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La questione della diseredazione di un legittimario: il principio

2.2 Definizione dell'istituto

3.3.1 La questione della diseredazione di un legittimario: il principio

Analizzando la questione dell'ammissibilità della clausola meramente negativa, dopo aver concluso per la possibilità di inserirla nella scheda testamentaria al fine di escludere dalla delazione un successibile ab intestato – anche nel caso in cui l'atto di ultima volontà si esaurisca in tale unica disposizione – rimane da affrontare uno degli aspetti più critici del problema, ossia l'individuazione della reazione dell'ordinamento di fronte alla diseredazione di un erede necessario.

Per erede legittimario si intende quel soggetto, tassativamente indicato dalla legge all'art. 536 c.c. (ossia, il coniuge204, i figli,

nonché, in assenza di questi ultimi, gli ascendenti) il quale ha diritto a una quota del patrimonio del de cuius, chiamata quota di legittima o riserva o porzione indisponibile205.

Il testatore non può disporre di tale porzione del patrimonio ereditario, la quale deve essere attribuita ai legittimari anche nel caso

204 Si deve qui intendere anche la parte dell'unione civile.

205 Per un inquadramento di carattere generale dell'istituto della successione necessaria, v. M. C. Andrini, voce: “Legittimari”, in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, p. 1 ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro 2° del codice

civile, Napoli, 1990, p. 199 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 2. La famiglia – Le successioni, cit., p. 665 ss.; G. Bonilini, Diritto delle successioni, cit., p. 106

in cui sia stata espressa una volontà contraria del de cuius. A sancire la modalità di calcolo delle quote di riserva, differenti a seconda delle varie ipotesi di concorso tra legittimari, è l'art. 556 cc: per determinare l’ammontare della quota di cui il de cuius poteva liberamente disporre si forma una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al momento della morte, detraendone i debiti. Si riuniscono quindi fittiziamente i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, secondo il valore determinato in base alle regole dettate negli articoli 747 a 750 c.c, e sull’asse così formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre206.

All'interno del codice civile troviamo due disposizioni che esplicitamente garantiscono i diritti dei legittimari: l'art. 457 comma 3 e l'art. 549. Stabilendo il primo che “le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari” ed il secondo che “il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari” gli spazi di manovra che residuano per la clausola di diseredazione sono pressoché nulli.

La dottrina distingue, in linea di principio, due forme di intangibilità della legittima: una in senso qualitativo ed una in senso

206 In primis si guarda a ciò che resta, ossia si determina il relictum, in

seguito si detraggono dal relictum le passività, cioè i debiti, comprese le spese funebri e quelle per la redazione dell’inventario. In terzo luogo, alla somma ottenuta si aggiunge il donatum, ossia il valore delle donazioni effettuate in vita dalla persona defunta e più in generale di tutti i beni di cui il de cuius abbia disposto con un atto di liberalità. La stima del valore del relictum e del

donatum, nonché dei debiti deve essere fatta secondo il valore che essi hanno al

momento dell’apertura della successione. Sull’asse così ottenuto si calcolano le quote di legittima; dopodiché per verificare se il legittimario sia leso, egli dovrà effettuare la cosiddetta imputazione ex se, cioè imputare le donazioni, le liberalità ed i legati disposti dal de cuius a suo favore per verificare se tali disposizioni bastino a coprire la quota a lui spettante oppure no.

quantitativo207.

Con riserva qualitativa si intende l'impossibilità per il testatore di determinare la natura dei beni che andranno a comporre la quota del legittimario: essi dovrebbero, a seconda delle interpretazioni, essere identici a quelli esistenti nel patrimonio ereditario, o quanto meno beni relitti.

