• Non ci sono risultati.

L'evoluzione della clausola di diseredazione alla luce delle recenti innovazioni normative e giurisprudenziali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'evoluzione della clausola di diseredazione alla luce delle recenti innovazioni normative e giurisprudenziali"

Copied!
172
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

pag.

Introduzione...6

CAPITOLO I

LE ORIGINI DELLA DISEREDAZIONE:

L'EPOCA ROMANA

1.1 Focus del fenomeno successorio nel diritto romano...11

1.2 Istituzione o diseredazione: lo ius civile...14

1.3 L'intervento formale e sostanziale del pretore...19

1.4 Indegnità a succedere...24

1.5 La nascita della querela inofficiosi testamenti...25

1.6 Le novallae Constitutiones in materia ereditaria...30

1.7 La situazione a seguito del crollo dell'impero romano...34

CAPITOLO II

LA CLAUSOLA DI DISEREDAZIONE: L'EPOCA

MODERNA

2.1 Assenza di un riferimento normativo...…...42

(2)

2.3 Diseredazione e indegnità...49 2.4 Preterizione, revoca di precedenti disposizioni ereditarie e art. 733 c.c.: punti di contatto e differenze...51 2.5.1 Il dibattito dottrinale: la diseredazione del successibile non legittimario...58 2.5.2 Orientamento contrario alla validità del testamento che si esaurisce con la sola clausola di diseredazione... 61 2.5.3 Orientamento favorevole alla validità della clausola di diseredazione...66 2.6.1 La diseredazione in giurisprudenza...71 2.6.2 Il punto di svolta: la sentenza n. 8352/2012...79 2.6.3 I problemi interpretativi suscitati dalla sentenza n.

8352/2012: la questione dell’operatività della rappresentazione a favore dei discendenti dell’escluso... 83

2.6.4 La diseredazione del coniuge: Cassazione n. 25240 del 2013...87

CAPITOLO III

CONSIDERAZIONI SULLE RECENTI

RIFORME: UNIONI CIVILI, FILIAZIONE E

NOVELLA INTRODOTTA DELL'ART. 448-BIS

3.1 La riforma della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219): rapporto di parentela e profili

successori...92 3.1.1 La nozione di parentela naturale prima della riforma...92 3.1.2 La nozione di parentela alla luce della riforma del

(3)

2012...102

3.1.3 Aspetti successori della riforma della filiazione...109

3.2.1 La c.d. Legge Cirinnà (Legge 20 maggio 2016, n. 76): unioni civili e convivenze di fatto...112

3.2.2 Profili successori conseguenti alla Legge 20 maggio 2016, n. 76: la parte superstite dell'unione civile...119

3.2.3 Profili successori conseguenti alla Legge 20 maggio 2016, n. 76: la parte superstite della convivenza ex. art. 36...124

3.3.1 La questione della diseredazione di un legittimario: il principio di intangibilità della legittima...127

3.3.2 Inammissibilità della diseredazione di un legittimario...130

3.3.3. Ricevibilità del testamento contenente l'esclusione del legittimario...133

3.4.1 L'introduzione dell'art. 448 bis c.c.: prospettive di diseredazione...139

3.4.2 L'ambito soggettivo di applicazione...144

3.4.3 Uno strumento sanzionatorio unidirezionale...148

3.4.4 L'ambito oggettivo di applicazione...151

3.5 Le istanze di riforma della successione necessaria...155

Riflessioni Conclusive...160

(4)

Introduzione

Il presente studio si pone l'obiettivo di indagare il tema della clausola di diseredazione, intendendo la stessa come espressione della libertà testamentaria del de cuius volta all'esclusione di alcuni suoi successori, siano essi eredi legittimi o necessari.

La questione dell'ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico della disposizione testamentaria de quo, pur avendo animato la dottrina, la giurisprudenza e gli studiosi della materia a partire dal momento immediatamente successivo all'unificazione del nostro Paese – essendo la metà del XIX sec. l'ultimo arco di tempo in cui era possibile trovare, nero su bianco, la disciplina della clausola diseredativa – ha radici che si estendono fino all'epoca romana.

Per tale ragione abbiamo deciso di distribuire il seguente lavoro in tre distinte sezioni, iniziando da una ricostruzione storica

dell'istituto, consapevoli che la conoscenza dell'exheredatio romana sia indispensabile per comprendere appieno tutte le successive evoluzioni che l'istituto ha, fin da quel momento, attraversato.

Il primo capitolo sarà quindi dedicato all'analisi del fenomeno della successione in epoca romana, cominciando dalle preziose indicazioni che sono a noi pervenute attraverso le Dodici Tavole, la più antica raccolta di leggi scritte di Roma1.

Una primordiale traccia di preoccupazione relativa alla materia in esame è rinvenibile in un antico principio dello ius civile2, secondo il

1 Si stima che le leggi delle XII tavole risalgano al 450-451 a.C.

2 Per ius civile si intende quella disciplina che a Roma regolava i rapporti tra i suoi cives, essendo lo ius honorarium rivolto ai non cittadini.

(5)

quale il paterfamilias3, se decideva di redarre una scheda

testamentaria, avrebbe dovuto – a pena di invalidità – menzionare una particolare categoria di eredi, ossia tutti i discendenti su cui esercitava la potestà (c.d. sui heredes). L'ambito di autonomia del de

cuius era limitato dall'onere di menzione, potendo egli determinare

distinguere solo tra l'istituzione di erede oppure la diseredazione. Come si capisce, si trattava semplicemente di una formalità: una volta prestata la dovuta attenzione a inserire il suo nel testamento, niente tutelava quest'ultimo dall'esclusione dalla successione o dall'attribuzione di minime sostanze. In altre parole, ciò che con questo principio si voleva evitare, era la preterizione di determinati successibili.

Ciò che realmente segnò uno spartiacque nella materia fu il sorgere – attraverso l'abilità degli oratori romani – di un'azione che poteva essere intentata dal diseredato nei confronti del de cuius macchiatosi della violazione dell'officium pietatis, ossia il dovere morale di rispetto, dedizione e affetto da osservare nei confronti dei parenti.

Soltanto con le riforme Giustinianee si arriverà a catalogare e tipizzare le cause di diseredazione (14 per gli ascendenti ed 8 per gli ascendenti), così da ricollegare ad ogni comportamento ritenuto abietto dall'ordinamento – come, ad esempio, l'impedimento della confezione del testamento o l'avvelenamento del coniuge – la sanzione dell'esclusione dalla successione.

Il secondo capitolo prende le mosse dal dato di fatto dell'assenza di una esplicita disciplina della clausola di diseredazione

nell'ordimento giuridico italiano. A differenza di ciò che accadeva negli Stati pre-unitari, a partire dal primo codice civile italiano del 1865 la clausola in commento scompare dai testi di legge,

(6)

obbligando gli interpreti del diritto a fornire chiarimenti e soluzioni sul tema.

La questione principale era la seguente: determinare se il de

cuius potesse escludere un proprio successibile attraverso una

disposizione testamentaria, la quale, quindi, mirava ad una finalità tutt'altro che attributiva. In caso di risposta positiva, occorreva individuare gli eventuali limiti della fattispecie.

Prima di addentrarci nell'esposizione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali seguiti in più di un secolo e mezzo di unità

d'Italia, abbiamo sentito la necessità di distinguere preliminarmente la clausola diseredativa da tutta una serie di istituti che possono, ad una prima lettura, essere confusi: si tratta della figura dell'indegnità, della preterizione, della revoca di precedenti disposizioni ereditarie, della clausola penale testamentaria e l'assegno divisionale semplice.

La clausola negativa, infatti, è caratterizzata da un fondamento soggettivo rintracciabile nella volontà del testatore, il quale

esplicitando nel testamento l'esclusione dell'erede rimuove in toto il diseredato dalla successione (legittima e testamentaria).

Con riguardo alla annosa questione della ammissibilità della clausola di diseredazione, si sono delineate in dottrina due interpretazioni: una, privilegiando un'interpretazione restrittiva e letterale del combinato disposto degli artt. 587 e 588 c.c – alla luce della quale si giunge ad affermare il carattere necessariamente attributivo delle disposizioni contenute nella scheda testamentaria – nega qualsiasi diritto di cittadinanza ad una clausola di tal fatta, essendo questa finalizzata a attribuire al diseredato alcunché; l'altra, evidentemente leggendo gli art. 587 e 588 c.c. sotto una diversa prospettiva – secondo la quale il verbo “disporre” ivi utilizzato è da intendersi come “regolare” piuttosto che “attribuire” – afferma la piena validità della clausola in funzione di diseredazione.

