota del tempo: possa il cakra del ca-

kravartin proteggerci.” Ṣoḍaśāyudhastotram, 2. Altri titoli s’incontrano nella letteratu-

ra sanscrita per definire l’Imperatore, come svārājan, autocrate e māhārājā, termine inflazionato durante il dominio britannico, per cui tutti i più irrilevanti feudatari indiani poterono fregiarsene.

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I Dharmasūtra, testi sacri che enumerano le leggi del dharma, sono di più ampio re- spiro e comprendono i doveri degli appartenenti a tutte le caste; in questi testi, perciò, si trovano anche le parti che riguardano specificatamente i doveri dei Re, rājādharma. L’applicazione totale dei contenuti dei dharmasūtra, invece spetta al cakravartin.

ciclica, si comprenderà che questo dominio sarà comune all’Imperatore e ai brahmani18, a esclusione dei semplici rājanya19. Quest’affermazione è d’importanza centrale per l’argomento trattato; da quanto appena affermato si trae, dunque, che, a differenza del Re, che agisce in base a ragioni di opportunità politica, l’Imperatore svol- ge una funzione carismatica nel dominio del rituale20. In definitiva, dharma è il principio di stabilità che regge l’universo rotante, senza tuttavia rimanere coinvolto da questo divenire, imponendo l’ordine ṛtam e contrastando il disordine, anṛtam21

.

Sarà ora opportuno stabilire in che modo un semplice guerriero, rājanya o kṣatriya che dir si voglia, ottenga di essere proclamato Re, rājan, per poi stabilire le sottili differenze con l’ottenimento della di- gnità imperiale. Come sempre, nella civiltà hindū tutto dipende dalla volontà sacerdotale, che s’esprime in forma rigorosamente rituale. Comunque sia, l’elevazione di un rājanya al trono, fin dall’ epoca più antica dipende da regole dinastiche, per cui è eccezionale che sia pro- clamato rājā chi non sia figlio di Re. Queste regole prevedono rigoro- samente quella legge che in Occidente è detta salica, sebbene l’India non tenga in altrettanta importanza la successione per primogenitura. L’erede al trono22, sotto la guida del purohita, il brahmano prescelto per essere il cappellano di corte, doveva sottoporsi al rito di consacra- zione regale, rājasūya, che poteva avere una durata di oltre due anni, e che comprendeva molteplici oblazioni di soma23, tra cui il più impor- tante era il pavitra24, e diversi sacrifici animali. A conclusione del primo anno dedicato ai sacrifici, il purohita impartiva al kumāra

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I brahmani rappresentano nel contesto sociale coloro che, tralasciando l’azione, si dedicano alla contemplazione. L’unica azione che è loro concessa è quella rituale, che, in quest’ottica, ha origini e fini che trascendono la sfera dell’azione mondana.

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Rivolgendosi allo kṣatriya Arjuna, Kṛṣṇa afferma: “Qualsiasi utilità ci sia in tutti i ri- ti vedici, tutto ciò è contenuto nell’utilità della retta conoscenza posseduta dal brahma- no che ha rinunciato al mondo e ha completamente realizzato la verità che concerne la realtà assoluta… tu sei qualificato solamente per l’azione, non per la via della Cono- scenza.” Bhagavad Gītā, Śaṃkara Bhāṣya, II, 46-47.

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Il quarto ideale, il mokṣa, consiste nella Liberazione dal ciclo trasmigratorio delle nascite e delle morti, e coinvolge principalmente la sola casta sacerdotale.

21ṚV, X, 124, 5. Cfr. G. G. Filippi, Cakravartin: mithyc and historical symbols, in “Annali di Ca’ Foscari”, XXX, 3, S. O. 22, pp. 126-127.

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Al principe ereditario si attribuisce il titolo di kumāra, il fanciullo, esattamente allo stesso modo in cui in Spagna si usa il termine d’Infante. Rājā kumāra è invece d’uso recente.

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Succo fermentato ottenuto dalla spremitura della pianta omonima. 24

l’iniziazione regia, dīkṣā, che si sviluppava ritualmente simulando la morte e rinascita del principe, a cui seguiva un altro anno dedicato al rito di abhiṣeka, unzione o aspersione del Re. L’abhiṣeka si realizzava con abluzioni, alternate alla vestizione di dieci sottovesti e vesti, che rappresentavano la crescita dell’embrione durante i dieci mesi lunari di gestazione. Alla fine la collocazione sul capo del principe di un ric- co turbante, uṣṇīsa, rappresentava una vera e propria incoronazione, a cui seguiva un rituale che simulava un matrimonio tra il brahmano e il Re, in cui al sacerdote spettava la funzione maschile: “Io sono quello, tu sei questa, io sono il Cielo, tu la Terra”25. Il tutto si concludeva con il conferimento dello scettro, vajra26, alla recitazione d’una vera e propria formula di accipe sceptrum: “Noi sacerdoti t’abbiamo messo in mano la folgore!”27

Come s’è detto innanzi, tutto ciò riguarda l’incoronazione del Re. I testi sacri affermano infatti: “Compiendo il rājasūya si diventa un Re, rājan; ma compiendo il vājapeya si diventa Imperatore, saṃrāṭ: la dignità regale deve essere ottenuta per prima, e poi quella imperia- le”28.

Anche nel caso della consacrazione imperiale le scelte sono da attribuire ai sacerdoti, per cui lo svolgimento è strettamente rituale. Il purohita di un rājan, dopo aver verificato le alte virtù del sovrano e consultati i brahmani del regno, indìce il rito detto libagione per la corsa, vājapeya. Anche in questo caso il vājapeya appare come l’aggregazione di moltissimi rituali vedici di lunga e complessa prepa- razione. Il candidato Imperatore dovrà ricevere una nuova iniziazione, dīkṣā, e presenziare al rito sempre in un abito da neonato di seta bian- ca. Sul far dell’autunno è allestito un ippodromo di pianta ellittica, che

25Aitareya Brāhmaṇa, VIII, 27. 26

Lo scettro, in India, è la folgore usata come un’arma, sia dai Re umani, sia da Indra,

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