Tuttavia, l'opinione prevalente208 ritiene che il principio di

intangibilità della legittima debba essere letto in senso quantitativo: salvo il diritto dei legittimari a vedersi attribuito un valore corrispondente, non si ritiene esistente alcun vincolo in capo al testatore riguardo alla specie dei beni che vengono attribuiti. Un chiaro indizio del fatto che il nostro ordinamento accolga il principio di intangibilità della legittima nella sua accezione quantitativa è rappresentato dall’art. 588 c.c. che prevede l'institutio ex re certa e dall’art. 734 c.c. sulla divisione del testatore, che gli attribuisce la facoltà di dividere i suoi beni tra gli eredi, comprendendo nella divisione anche la parte non disponibile209

Nonostante siano previste, proprio dallo stesso codice, tutta una serie di deroghe al principio di intangibilità della legittima – come la cosiddetta cautela sociniana (cfr. art. 550 c.c.), o il legato in sostituzione di legittima (cfr. art. 551 c.c.), o ancora la sostituzione fedecommissaria (cfr. art. 692 c.c.) – la clausola di diseredazione del legittimario non rientrerebbe tra queste, vista l'attenzione rivolta alla tutela dei più stretti legami parentali e della solidarietà familiare da parte della successione necessaria.

E comunque il carattere di norma imperativa dell'art. 549 c.c. comporterebbe la nullità della clausola negativa se quest'ultima fosse

207 Per un approfondimento v. A. Bucelli, I legittimari, Torino, 2002, p. 267 ss.

208 Cass. 12 settembre 2002, n. 13310 209 G. Capozzi, op. cit., p. 287.

letta come peso o condizione imposto sulla quota di legittima.

3.3.2 Inammissibilità della diseredazione del legittimario

Secondo la dottrina tradizionale, vista la garanzia normativa prevista dalla legge per la posizione successoria dei legittimari e stante il radicato principio dell’intangibilità della legittima ex art. 457, terzo comma c.c, la diseredazione di un legittimario sarebbe – a parte il caso del nuovo art. 448 bis c.c. – ontologicamente impossibile. Occorre quindi determinare la sorte che tale clausola può avere nel nostro ordinamento.

La dottrina, nel corso degli anni, ha sempre oscillato tra due tesi contrapposte: quella che sanziona tale clausola con la nullità e quella che permette al legittimario di reintegrare la propria quota attraverso l'azione di riduzione, così come avviene nel caso di disposizioni testamentarie e donazioni con cui il testatore abbia leso la legittima.

Decidere quale orientamento prediligere non è, però, questione di ordine squisitamente teorico.

Una delle più importanti ripercussioni che scaturiscono dall’adesione a uno degli orientamenti di cui sopra concerne un tema fondamentale per la tutela dei diritti dell'erede, e cioè l'individuazione dei termini prescrizionali che deve rispettare affinché possa chiedere in giudizio la reintegrazione della propria quota di legittima: privilegiando la tesi della nullità ne conseguirebbe l'imprescrittibilità della relativa azione, con il vantaggio della rivelabilità d'ufficio del vizio; privilegiando quella della riducibilità l'erede dovrebbe azionarsi entro l'ordinario termine decennale210.

L'altra conseguenza concerne la sperequazione di trattamento dell'erede necessario a seconda che sia o meno citato nel testamento. Se il de cuius contemplasse il successore nella scheda testamentaria con una clausola volta alla sua esclusione – essendo la fattispecie in questione quella del legittimario diseredato – ne dovremmo concludere che, seguendo la tesi della nullità ex. art. 549 c.c., la relativa declaratoria ottenibile senza limite di tempo porrebbe su un piano di esclusivo favor l'erede, il quale invece dovrebbe intentare azione di riduzione se fosse stato semplicemente preterito.

La fonte della controversia dottrinale è da ricercarsi nella contraddizione del dato normativo: se da una parte l'art. 549 c.c. e l'art. 457 comma terzo c.c. sanciscono, rispettivamente, il divieto di imporre pesi o condizioni sulla legittima e l'impossibilità di pregiudicare i diritti riservati ai legittimari con disposizioni testamentaria, dall'altra l'art. 533 c.c. prevede un'azione di riduzione delle disposizioni testamentaria e delle donazioni che hanno leso la quota a loro riservata.