(7)

La giurisprudenza, dal canto suo, è stata chiamata a pronunciarsi sul tema fin dal 1957, orientandosi prevalentemente

sull'ammissibilità della clausola de quo solo nel caso in cui la scheda testamentaria contenesse anche disposizioni attributive. Tuttavia, la Suprema Corte, con quello che potremo chiamare un vero e proprio

overruling, pronunciandosi con sentenza del 25 maggio 2012, n.

83524, ha affermato la validità di un testamento che si esaurisca nella

sola clausola negativa.

E' stata proprio l'inaspettata inversione di tendenza

dell'orientamento della Corte di Cassazione a ravvivare l'attenzione sulla problematica, senza dimenticare, ovviamente, le recenti riforme del diritto di famiglia (una su tutte, quella della filiazione, avvenuta con Legge 10 dicembre 2012, n. 219) e le spinte

internazionali (cfr. REG. CE, 04/07/2012 n° 6505) che sempre più

hanno tentato di scardinare il plurisecolare pensiero giuridico – almeno italiano – volto alla conservazione dello status quo della successione necessaria.

Il terzo capitolo sarà, per l'appunto, dedicato all'analisi delle maggiori novità introdotte dal Legislatore negli ultimi anni,

analizzando come il rapporto di parentela sia mutato alla luce della Legge 10 dicembre 2012, n. 219, nonché come la categoria dei successibili si sia allargata con la c.d. Legge Cirinnà (Legge 20 maggio 2016, n. 76), intervenuta per disciplinare non solo le unioni civili ma anche le convivenze di fatto.

Particolare attenzione verrà dedicata infine ad una nuova disposizione di legge introdotta proprio con la riforma della

filiazione del 2012: l'art. 448 bis c.c. Incidendo sulla disciplina della

4 Cassazione civile, II sezione, 25 maggio 2012, n. 8352 in Foro It. 2012, I, col. 3400 e ss.

5 Entrato in vigore soltanto il 17 agosto del 2015, ha colmato il vuoto normativo concernente le successioni transfrontaliere.

(8)

successione necessaria – pur attraverso una pessima tecnica

legislativa – tale novella costituisce il primo segno inconfutabile del legislatore di riconoscere, nero su bianco, la possibilità di escludere dalla successione, al verificarsi di particolari circostanze, un soggetto con il quale si condivide uno stretto legame di sangue: l'ascendente.

(9)

CAPITOLO I

Le origini della diseredazione: l'epoca romana

SOMMARIO: 1.1 Focus del fenomeno successorio nel diritto romano – 1.2

Istituzione o diseredazione: lo ius civile – 1.3 L'intervento formale e sostanziale del pretore – 1.4 L'indegnità a succedere – 1.5 La nascita della querela inofficiosi

testamenti – 1.6 Le Novellae Constitutiones in materia ereditaria – 1.7 La

situazione a seguito del crollo dell'impero romano.

1.1 Focus del fenomeno successorio nel diritto romano

Essendo la tematica della clausola di diseredazione, e, più in generale, quella della successione necessaria il nucleo centrale dello studio in esame, è opportuno dedicare alla sua ricostruzione storica un'introduzione che sia in grado di metterne in risalto i suoi crismi principali, seppur essi siano stati etichettati recentemente da alcuni autori come ormai anacronistici6.

Le radici degli istituti in commento sono da ricercarsi, inevitabilmente, nel diritto romano. Purtroppo però le fonti si interrompono all'epoca di una delle più grandi – e sicuramente la prima – codificazioni del diritto vigente nell'Urbe, ossia le leggi delle XII Tavole.

6 Ci riferiamo, a mero titolo di esempio, alle considerazioni di G. Amadio, in La successione necessaria tra proposte di abrogazione e istanze di riforma, in Riv. not., 2007, dove ritiene che l'istituto della successione necessaria sia ormai “superato dalla storia”.

(10)

Quest'ultime, redatte per il fine ultimo di certezza del diritto (essendo le leggi, fino a quel momento, state tramandate oralmente), risalgono al 451-450 a.C e contenevano, tra le altre, alcune disposizioni in materia successoria7.

Se da un lato siamo a conoscenza di entrambe le delazioni ereditarie – quella testamentaria e quella legittima – nella Tavola numero 5, dall'altro sorge spontanea la questione relativa al periodo immediatamente precedente: era il pater familias in grado di devolvere la propria eredità, o parte della stessa, attraverso una scheda testamentaria anche a soggetti estranei al nucleo familiare, ovvero i più stretti congiunti venivano comunque tutelati dall'ordinamento con regole, siano esse state normative o consuetudinarie?

Nonostante l'aspro dibattito dottrinale, gli studiosi sembrano concordare sul fatto che il gruppo familiare romano costituiva oltre che l'attore principale anche quello ineludibile della successio. Ciò significa che, almeno in un primo momento, sconosciuti erano gli istituti del testamento e, giocoforza, della diseredazione, con la conseguenza che a seguito del decesso del pater familias si prediligeva la conservazione del patrimonio all'interno della stessa cerchia familiare attraverso l'individuazione di eredi che, divenuti sui

iuris, automaticamente succedevano non solo nel complesso dei beni

ma anche nella potestas ormai vacante.

Da ciò discende l'ovvia constatazione che la successione

7 In particolare, una disposizioni del Codice Decemvirale individua le categorie dei successibili nel caso in cui il de cuius non abbia redatto testamento: “si intestato moritur cui suus heres nec escit, agnatus proximus

familiam habeto, si agnatus nec escit, gentiles familiam habento” (se muore

senza testamento colui che non ha eredi propri, l’agnato prossimo abbia il patrimonio familiare, se non ha agnati, i gentiles abbiano il patrimonio familiare).

(11)

testamentaria è meno recente di quella legittima in quanto “nella mentalità romana primitiva doveva essersi fatta strada anteriormente l'idea che i beni del defunto andassero trasmessi ai familiari stretti, mentre solo in seguito, grazie ad un certo grado di evoluzione, si sarebbe ammessa la più sofisticata possibilità di redigere un atto con cui disporre del patrimonio e di alcuni aspetti non patrimoniali per il tempo successivo alla propria morte”8.

Dal passo della Tavola numero 5 si comprende però come l'atto testamento fosse già conosciuto dai cives romani.

Le uniche due forme di testamento che all'epoca9 venivano

utilizzate per rendere note le ultime volontà erano il testamentum

calatis comitiis e il testamentum in procinctu. Il primo veniva

confezionato di fronte ai comizi curiati, ossia l'assemblea romana dell'epoca Regia, i quali erano appositamente convocati per due volte all'anno10. L'altro era prerogativa dei soldati, ai quali venne permesso

di testare prima di andare in guerra di fronte all'esercito riunito in armi. Come possiamo notare, le due forme di testamento differivano principalmente per le caratteristiche del periodo in cui venivano confezionati: il primo in tempo di pace, il secondo in tempo di guerra.

Detto questo, se consideriamo le più grandi opere redatte dai giuristi romani, ci accorgiamo che più attenzione veniva dedicata alla successione testamentaria e all'atto con cui il de cuius disponeva

8 A. Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, p. 73. 9 Con il passare dei secoli saranno il testaemntum per aes et libram (cioè

mediante il bronzo e la bilancia) ed il testamento pretorio (il quale non richiedeva le formalità del precedente ma soltanto sette testimoni) ad essere i più utilizzati a Roma.

10 Si ricorda che il primo calendario utilizzato a Roma era un calendario lunare della durata di 10 mesi, e che solo successivamente, secondo quanto riporta Tito Livio nella sua opera Ab Urbe condita libri, per volontà del secondo Re di Roma, Numa Pompilio venne adottato il calendario da 12 mesi.

(12)

delle sue sostanze che non alla successione legittima: dei 50 libri di cui è formato il Digesto (533 d.C.), le successioni testamentarie sono regolate a parte, dopo il diritto della famiglia, nei libri che vanno dal 28 al 36; dei 4 libri di cui si compongono le Istituzioni di Gaio (168-180 d.C.) e le Istituzioni di Giustiniano (533 d.C.), il secondo ed il terzo sono in larga parte dedicate al testamento; sintomo che la predisposizione di una scheda testamentaria al fine di devolvere le proprio sostanze per il periodo successivo alla morte era tanto accettata quanto comune.

Se proviamo a confrontare quest'ultima considerazione con i giorni nostri, ci accorgiamo che col passare dei secoli si è andati incontro ad una curiosa inversione di tendenza, visto che la redazione del testamento è una pratica che, per varie ragioni11, vede

protagonista solo il 5%12 della popolazione.

1.2 Istituzione o diseredazione: lo ius civile

Così come nel nostro Codice civile la successione necessaria occupa un Capo – il X del Titolo I del libro II, (art.536 ss.) – a sé

11 Numerosi sono i motivi, sia psicologici che pratici, per i quali redigere una scheda testamentaria può apparire scoraggiante. Non è da tralasciare, innanzitutto, il fatto che il cittadino comune spesso non é a conoscenza dell'utilità dello strumento testamentario, il che lo porta o a procrastinare la confezione delle proprie ultime volontà o a rinunciarvi del tutto. Del resto, la falsa convinzione di dover essere un esperto del diritto per redarre testamento o che quest'ultimo concerni inevitabilmente un costo, unita alla considerazione che le norme che il nostro codice civile detta in tema di successione necessaria costituiscono un limite alla libertà del testatore, rivestono un fattore da non sottovalutare.

(13)

dedicato appositamente volto a salvaguardare i soggetti più vicini al

de cuius da disposizioni testamentarie o donazioni lesive, anche nel

diritto romano, si pensa fin dal periodo delle XII Tavole, vigeva un principio del più antico ius civile che col passare del tempo – grazie all'intervento del pretore e del diritto giustinianeo – mutò forma realizzando una vera e propria tutela in favore dei parenti stretti dell'ereditando: figli, fratelli, sorelle e genitori del de cuius13.

Il principio a cui facciamo riferimento consisteva nell'onere da parte del paterfamilias di istituire eredi o diseredare, nell'atto testamento, i sui heredes: “sui heredes aut instituendi sunt aut

exheredandi”14.

Una serie di premesse si rendono però necessarie: l'originaria concezione dell'arcaica famiglia romana nella quale il pater familias godeva addirittura del diritto di vita e di morte su coloro che erano soggetti alla sua potestà, sfociò dapprima nell'assoluta libertà per il

de cuius di nominare come eredi i discendenti oppure di ignorarli15;

inoltre, nell'esperienza romana due erano sostanzialmente i generi di

possibili heredes16:

1) l'heres che non poteva rinunciare all'eredità (trattandosi di heres

13 Assente fino all'età Giustinianea sarà la figura del coniuge all'interno dei

soggetti tutelati. 14 Gaio Inst., 2.123.

15 Soltanto successivamente, e cioè durante l'età preclassica, si è pervenuti alla regola secondo la quale i sui heredes devono essere o istituiti eredi o diseredati.

16 Cfr. M. Marrone, Manuale di diritto privato romano, Torino, 2004, p. 341: Si designavano col nome di “heredes” coloro i quali fossero i successori

mortis causa a titolo universale del de cuius e che quindi subentravano – per

l'intero o per una quota - “in un complesso, unitariamente considerato e non necessariamente definito nei suoi elementi costitutivi, di posizioni giuridiche soggettive (trasmissibili) che facevano capo ad altri”.

(14)

necessarius17 o di heres suus et necessarius18), categoria composta

dagli schiavi manomessi e dai discendenti in potestà del testatore19;

2) l'heres che poteva accettare l'eredità (trattandosi di heres

extraneus o voluntarius). Facevano parte di questa categoria

residuale tutti quei soggetti che, per un motivo o per un altro, non potevano essere ricompresi sotto le due categorie precedenti. Ai soli

heredes extraneii o voluntari era richiesta l'accettazione, non

17 Tale categoria è il frutto di un'invenzione giurisprudenziale volta alla

tutela dei creditori del de cuius in caso di hereditas damnosa – ossia

quell'eredità gravata da debiti superiori ai crediti – dove, ovviamente, nessuno avrebbe volontariamente acquistato la qualità di erede con la conseguenza poi di rispondere dei debiti ereditari. Prima che la giurisprudenza elaborasse la sua soluzione, non si faceva altro che procedere alla vendita del patrimonio ereditario (bonorum venditio) in favore dei creditori del defunto con conseguente attribuzione di “infamia” per testatore, reo di aver lasciato un patrimonio in cui le passività superavano le attività. Alla ricerca di un capro espiatorio, la giurisprudenza elaborò la categoria degli heredes necesarii identificandoli con gli schiavi che il testatore aveva liberato nel testamento stesso e che contemporaneamente aveva istituito eredi. Il fine perseguito era evidente: il testatore, consapevole delle sue passività, avrebbe in tal modo nominato un futuro titolare del proprio patrimonio nelle persone degli schiavi manomessi, i quali, non potendo rinunciare all'eredità essendo heredes

necesarii, sarebbero stati giocoforza obbligati a sottostare al procedimento di

vendita e all'infamia, la quale comportava indirette limitazioni nella vita di tutti i giorni, quale quella di non poter più postulare pro àliis (rappresentare in giudizio altre persone), di non poter usufruire dello iùs suffràgii (diritto di voto) e dello ius honòrum (cioè la possibilità di accedere a cariche pubbliche).

18 Benché si parli di “erede necessario” anche nella manualistica moderna dobbiamo evitare di fare confusione: i legittimari (trattati nel Capo X del Titolo I del Libro II del vigente codice civile), anche detti eredi necessari, non godono della medesima accezione degli “heredes necesarii”: quest'ultimi erano “necessari” perché divenivano eredi ipso iure e non avevano – almeno inizialmente – possibilità di rinunziarvi. Nel linguaggio giuridico moderno invece si parla di eredi necessari in quanto soggetti non suscettibili di essere estromessi dall'eredità, avendo la legge previsto delle quote di patrimonio a loro

(15)

operando per loro l'acquisto automatico dell'eredità20.

Inoltre nel diritto romano antico l'istituto della quota di riserva come limite alla libertà di testare non era conosciuto. Era semplicemente previsto un limite di carattere “formale” in presenza di sui: questi dovevano essere menzionati nel testamento al fine di o essere istituiti come eredi o diseredati. Insomma, tutto fuorché omessi (praeteriti).

La menzione del suo nel testamento venne qualificata come tutela solo “formale” proprio perché si basava su un requisito di forma e non di sostanza: una volta adempiuto all'istituzione o diseredazione del suo, “nulla era assicurato circa la partecipazione (quota) nell'eredità del disponente”21.

Potevano allora verificarsi tre ipotesi:

1) Se fossero stati istituiti eredi nel testamento, il testatore avrebbe avuto la piena libertà di frustrare le loro aspettative assegnandoli una

riservate.

19 Se si esclude gli schiavi manomessi nel testamento, tale categoria

ricomprendeva tutte quelle persone che si trovavano soggetti alla manus e alla

patria potestas del dante causa al momento della sua morte e che quindi erano

destinati a diventare sui iuris. Si trattava quindi dei figli e figlie del testatore, dei nipoti – ancora una volta era irrilevante il loro sesso – nati dai figli maschi, della moglie in manu (la quale era equiparata ad una figlia) e della nuora in

manu (la quale era equiparata ad una nipote). Da ciò possiamo capire

facilmente che la categoria de sui heredes era una prerogativa di un de cuius di sesso maschile, perché solo lui era capace di patria potestas e manus.

20 Si chiamavano extraneii non perché si trattasse di soggetti che niente avevano a che vedere con il nucleo familiare del dante causa ma in quanto non sottoposti né alla patria potestas né alla manus del de cuius. Come ricorda A. Petrucci, op. cit., pag. 82, erano heredes extraneii ad esempio “il figlio emancipato, un fratello, la madre” dell'ereditando oppure “i figli nominati eredi da una donna, in quanto priva di patria potestà”.