Autorevole dottrina211 invita, al fine di determinare il corretto

strumento da utilizzare in caso di lesione della quota di riserva, a verificare se detta lesione sia causata dall'attribuzione di beni ereditari avvenuta a favore di un terzo. Se il testatore ha pregiudicato il diritto del legittimario perché ha disposto in favore di altri soggetti nella misura superiore alla sua quota disponibile, allora l'ordinamento appresta il rimedio di cui all'art. 553 c.c: tale disposizione, non nulla

giurisprudenza: se originariamente si prendeva come punto di riferimento il momento dell'apertura della successione (cfr. Cass. n. 4230/87 e Cass. Civ. n. 11809/97), a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite con sentenza n. 20644/2004, il termine di prescrizione comincia a decorrere a partire alla data di accettazione dell'eredità del chiamato in base alle disposizioni testamentarie che ledono la sua quota di legittima.

ma valida, verrà ridotta così da poter reintegrare la quota del legittimario. Di contro, l'art. 549 c.c. troverà applicazione quando non sia riscontrabile una disposizione da poter ridurre, cioè quando sia stata direttamente apposta alla legittima – ad esempio attraverso un modus – un peso o una condizione.

Di diversa opinione sono altri due orientamenti che si contendono il campo in dottrina.

Secondo una prima tesi – per la verità minoritaria212 – a tutela del

legittimario espressamente diseredato nella scheda testamentaria, al pari di ciò che accade per il legittimario pretermesso, è predisposta l'azione di riduzione (artt. 553 ss. c.c.). La ragione di tale conclusione è da rinvenire nel presupposto necessario affinché l'azione di riduzione possa essere intentata: il carattere attributivo della disposizione da ridurre. Ciò significa che in questo caso, la clausola negativa resterebbe valida ed efficace – anche perché nessuna norma commina esplicitamente una nullità – pur essendo un efficiacia sub

iudicio, destinata a tramontare al momento dell'esperimento

vittorioso dell'azione citata213.

Si avverte che in questo caso il solo fatto di dover attivare il circuito giurisprudenziale al fine di tutelare i propri diritti non può essere considerato come prova dell'ammissibilità di questa forma di diseredazione. Ovviamente, se il legittimario rimane inerte, la clausola diseredativa non verrà mai caducata e sarà capace di produrre i suoi effetti, ma ciò non significa che l'ordinamento non si sia preoccupato di predisporre un'adeguata disciplina che possa reintegrare la quota del successore leso.

Al contrario, la tesi maggioritaria214 ritiene che, per ragioni che

oscillano tra la violazione di norme imperative che disciplinano la

212 G. Pfnister, La clausola di diseredazione, in Riv. not., 2000, p. 915. 213 In tal senso, G. Capozzi, op. cit., p. 133.

successione necessaria (su tutte, l'art. 457 comma 3) e il divieto di imporre pesi e condizioni sulla legittima, la sanzione predisposta dall'ordinamento sia quello della nullità, in un caso ex art. 1343 c.c.215, e nell'altro ex art. 549 c.c. A spostare l'ago della bilancia

sarebbe la considerazione secondo la quale la clausola negativa mira semplicemente ad escludere il successibile dalla successione, e non anche ad attribuire beni a terzi. In altre parole, di fronte ad una clausola del tipo “Diseredo Tizio”, la volontà del testatore non lascia trasparire nulla di ciò che riguarda il profilo attributivo, concentrandosi invece sul profilo privativo, a prescindere dall'ovvia constatazione che, indirettamente, anche la clausola diseredativa si ripercuote su quei successibili che non sono stati esclusi.

3.3.3 Ricevibilità del testamento contenente l'esclusione del legittimario

All'interno della tematica della diseredazione del legittimario, se si accetta la tesi della sanzione dell'invalidità della stessa, un profilo di pratica importanza riveste la determinazione delle conseguenze che il pubblico ufficiale chiamato a ricevere il testamento subirebbe se dalla scheda testamentaria risultasse una clausola di tal fatta.

La categoria dei notai è tenuta a rispettare, fra gli altri, i principi sanciti dal Codice Deontologico216 e le disposizioni previste dalla

Legge 16 febbraio 1913 n. 89. la cd legge notarile (d'ora in poi l.n.).

215 Il quale sancisce: “La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.

216 Approvato con deliberazione del Consiglio Nazionale del Notariato n. 2/56 del 5 aprile 2008 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 30 luglio 2008.

Dal combinato disposto degli artt. 27217 e 28218 della l.n. traspare

che il notaio deve prestare il suo ministero ogni qualvolta non si rientri in atti espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico, oltre che in tutta una serie di casi di incompatibilità (es: se il coniuge è anche parte dell'atto).