21 S. Pulatti, “De cuius hereditate agitur. Il regime romano delle

(16)

minima parte del patrimonio familiare; 2) Se fossero stati diseredati la conseguenza sarebbe stata l'esclusione

dall'eredità e dalla successione;

3) Se non fossero stati menzionati nel testamento non rimaneva altra strada che aprire la successione ab intestato a causa dell'invalidità dell'atto redatto dal de cuius.

La ratio alla base del principio di istituzione o diseredazione dei

sui però non aveva niente a che vedere con un fantomatico diritto

soggettivo degli eredi alla chiamata o con una tutela accordata ai sui perché stretti congiunti del de cuius, quanto con una “necessità giuridica superiore, indipendente sia dal volere del paterfamilias quanto dal volere dei sui22”.

La struttura della familia romana era architettata in modo tale che al momento della morte del paterfamilias coloro i quali fossero stati – fino a quel momento – assoggettati alla sua potestà e quindi alieni

iuris, divenissero sui iuris. E' lo stesso “ordine delle cose23” che

attribuisce ai sui, naturali continuatori della stirpe del defunto, la qualità di eredi in modo automatico, cosicché tra il momento che segna il decesso del de cuius e quello che incardina il suo come erede non è ravvisabile alcun iato temporale (un po' come avveniva nella Francia dei Volois, dove la formule “le roi est mort, vive le roi!” e

“le mort saisit le vif” ben testimoniavano la perpetuità dell'istituto

monarchico).

La necessità dell'istituzione o della diseredazione del suo trova quindi la sua ragione nella posizione che tale soggetto rivestiva nell'organigramma familiare.

E tale posizione familiare faceva sì che alla morte del dante causa i sui erano chiamati automaticamente ad occupare il posto di heredes.

22 G. La Pira, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in

diritto romano, Firenze, 1930, p. 3.

(17)

Ora, questo “ordine necessario” presentava comunque un limite: il de cuius avrebbe potuto disporre la diseredazione. E siccome l'istituzione e la diseredazione erano concepite come due facce della stessa medaglia – avendo la prima la funzione di designare un successore, e la seconda quella di rimuoverne uno per far spazio ad un altro – ne deriva che in mancanza di un'esclusione, un pater

familias che non avesse proceduto ad indicare nella scheda

testamentaria la sorte successoria dei sui, pretermettendoli, avrebbe non solo leso i presupposti stessi della libertà di testare, ma anche confezionato un testamento invalido. Per lo stesso motivo, nessun senso giuridico avrebbe avuto una scheda testamentaria contenente soltanto la clausola di diseredazione, non accompagnata dall'istituzione di erede.

In altre parole, l'identificazione dei sui come successori tramite l'istituzione di erede, non faceva altro che confermare ciò che altrimenti sarebbe accaduto con la successione legittima: come sappiamo dalle XII Tavole, il patrimonio di chi moriva intestato veniva devoluto ai sui, e, in mancanza, all'agnato di grado più vicino (come un fratello)24. Ne consegue che attraverso la confezione del

testamento la vocazione intestata dei sui – come abbiamo detto caratteristica connaturata della familia romana – veniva trasformata in una vocazione testamentaria. La stessa vocazione intestata poteva essere scalfita da una clausola di diseredazione volta ad escludere il

suo per istituire qualcun altro.

Claudio Trifonino, giurista dell'epoca dei Severi, infatti riconduceva25 a tre le situazioni che potrebbero coinvolgere un heres

suus: egli doveva necessariamente essere o 1) erede ex testamento, o

2) diseredato, o 3) erede ab intestato.

24 In assenza anche di agnati, in ultima istanza, erano chiamati alla successione i gentili.

(18)

Queste, e soltanto queste, erano le uniche vie percorribili.

Arrigo Manfredini, professore dell'Università di Ferrara, parla a tal proposito di un “formalismo interno al testamento26”. E questo

perché il testamento al fine di produrre i suoi effetti d'ora in poi non doveva solo essere rispettoso della forma esterna ed essere confezionato da chi disponesse di testamenti factio attiva27 ma

richiedeva un requisito in più: la non preterizione di certe persone legate al testatore da un vincolo potestativo, pena la nullità della scheda testamentaria. Il suus non poteva subire una preterizione perché egli era già erede ab intestato: se il de cuius desiderava escluderlo dalla successione non rimaneva altro che la diseredazione.

L'istituto della exheredatio costituisce il trait d'union tra due esigenze: da un lato, la successione per eccellenza, e cioè la successione dei sui, e dall'altro la piena libertà del testatore28.

Possiamo dire che gli effetti della diseredazione erano opposti e simmetrici rispetto all'istituzione di erede: quest'ultima mirava ad attribuire al designato (ex testamento) la qualità di heres; la prima rimuoveva tale qualità da coloro – i sui – che necessariamente (ab

intestato) la possedevano.

Nel Digesto sono presenti alcuni richiami concernenti i requisiti della diseredazione, dei quali sommariamente si può dar conto: a) doveva essere formalmente espressa nel testamento29;

26 A. D. Manfredini, La volontà oltre la morte, Torino, 1991, p. 40.

27 Si intende per testamenti factio attiva la capacità del testatore di fare testamento. A tal fine, era richiesta non solo la capacità giuridica – nel momento della confezione del testamento e, senza interruzioni, fino alla morte – ma anche la capacità di agire.

28 Secondo l'autorevole opinione di G. La Pira (op. cit., p. 28) la diseredazione non è solo contemporanea alla libertà di testare, ma anche correlativa: “quanto lontano si spinge il sorgere dell'istituzione di erede, tanto lontano si spinge anche il sorgere della diseredazione”.

(19)

b) non poteva essere sottoposto a condizione o a termine (actus

legitimus30);

c) non poteva farsi ex re certa31;

d) doveva farsi ab omnibus gradibus.

La diseredazione, sottoforma di una clausola che doveva essere contenuta nel testamento, poteva addirittura precedere la stessa istituzione di erede: di ciò non dobbiamo stupirci in quanto l'eliminazione del suo dalla successione era conditio sine qua non per l'individuazione di un diverso successore. Ciò non è di poco rilievo se pensiamo al fatto che l'istituzione di erede era considerata “caput

et fondamentum totius testamenti32”: non solo fondamento – in

quanto per essere considerato valido doveva contenere una valida istituzione di erede – ma anche l'inizio dello stesso – perché doveva essere posta prima di ogni altra indicazione, pena la nullità delle clausole precedenti33.

Gaio, (Inst. 2.123) ricorda comunque come si dovesse effettuare una distinzione tra figli maschi e gli altri sui – cioè figlie e nipoti di ambo i sessi – perché i filii dovevano essere diseredati nominàtim (ad esempio: Titius filius meus exheres esto, cioè Tizio, figlio mio, sia diseredato) mentre tutti gli altri potevano essere diseredati inter

cèteros, cioè con una formula generica complessiva (ad esempio: Ceteri omnes exheredes sunto, ossia tutti gli altri siano diseredati)34.

30 D 28.2: 18 pr. D 37.4; 3.2 D 28.2; 69 D 28.5; 29.10 D 28.2; 4.2 D 28.5; 13.2 D 28.2.

31 D 28.2.

32 Gaio, Inst. 2.229.

33 La rigidità di tale regole cadde in epoca Giustinianea.

34 La distinzione tra figli, figlie e nipoti fu abolita da Giustiniano, il quale richiese per tutti la diseredazione nominatim, a pena di nullità del testamento.

(20)

1.3 L'intervento formale e sostanziale del pretore

A partire all'ultima età repubblicana il pretore35 fu costretto ad

intervenire per risolvere un problema che attanagliava tutti quei figli che non erano soggetti alla patria potestà e per questo esclusi dal principio dello ius civile, così che i sui non si ritrovarono più ad essere i soli soggetti a dover essere nominati nel testamento.

Innanzitutto dobbiamo considerare i figli emancipati36 e le altre

categorie di discendenti che non erano contemplati nello ius civile in quanto estranei alla categoria dei sui heredes, come le vergini Vestali e i sacerdoti di Giove37.

A questi si deve aggiungere il figlio nato al di fuori del matrimonio legittimo: anche lui non poteva considerarsi suo.

Nei confronti di costoro, non essendo sui heredes, si sarebbe potuta registrare un'omissione nel testamento da parte del dante causa

35 A seguito dell'istituzione della magistratura pretoria, avvenuta nel 367

a.C., lo ius civile venne affiancato dallo ius honorarium, ossia quell'insieme di norma che venivano create di volta in volta dal pretore per risolvere quei casi di specie che non erano disciplinati dallo ius civile. Uno scritto di Papiniano rinvenuto nel Digesto ci aiuta a capire quale fosse il ruolo del pretore: “Ius

praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia” ossia, “Lo ius pretorium è il diritto introdotto dai

pretori al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius civile”.

36 L'emancipatio consisteva nella rinuncia volontaria del pater familias alla

patria potestà sul filius con conseguente acquisto da parte di quest’ultimo della qualità di persona sui iuris.

37 In alcuni casi poi non vi era necessità di una rinuncia volontaria per far cessare la patria potestà, in quanto questa veniva rimossa automaticamente al verificarsi di alcune tappe religiose compiute dai figli: le figlie che venivano consacrate alla Dea Vesta – appunto, le vergini Vestali – e i figli che divenivano sacerdoti di Giove – i flamines Diales – non erano da considerarsi sotto la potestà del pater familias.

(21)

senza che quest'ultimo potesse essere tacciato di invalidità. E la preterizione era perfettamente consentita perché si trattava di discendenti non più, o mai stati, sotto la potestà paterna.

Evidentemente, ben presto ci si rese conto dell'ingiustizia che si stava perpetrando nei confronti di chi si sentiva comunque appartenente, in senso lato, alla categoria dei più stretti congiunti del

de cuius. Non solo i sui, quindi, ma anche quelli che nella

successione ab intestato secondo il diritto pretorio erano i liberi: ossia la categoria dei sui, dei figli emancipati e di coloro che non si trovano in potestà (per esempio i figli dati in adozione che erano già

sui iuris al momento della morte del dante causa).

Il pretore, dovendo mirare alla correzione dello ius civile in tutti quelle situazioni in cui la sua rigida applicazione avrebbe comportato un'ingiustizia, interviene per attribuire ai liberi preteriti – categoria formata dai sui, dagli emancipati e dagli adottati non contemplati nel testamento – la bonorum possessio contra tabulas (e cioè il possesso dei beni ereditari contro le tavole del testamento) tramite una particolare azione, l'interdictum adipiscendae possessionis38.

Essi succedevano nella misura delle quote a loro spettanti iure

pretorio ab intestato, ossia nella misura delle quote che a loro

sarebbero spettate se non vi fosse stato testamento.

Quella che abbiamo appena descritto non era altro che una tutela solo formale, essendo sufficiente e necessario per il testatore nominare anche i figli non in potestà nel suo atto di ultima volontà al fine di istituirli eredi o diseredarli. In altre parole, l'antico principio dello ius civile “sui heredes aut instituendi sunt aut exheredandi” era stato ritoccato in favore di una categoria più ampia dei discendenti del de cuius.

38 Tale interdicta obbligava colui che possedeva i beni ereditari a titolo di erede o a titolo di possessore, a restituirli al legittimo proprietario.

(22)

Accanto alla fattispecie di bonorum posessio appena descritta ve ne era un'altra nell'ambito della successione tra patrono (cioè l'ex padrone) e liberto (cioè l'ex schiavo) che si fondava su un carattere di riconoscenza e che costituiva una tutela, questa volta, di carattere sostanziale.

L'editto pretorio prevedeva che se il liberto non avesse avuto figli, era per lui un obbligo lasciare metà (dimidae partis) del suo patrimonio a colui che lo aveva manomesso, liberandolo dalla schiavitù. In caso contrario, il patrono avrebbe potuto chiedere ed ottenere la bonorum possessio contra tabulas.

1.4 Indegnità a succedere

A differenza di quanto accadde nei secoli successivi, divenendo fonte di pericolosa confusione39 – di cui abbiamo tracce anche in

codici civili attualmente vigenti in diverse zone europee40 – a Roma

erano ben chiare le linee distintive tra la exheredatio e la indignitas, complice anche il fatto che quest'ultima poco aveva a che vedere con l'indegnità del diritto moderno.

Tale antico istituto, infatti, non dava luogo ad un’azione esperibile da parte dei chiamati successivi o da altri interessati privati, ma ad un’azione esperibile nell’interesse pubblico volta a rivendicare all'erarium popoli Romani (ossia l'Erario di Roma, finché non fu sostituito dal fisco) i beni ereditari, perché i fatti che rendevano la persona indegna non solo impedivano la successione, ma erano

39 Questa confusione deriva dal fatto che la maggior parte degli ordinamenti di civil law, conservando il sistema romanistico, oggi prevedono tanto

l’indegnità quanto la diseredazione.

(23)

colpiti con una sanzione pubblica che si traduceva nella confisca di tali beni.

La lista degli indigni veniva mano a mano aggiornata da costituzioni imperiali e sentatoconsulti: la serie dei casi di indegnità era tanto numerosa quanto incerta. Ne erano classiche manifestazioni innanzitutto tutte quelle situazioni che concernevano alcune gravi offese arrecate dall'indegno al de cuius come l'uccisione o l'attentato alla vita dell'ereditando, o ancora i rei d'adulterio, di stuprum, ecc. Coloro che venivano colpiti da tale sanzione “non furono ritenuti incapaci di acquistare iure hereditario (perché la disposizione ereditaria era valida ed efficace), ma quel che a questo titolo acquistavano o avrebbero potuto acquistare, veniva rivendicato extra

ordinem41” perché l'indegno non poteva ritenere l'acquisto.

Quindi è vero da un lato che il diritto romano contemplava, in relazione alla cattiva condotta tenuta dal successibile, sia l'istituto dell'indegnità che quello della diseredazione. Tuttavia, mentre l'origine del primo affondava le proprie radici nella legge (che considerava le gravi ipotesi riscontrando le quali si produceva il detto effetto), la seconda dipendeva dalla volontà privata, avendo il testatore la possibilità di escludere dalla successione determinati soggetti, anche per semplice inimicizia o antipatia.

1.5 La nascita della querela inofficiosi testamenti

L'istituto della querela inofficiosi testamenti42 costituisce il

fondamento storico della moderna legittima (cfr. c.c. it. artt. 536 e

41 M. Marrone, op. cit., p.354.

(24)

ss.) tant'è che “ai soggetti nel diritto romano attivamente legittimati alla querela corrispondono, in grossa misura, la categoria dei legittimari43”.

Grazie a tale istituto si comincia a parlare a Roma di una vera e propria successione materiale44 – e non più solo formale – contro il

testamento a favore dei più stretti congiunti del de cuius. Quello che avviene è una evoluzione nella stessa concezione della successione romana: avevamo detto che, originariamente, alla morte del

paterfamilias, quasi come uno scatto immanente ed ineludibile, i sui

venivano elevati al rango di eredi.

Ma durante il periodo pretorio la situazione comincia ad evolversi: la bonorum possessio contra tabulas, rimedio concesso proprio dallo ius honorarium a tutti quei figli – come gli emancipati – che non rientravano nel principio dello ius civile “sui heredes aut

instituendi sunt aut exheredandi” comincia anch'esso ad essere visto

come fonte di ingiustizia. D'altronde tale rimedio si era reso necessario per non discriminare tra figli in potestà e liberi, ma finiva per approntare un rimedio, ancora una volta, solo sul piano formale: se il testatore si fosse limitato a citare tali soggetti nell'atto di ultima volontà sarebbe stato superfluo indicare sia i motivi della diseredazione nel caso di clausola negativa, sia i motivi della disparità di quote ereditarie tra i successibili nel caso di istituzione di erede.

Nonostante questa considerazione, il diritto pretorio aveva posto le basi per superare la convinzione secondo la quale la successione dei sui fosse una connaturata caratteristica della familia romana, ed intravedere gli antecedenti dei diritti soggettivi individuali spettanti

43 A. Petrucci. op. cit., p. 385.

44 Nel senso che il testatore non poteva più rifugiarsi nella mera indicazione dell'erede nel testamento per diseredarlo.

(25)

ai più stretti congiunti in virtù del vincolo di sangue45. Questa idea,

aliena all'antico ius civile, comincia a fare la propria comparsa intorno al III sec. a.C., si espande durante tutto il periodo del diritto classico e postclassico e si perfeziona con il diritto giustinianeo.