Se si accetta la conclusione secondo la quale la clausola di diseredazione di un legittimario è nulla, ecco che occorre chiarire il significato delle parole utilizzate dal Legislatore, per capire se e in che misura la responsabilità (quantomeno) disciplinare possa ricadere sul pubblico ufficiale, il quale, lo ricordiamo, è tenuto dall'art. 47 della l.n. ad “indagare la volontà delle parti” nella redazione dell'atto.

Ovviamente si deve trattare di un testamento sul quale sia

217 L'art. 27 l.n. dispone che: “Il notaro è obbligato a prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto. Egli non può prestarlo fuori del territorio del distretto in cui trovasi la sede notarile”.

218 L'art. 28 l.n. stabilisce che: Il notaro non può ricevere atti:

1. se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico;

2. se v'intervengano come parti la sua moglie, i suoi parenti od affini in linea retta, in qualunque grado, ed in linea collaterale, fino al terzo grado inclusivamente, ancorché v'intervengano come procuratori, tutori od amministratori;

3. se contengano disposizioni che interessino lui stesso, la moglie sua, o alcuno dei suoi parenti od affini nei gradi anzidetti, o persone delle quali egli sia procuratore per l'atto, da stipularsi, salvo che la disposizione si trovi in testamento segreto non scritto dal notaro, o da persona in questo numero menzionata, ed a lui consegnato sigillato dal testatore.

Le disposizioni contenute nei numeri 2 e 3 non sono applicabili ai casi d'incanto per asta pubblica. Il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l'importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell'atto, salvo che si tratti di persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, oppure di testamenti”.

possibile, per il notaio, effettuare un controllo, donde la conseguente esclusione del testamento segreto (cfr. art. 604 c.c.). Infatti, questa particolare forma di scheda testamentaria viene redatta dal testatore e successivamente consegnata sigillato al notaio, con la conseguenza che quest'ultimo non ne conoscerà il contenuto fino al momento della sua pubblicazione.

Ciò non vale per il testamento pubblico, il quale, ai sensi dell'art. 603 c.c. viene direttamente redatto dal notaio stesso, al quale le ultime volontà vengono dettate dal testatore alla presenza di due testimoni.

In altri termini, ci si chiede se, con l'estensione dell'art. 28 agli atti mortis causa, nella categoria degli “atti espressamente proibiti dalla legge” possa rientrare la clausola negativa che sia rivolta al legittimario.

L'interpretazione che l'art. 28 l.n. ha subito nel tempo si divide tra una tesi estensiva ed una tesi restrittiva. La questione principale riguardava l'inclusione o meno degli atti annullabili nella disposizione de quo.

La tesi estensiva, rimasta predominante in dottrina e in giurisprudenza fino alla sentenza della Cassazione 11 novembre 1997, n. 11128, attribuiva all'art. 28 l.n. un significato tale per cui non solo per atti espressamente proibiti dalla legge dovevano intendersi gli atti nulli, ma anche quelli annullabili. Capiamo che estendere o limitare la portata applicativa della disposizione de quo significa ampliare o meno la relativa responsabilità disciplinare: l'art. 138 l.n. sanziona con la sospensione da sei mesi ad un anno il notaio che viola, tra gli altri, l'art. 28 l.n.

La giustificazione di tale estensione veniva indicata dalla Suprema Corte nella volontà della norma di riferirsi “non solo agli atti vietati singolarmente e specificamente dalla legge ma altresì a

tutti gli altri atti comunque contrari a disposizioni cogenti della legge, ossia non aderenti alla normativa legale, di ordine formale e sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità o annullabilità”219. Sarebbe illogico, infatti, che il notaio, proprio in

veste di soggetto previsto dall'ordinamento al fine di garantire la certezza dei rapporti giuridici e la legalità, compia atti giuridici viziati.

La conseguenza dell'ampia interpretazione dell'art. 28 l.n. comportava, per stabilire se un atto rientrasse o meno nella sua formulazione, l'individuazione di un divieto posto dalla legge, a prescindere da come tale divieto sia stato formulato: vi rientrerebbero, indistintamente, sia l'art. 5 c.c. con riguardo agli atti di disposizione del proprio corpo dove si esprime tale divieto con il termine “è vietato”, sia l'art. 781 c.c. con riguardo alle donazioni tra coniugi dove si utilizza la formula “non potere”, e, più in generale, quando siano presenti le sanzioni della nullità o dell'annullabilità in quanto la sola previsione da parte del legislatore di detta sanzione testimonia la volontà, a monte, di porre un divieto.