A dare manforte a questa concezione intervenne la querela

inofficiosi testamenti, volta a garantire una vera e propria tutela

materiale.

La nuova sensibilità sociale e le istanze innovative del diritto successorio, a cui erano sensibili i centumviri46, accolsero, intorno al

I sec. a.C. un espediente retorico47 escogitato non tanto dalla

giurisprudenza quanto da avvocati che peroravano le cause dei loro clienti allo scopo di far invalidare quel testamento che escludeva i

45 Non è un caso che la parentela caratterizzata dal vincolo di

consanguineità, la cognatio, sia stata presa in considerazione ai fini successori proprio dal pretore a discapito della parentela politica, l'adgnatio.

46 Tribunale istituito nel II sec. a.C. e formato da cento magistrati che

giudicava in materia ereditaria.

47 Il collegamento tra la querela inofficiosi testamenti e le scuole retoriche è

stato evidenziato da numerosi studiosi, come F. Von Woess, Das romische

Erbrecht Monaco, 1911, p. 191 e ss.; G. La Pira, La successione intestata,

Firenze, p.416 e ss.; E. Renier, Étude sur l'histoire de la quarela inofficiosi

testamenti en droit romain, Liegi, 1942, p. 107 e ss. (che esordisce sostenendo

che “l'influence de la rhètorique dans le domaine de l'inofficiosité, n'est pas

nègligeable”); M. Marrone, Sulla natura della querela inofficiosi testamenti in

«SDHI», XXI, 1955, p.121 e ss; O. Diliberto, Il testamento del matricida, in

Studi economico-giuridici dell'Università di Cagliari, Torino, 1988, p. 193 e ss;

J.M. Ribas-Alba, La desheredaciòn injustificata en Derecho Romano: Querella

Inofficiosi Testamenti: Fundamentos y Régimen Clásico. Granada, 1998, p.182 e ss. (“color es una categoria retórica que significa la forma de aproximacíon

elegida en el análisi y exposicíon de una sunto”); S. Querzoli, I testamenti e gl officia pietatis, Napoli, 2000, p. 163 e ss. il quale evidenzia la funzione dei colores, tecnica argomentativa impiegata dai retori, in assenza di prove, per

(26)

prossimi congiunti dai successibili, o attraverso la diseredazione o attraverso la preterizione. La leva attraverso la quale scardinare l'atto di ultima volontà venne individuata nella possibilità di insinuare il dubbio di demenza del testatore. D'altronde, si diceva, “come si poteva giudicare diversamente chi esclude senza motivo valido un prossimo parente dalla successione?”48.

Si parlava a tal proposito di color insaniae, ossia di finzione di follia, proprio perché lo scopo degli avvocati era quello di far apparire il de cuius come un furiosus, ossia un soggetto totalmente incapace di agire il cui testamento era da considerarsi nullo, per il fine ultimo di ottenere l'annullamento della scheda testamentaria davanti al tribunale dei centumviri.

Ora, è da chiarire che tale atto, se si esclude i rari casi di un testamento redatto da un vero furiosus, era da un punto di vista legale, sia iure civili che iure pretorio, perfetto.

Il reale meccanismo di questa azione, operante grazie all'arte di persuadere mediante le parole degli avvocati, venne individuato nei riflessi che la parvenza di insania e, più in generale, una materia delicata come quella dei disturbi mentali, aveva sull'atto di ultima volontà.

Resta il fatto che in questo modo si creava uno spartiacque con il diritto romano più antico, dove, come è noto, non si conosceva una successione materiale contro il testamento e dove i successibili diversi dai sui – quelli cioè che non dovevano essere necessariamente istituiti o diseredati pena l'invalidità del testamento – non avevano alcuna possibilità di rivendicare una propria posizione nel momento in cui venivano esclusi dalla successione49.

48 M. Marrone, Querela inofficiosi testamenti (Lezioni di diritto romano), Palermo, 1962, p. 42.

49 Si veda sul punto M. Marrone, op. ult. cit, p. 34 e ss; Id. Sulla natura

(27)

Proprio perché i legittimati attivi all'azione ponevano l'attenzione sul rapporto di parentela che li legava al de cuius, sorse un nuovo dovere per chiunque si accingesse a redigere un atto di ultima volontà: non si sarebbe potuto ledere l'officium pietatis, ossia “il dovere morale di rispetto, dedizione e affetto da coltivarsi nei confronti, non solo della patria e degli dei, ma anche dei parenti50”.

In questo senso, era considerato inofficioso quel testamento che aveva eluso i rapporti di cura e di affetto che normalmente ci si aspetterebbe tra stretti congiunti.

E' ovvio che la nozione di color insaniae e di officium pietatis fossero tra loro interdipendenti: difficilmente un giudice poteva farsi abbindolare dall'argomentazione di pazzia del testatore a fronte dell'esclusione di un lontano cugino. L'esito della lite dipendeva, evidentemente, dalla vicinanza del vincolo parentale51.

Due erano le possibili conseguenze una volta esperita – entro il termine di cinque anni dall'accettazione dell'eredità – la querela: a) o chi l'aveva esperita (e generalmente si trattava di un successibile

ab intestato) si vedeva respingere l'azione dal Tribunale dei

centumviri con annessa sia una sanzione morale che pecuniaria: prima, l'indegnità a succedere52 (indignitas) derivante da una

immotivata contestazione della legittimità della volontà testamentaria, e poi, la destinazione dell'eredità all'erario (ma dopo il

inofficiosi testamenti, 1972, Napoli, p. 13 e ss.

50 D. Di Ottavio, Ricerche in tema di querela inofficiosi testamenti, Napoli,

2012, p.45.

51 D. 5.2.1 (Ulp. 14 ad ed.): cognati enim proprii qui sunt ultra fratem

melius facerent, si se sumptibus inanibus non vexarent, cum optinere spem non haberent.

52 Sulle origini dell'istituto, E. Nardi, I casi di indegnità nel diritto romano, Milano, 1937. Diciotto erano i casi che si susseguirono a Roma, tutti giudicati empi – come aver provocato al morte del de cuius o averne celato il testamento – che comportavano l'impossibilità di ereditare.

(28)

II secolo d.C., al fisco); b) ciò che succedeva quando la querela veniva invece accolta è immaginabile: non potendo più fare affidamento sulla volontà del de

cuius, riconosciuto come disobbediente all'ufficium pietatis, il

testamento era invalido e si apriva la successione ab intestato. A quel punto occorreva verificare contro chi la querela era stata intentata: se era stata fatta valere solo contro alcuni eredi e non tutti, allora il testamento era considerato invalido solo nei loro confronti, con la conseguenza che per gli altri restava salva la successione testamentaria53 (in deroga al principio nemo pro parte testatus pro

parte intestatus decedere potest)54.

1.6 Le Novellae Constitutiones in materia ereditaria

Giustiniano il Grande, durante il suo progetto di vita di riportare l'impero agli antichi fausti, fu molto attivo dal punto di vista giuridico, come testimoniato dalla pubblicazione della maestosa opera voluta proprio dall'imperatore bizantino, il Corpus Iuris

53 A. Petrucci riporta un esempio in op. cit.: “di quattro figli, tre sono stati

istituiti eredi ed uno, Tizio, è stato diseredato; se costui ritiene la diseredazione ingiusta e propone la querela solo contro un fratello istituito erede, vincendo la causa, i due fratelli non chiamati in giudizio succedono all'eredità secondo il testamento (che continua a valere nei loro confronti), Tizio ed il fratello sconfitto nella causa succedono in base alla successione senza testamento, cioè legittima.

54 Principio civilistico, molto risalente nel tempo, secondo il quale vi era incompatibilità tra successione testamentaria e successione legittima: nessuno poteva morire in parte avendo fatto testamento e in parte senza testamento. Non avrebbero quindi potuto coesister, in teoria, nei confronti dello stesso

(29)

Civilis, contenente il Digesto55, le Institutiotnes56, il Codex57 e le

Novellae Constitutiones58.

Delle nuove costituzioni imperiali emanate dall'imperatore Giustiniano nel periodo che va dal 535 fino alla morte dell'imperatore, avvenuta nel 565 ci interessa soprattutto la Novella 115. Le novità che vennero introdotte furono tali da costituire “il

novissimum ius e la base dell'istituto della legittima nel diritto

romano comune59”.

Una prima modifica concerneva l'istituto della exheredatio. Per Giustiniano le cause di diseredazione soffrivano di un doppio difetto: erano incerte perché nessuna legge le contemplava, e inoltre, almeno alcune, erano illegittime (nel senso che la loro applicazione variava da giudice a giudice).

Fino a quel momento, occorre ricordarlo, era ancora in vigore la regola del diritto onorario secondo la quale i sui heredes (ossia quei soggetti sottoposti alla potestà paterna) e gli altri figli ad essi parificati60 dovevano essere o istituiti o diseredati nel testamento.

Giustiniano restrinse le possibilità di diseredazione prevedendo

55 Raccolta di opere giurisprudenziali suddivisa in tre parti e 50 libri: il

Digestum Vetus occupa i libri dal primo al secondo titolo del libro

ventiquattresimo, il Digestum Infortiatum dal titolo terzo del libro ventiquattresimo al libro trentottesimo, il Digestum Novum dal libro trentanovesimo al cinquatesimo.

56 Opera didattica che, così come le Institutiones di Gaio, si divide in

quattro parti: personae, res, obligationes e actiones.

57 Raccolta di costituzioni imperiali emanate dallo stesso Giustiniano.

58 Il termine Novellae significa nuove, e sottolinea appunto che si tratta di costituzioni nuove rispetto a quelle contenute nel Codex.

59 L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale (successione

necessaria, Milano, 2000, p. 8.

(30)

delle giuste cause: 8 per gli ascendenti61 e 14 per i discendenti62. Se si

voleva procedere all'esclusione di un tale erede dall'atto di ultima volontà, occorreva non solo specificare la causa di diseredazione, ma che quest'ultima rientrasse nell'elenco della Novella 115.

In caso di violazione di questa disciplina (pensiamo ad un testatore poco accorto che diseredasse per un motivo non incluso nell'elenco della Novella) si verificava la modifica della delazione a

61 Cause che legittimavano l'esclusione degli ascendenti da parte dei

discendenti:

a) insidie alla vita;

b) accusa di un delitto punibile con la morte, escluso l'alto tradimento; c) adulterio con la moglie del discendente;

d) impedimento alla confezione del testamento; e) omissione del riscatto dalla prigionia di guerra; f) omissione di cure nei riguardi dell'infermo di mente; g) avvelenamento del coniuge.

62 Cause che legittimavano l'esclusione dei discendenti da parte degli

ascendenti:

a) insidie alla vita;

b) percosse e altre gravi offese;

c) accusa penale, eccettuati i delitti contro lo Stato e l'imperatore; d) eresia;

e) falsa denuncia, da cui sia derivato grave danno; f) adulterio con la moglie dell'ascendente;

g) impedimento alla confezione di un testamento

h) rifiuto di cauzione in favore dell'ascendente, che si trovi in prigione (ma ciò vale solo per i discendenti maschi)

i) omissione di cure nei riguardi dell'infermo di mente;

l) omissione del riscatto, se l'ascendente sia prigioniero di guerra e il discendente maggiore dei 18 anni;

m) frequentare avvelenatori e persone dedite alla magia;

n) esercizio del mestiere di artista del teatro, e simili, contro il volere dell'ascendente;

o) malcostume delle discendenti; matrimonio delle stesse contro la volontà dell'ascendente.

(31)

seguito del positivo esperimento della querela: per il legittimario preterito o ingiustamente escluso si apriva la successione intestata. Ma sarebbe ingenuo non tener di conto del fatto che nel corso dei secoli la querela inofficiosi testamenti, pur conservando la sua natura di azione di annullamento63, era stata relegata a sempre meno

infrequenti casi64.

A seguito della riforma quindi l'arbitrio dei giudici, che fino a quel momento avevano avuto discrezionalità nel giudicare le cause di diseredazione, veniva cancellato: o la causa rientrava in quelle elencate, oppure chi si vedeva escluso dalla successione avrebbe agito in giudizio per invalidare l'istituzione di erede ed ereditare ab

intestato.

Seppur risultasse pacifica l'inclusione della causa di diseredazione in quelle ammesse tassativamente, era lasciata alla sagacia e alla competenza dei tribunali la verifica delle circostanze concrete: l'erede escluso poteva contestare l'esclusione – con la querela – ed addossare l'onere della prova agli eredi istituiti nel testamento (che a quel punto dovevano “dimostrare la veridicità della causa di ingratitudine addotta dal de cuius (Nov. 115,3,15; 4,9)”65.

63 A proposito della disputa dottrinale originata dalla Novella 115 sulla

nullità o annullamento dell'istituzione di erede in caso di sua violazione, si vedano E. Racz, Le restrictions a la liberte de tester en droi roman, Parigi, 1934, p. 145; P. Voci, Diritto ereditario romano, Milano, 1960, p. 740 e M. Kaser, Das Rö omische Privatrecht, Monaco, 1971, p.520.

64 A seguito della Novella 115 la querela divenne inoltre incapace di

caducare – anche solo parzialmente – il testamento, limitandosi alla rimozione dell'istituzione di erede. Inoltre, nel periodo Giustinianeo, la querela non era esperibile se l'istituito era semplicemente leso e non pretermesso nella sua quota legittima: in quel caso si sarebbe dovuto ricorrere all'actio ad implendam

legitimam.

65 A. Sanguinetti, Dalla querela alla portio legitima. Aspetti della

(32)

La formalità della diseredazione – che affondava le proprie radici nell'epoca più antica – venne sostituita con l'indicazione puntuale dell'erede: “si può affermare che nel diritto giustinianeo la diseredazione poteva essere effettuata con qualsiasi formulazione, e al di là dell'indicazione nominativa, erano sufficienti tutte le indicazioni che consentissero di individuare il diseredato, purché si potesse evincere in maniera certa chi era le persona diseredata e la volontà di diseredazione da parte del testatore66”. A esemplificazione

: siccome solo mio figlio Caio non è un abituale frequentatore di persone dedite alla magia, nomino mio erede figlio Caio.

1.7 La situazione a seguito del crollo dell'impero romano

Le popolazioni germaniche denotavano un rapporto diverso con l'atto di ultima volontà e con la successione mortis causa in genere, ponendosi in antitesi rispetto al principio di unitarietà della successione romana67. A Roma68, infatti, la successione comprendeva

la totalità dei beni: “si trattava di un unico complesso di beni, il quale passava all'erede nel suo insieme e in tutte le sue parti, quante erano: cose e diritti, crediti e debiti, senza alcun riguardo alla varia natura dei beni, alla loro provenienza, alla inerenza, o alla relazione dei

1996, p.128.

66 S. Kursa, La diseredazione nel diritto giustinianeo, Bari, 2012 p. 202.

67 D. 27,1,30,1.

68 Lo deduciamo già dalle XII tavole (tab.V, 4 e 5): si intestato moritur, cui

suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto e si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento. E' chiaro come si pensasse alla successione

(33)

debiti con certe parti dell'asse69”.

E non è un caso che il concetto di riserva ereditaria – come porzione del patrimonio da accantonare per le generazioni successive – sorge nel diritto consuetudinario francese, partendo da una concezione dei beni in proprietà della famiglia caratteristica dei popoli germanici (Hausgemeinschaft), la quale, a dir la verità, non fu totalmente estranea neanche al mondo romano.

Ogni popolazione conosciuta, e non solo quella dell'Urbe, apprezzava tutto ciò che di materiale la sostentava: la casa in cui dormire, il gioiello di famiglia da tramandare, il bestiame da cui trarre i mezzi per nutrirsi. Un tempo i patrimoni, principalmente fondiari, erano il frutto del lavoro delle generazioni precedenti: da qui possiamo ricavare un dovere morale di impegnarsi a far sì che fossero trasmesse alle successive.

Nelle fonti romane70 ritroviamo copiosamente, a proposito della

chiamata dei sui heredes, il “concetto di una specie di dominio di questi sul patrimonio familiare, mentre è ancora in vita il loro genitore. Risaliva ad un'antica idea gentilizia quella secondo la quale la proprietà collettiva stava alla base dell'assegnazione dei beni familiari a tutti coloro che alla morte de de cuius sarebbero divenuti

sui iuris”71.