Tuttavia, già ben prima della storica pronuncia del 1997, gli studiosi si chiedevano se la severità della disciplina potesse essere mitigata privilegiando un'altra lettura della disposizione, sostenuta da diverse ragioni.

Innanzitutto, l'art. 28 già denotava la natura di norma eccezionale proprio perché seguente alla disposizione secondo la quale il notaio doveva prestare assistenza a coloro che la chiedevano.

Inoltre, uno sguardo ai lavori preparatori conferma la volontà di delimitare la responsabilità del notaio attraverso i due avverbi inseriti nella disposizione: “espressamente” e “manifestamente”. Durante il

219 Tra le altre, Cass., 7 settembre 1977, n. 3893 e Cass. 10 novembre 1992, n. 12081.

Governo Luzzati, l'allora Ministro di Grazia, Giustizia e dei Culti, Cesare Fani, propose durante una seduta al Senato la seguente stesura dell'art. 28: “Il notaro non può ricevere atti: 1) se essi sono manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico. Ove si tratti di negozi che non hanno o potrebbero non avere giuridica efficacia, o che sono in qualunque modo suscettibili di impugnativa per nullità, revocazione, rescissione, il notaio ha l’obbligo di avvertire di ciò le parti prima di procedere al compimento dell'atto; e riceverà l'atto solo quando esse insistano, facendo menzione in questo dell'avvertimento da lui fatto e delle risposte avute” con lo scopo di limitarne l'estensione. Questa versione, a causa di una problematica di invasione di competenze dell'attività del giudice, non venne accettata ed infatti non compare nel testo definitivamente approvato il 12 Febbraio 1913, il quale tuttavia dimostra, utilizzando sapientemente il lessico italiano, un intento limitativo, potendo benissimo esistere atti espressamente proibiti ed atti che, seppur proibiti, non lo sono in maniera espressa220.

Da un punto di vista storico, oltretutto, non è sfuggito il fatto che la formulazione dell'art. 28 ricalcava quella dell'art. 24 del “Testo unico delle leggi sul riordinamento del notariato” n. 4900/1879, a sua volta identico all'art. 1122 del codice civile del 1865, il quale si riferiva ai soli atti nulli. Ora, il codice civile vigente ripropone una pressoché identica formula nel Libro delle obbligazioni, quando, trattando della causa del contratto afferma che essa deve intendersi illecita quando “è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”.

Ed infatti la Corte di Cassazione nel 1997, chiamata a decidere su una serie di presunte contravvenzioni commesse da un notaio, chiarì

220 Per un approfondimento della materia, v. G. Cerbioni, Riflessioni sulla

come si dovesse leggere la formula “atti espressamente proibiti”, ritenendola collegata ad ogni caso di nullità, non solo quella prevista dal comma 1 dell'art. 1418, il quale sanziona il contratto che risulta contrario a norme imperative, ma anche quelle nullità assolute sancite ai commi 2 e 3 (illiceità della causa, mancanza dei requisiti previsti all'art. 1375, ecc). Secondo la Suprema Corte, l'avverbio utilizzato dal Legislatore deve essere interpretato superando il suo significato letterale, per essere inteso come “inequivocabilmente”, dato che anche se la norma imperativa non esprime a chiare lettere la proibizione o la sanzione della nullità, tale sanzione è gioco forza derivata dall'art. 1418 comma 1.

La posizione della Corte di Cassazione venne ribadita in successive pronunce, così da formare ad oggi l'orientamento dominante: il notaio deve “provvedere anche ad una corretta interpretazione delle norme di legge, in modo da evitare la stipulazione di atti affetti da nullità assoluta221”; “l'atto vietato per il

notaio, a norma dell'art. 28 l.n., è l'atto affetto da nullità assoluta, e dà luogo a responsabilità disciplinare del notaio rogante anche la formazione di un atto solo parzialmente invalido, perché contenente

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