Non è un caso, infatti, che originariamente, a Roma, a seguito della morte del pater familias i figli divenivano contitolari del patrimonio ereditario attraverso l'antichissimo istituto del consortium

èrcto non cìto, in modo da non procedere alla divisione dello stesso,

69 F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici, con speciale riguardo

all'Italia. IV. Il diritto ereditario, Città di castello, 1909, p. 4.

70 Gaio 2,157; J. 2,19,2; J. 3; D. 28,2,11.

71 Cfr. J. Boissonade, Histoire de la réserve héréditaire et de son influence

(34)

ma piuttosto alla sua conservazione all'interno del nucleo familiare72.

Semmai il problema di un mancato sviluppo di tale concezione nel diritto romano è da indicarsi nel suo limitato impiego volto a erigere un mero requisito formale affinché la diseredazione dei sui

heredes potesse considerarsi valida: essi, secondo l'antico principio

dello ius civile che abbiamo più volte ricordato, dovevano essere inevitabilmente citati nel testamento, sia che venissero nello stesso diseredati sia che venissero istituiti.

Al di là delle Alpi invece si trovavano genti che per tradizione dovettero principalmente far leva sulla cellula organizzativa costituente la società, ossia la famiglia, il principale momento aggregativo dei popoli germanici.

Un vero e proprio “altro mondo”, che non concepiva – almeno in origine – né testamento né diseredazione, e dove non vi era un sistema giuridico compiuto (anzi, dove chi portava le armi aveva il diritto di farsi giustizia, e dove i concetti di giustizia e faida erano indissolubili), dove non si conosceva la scrittura73, caratterizzato da

popolo composto da un re scelto tra i migliori guerrieri e tribù organizzate in famiglie – molto spesso – imparentate tra loro.

Tenendo conto della “necessità di una forte organizzazione dei vincoli di sangue per la difesa e, all'occorrenza, anche per l'aggressione; la conseguente concezione solidaristica della famiglia; infine il vincolo ulteriore di solidarietà creato tra gli appartenenti al

72 Gaio, in Inst., scrive che “[...] mortuo patre familias inter suos heredes

quaedam erat legitima simul et naturalis societas, quae appelabatur erctum non citum […] In hac autem societate fratrum […] illud proprium erat unus quod vel unus ex sociis communem servum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquierbat: item unus rem comunem mancipando eius faciebat qui mancipio accipiebat”.

73 La società dei popoli germanici era caratterizzata non da un diritto scritto, ma da norme consuetudinarie, usi e costumi tramandate oralmente di generazione in generazione.

(35)

medesimo lignaggio del sacro dovere della vendetta privata (faida)74,

attribuirono all'idea della comunione familiare dei beni un valore più profondo75”, che originariamente si traduceva nella regola tramandata

da Tacito76: “Heredes tamen successoresque sui cuique liberi et

nullum testamentum” (ciascuno ha come eredi e successori i propri

figli, anche in assenza di testamento)77.

Andava di pari passo con quest'ultima convinzione il principio consuetudinario secondo il quale “solus Deus heredem facere potest,

non homo” (soltanto Dio, e non l'uomo, può creare gli eredi). Ciò

significava che “l'ordinamento giuridico consuetudinario non riconosceva al padre nessuna libertà di disporre dei beni che, dopo la

74 Questo carattere della famiglia germanica è segnalato dallo storico Tacito, Germania, 21: “...suspicere tam inimicitias seu propinqui quam

amicitias necesse est”. Per l'epoca feudale cfr. M. Bloch, La société féodale, I,

Parigi, 1984, p. 195.

75 L. Mengoni, op. cit., p. 19.

76 Lo storico scrive a proposito dell'educazione dei figli presso i Germani:

“In omni domo nudi ac sordidi in hos artus, in haec corpora, quae miramur,

excrescunt. Sua quemque mater uberibus alit, nec ancillis ac nutricibus delegantur. Dominum ac servum nullis educationis deliciis dignoscas: inter eadem pecora, in eadem humo degunt, donec aetas separet ingenuos, virtus adgnoscat. Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines festinantur; eadem iuventa, similis proceritas: pares validaeque miscentur, ac robora parentum liberi referunt. Sororum filiis idem apud avunculum qui ad patrem honor. Quidam sanctiorem artioremque hunc nexum sanguinis arbitrantur et in accipiendis obsidibus magis exigunt, tamquam et animum firmius et domum latius teneant. Heredes tamen successoresque sui cuique liberi, et nullum testamentum. Si liberi non sunt, proximus gradus in

possessione fratres, patrui, avunculi. Quanto plus propinquorum, quanto maior adfinium numerus, tanto gratiosior senectus; nec ulla orbitatis pretia”.

77 Tacito compie in questa maniera un paragone implicito con Roma esaltando la linearità e la semplicità di vita dei popoli germani contro l'avidità delle società più civilizzate

(36)

sua morte, facevano parte della massa ereditaria78”.

I figli sono non solo eredi delle sostanze patrimoniali, ma anche successori – nel vero senso della parola – nella direzione della famiglia, perché essi sono coloro che rimangono in vita a seguito della scomparsa dei padri. Di conseguenza, se a Roma non si può fare a meno di un atto di ultima volontà, con tutte le conseguenze – e soprattutto litigi79 – che ne derivano, non occorre un tale istituto nei

territori germanici perché è già noto a chi devono essere assegnati i beni: ai discendenti.

Lo storico menziona anche quale conseguenza si verificava in caso di assenza di figli: l'eredità rimaneva “in famiglia” devolvendosi ai fratelli (fratres), gli zii paterni (patrui), e gli zii materni (avanculi).

Col finire del IV sec. d.C. le popolazioni barbariche (che fin da due secoli prima avevano cominciato a creare i primi grattacapi all'impero80) riuscirono non solo ad oltrepassare i limes, ma anche a

stabilirsi nei territori precedentemente difesi da Roma, e quindi entrando definitivamente in contatto con la sua civiltà. E purtuttavia il diritto romano non riuscì mai – almeno fino al Code Civil81 – a

eliminare del tutto queste regole “nei paesi della Gallia in cui si insediarono i Franchi, e che più tardi (dal duecento in poi) furono detti di diritto consuetudinario, perché in essi le consuetudini

franco-78 S. Cierkowski, L'impedimento di parentela legale. Analisi

storico-giuridica del diritto canonico e del diritto statale polacco, Roma, 2006, p. 143.

79 Come dimenticare la rappresentazione dei “cacciatori di eredità” in

Satyricon, di Petronio?

80 Si narra che lo stesso Marco Aurelio sia stato costretto a risiedere e combattere per anni lungo il fronte della Pannonia, senza mai poter far ritorno a Roma.

81 J. Viollet, Precis de l'historie du droit français, II, Parigi, 1886, p. 749: “Ici la forte constitution de la fmille opposa au driot de teste une digue

puissante: cette dique jusu'au Code Civil ne fut pas rompue; elle ne fut qu'entamée”.

Riferimenti

Documenti correlati

Six intervention studies have been selected and evaluated (see Table 3).. The study by Crowther et al. [24] was a prospective, randomized one on APS patients enrolled according to

,; P ECCHIOLI , Ai soli effetti civili il rinvio si fa (anche) al giudice penale: carsici ripensamenti in giurisprudenza , in Dir. almeno D’A LESSANDO , op. 413 s., ad

The section 295 is located among the provisions specifically related to the first instance proceedings (for parallel ways, relating to appeal and Revision, see sections 534 e

The complex hosts a range of mineral deposit types including (1) contact Ni-Cu-PGE reef mineralisation at the base of the intrusion, (2) internal PGE reefs

“ programmazione di un processo di formazione specifico (di insegnamento/apprendimento) per un livello e per un periodo limitato …che tenga conto più di quel che realmente accade

Ciò in quanto le amministrazioni aggiudicatrici – comunque tenute a rispettare la direttiva generale – non avrebbero mai potuto beneficiare dell’eventuale riconoscimento

Fonte: Elaborazione INAPP su dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema Informativo Statistico delle Comunicazioni Obbligatorie.. Esaminando l’andamento