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L A R EGIA M ARINA ITALIANA TRA INNOVAZIONE E G RANDE G UERRA

Con la guerra italo-turca116 l’Italia si assicurò, come possedimenti, la Libia e l’acquisizione temporanea di quel complesso di dodici isole che poi verranno chiamate Dodecaneso. Il controllo italiano di questi nuovi territori incrinò i già non buoni rapporti con il governo transalpino. Parigi era ben consapevole che con l’acquisizione della Libia l’Italia avrebbe potuto divenire, di fatto, la padrona del Mediterraneo centrale e che il Dodecaneso sarebbe stato una formidabile piattaforma di partenza per l’incremento del commercio e dell’influenza italiana nel Mediterraneo orientale anche a scapito dei cospicui interessi francesi117.

Naturalmente con l’occupazione italiana del Dodecaneso ad essere minacciati non furono solo gli interessi francesi. Notevole fu l’eco dell’impresa dell’Italia a Londra, la quale vide nel nuovo possedimento italiano una grave minaccia per le proprie vie commerciali e di collegamento non solo per il Mar Nero e per tutto il Levante. Questi timori furono espressi con eccezionale chiarezza in una nota del 20 giugno dell’Ammiragliato al Foreign Office dal titolo “occupazione italiana delle isole egee e i suoi effetti sulla politica navale“ dove si legge: «La posizione geografica di quelle isole abilita la potenza sovrana, se in possesso di una Marina, ad esercitare il controllo sul commercio del Levante e del Mar Nero e minacciare la nostra posizione in Egitto in misura mai verificatasi in precedenza»118.

116

Nella guerra italo-turca per la prima volta al mondo furono adoperati i primi rudimentali aerei con compiti di esplorazione da parte del Regio Esercito e della Regia Marina. Sulla Guerra italo turca, Gabriele M., La Marina

nella guerra italo-turca – il potere marino strumento militare e politico (1911-1912), Roma, USMM, 1998. Si

veda anche il più recente lavoro di Buchet e Poggi, Il contributo della Regia Marina nella guerra del 1911-1912

contro l’Impero Ottomano, USMM, Roma, 2011.

117 Nassigh R., La Marina Italiana e l’Adriatico, il potere marino in un teatro ristretto, Roma, USMM, 1998 p. 35,

e Giorgerini G., Da Matapan, cit., p. 67; Donolo L., Storia della Dottrina, cit., p. 247.

118

Come ricorda il Gabriele: «vi si nota che per molto tempo l’Ammiragliato, nel decidere la propria politica in Mediterraneo, era partito dal presupposto che gli interessi britannici (commercio nel Mar Nero, del Levante e dell’Egitto; rotta del Canale di Suez per l’Oriente) esigevano che nessuna forte potenza navale occupasse in permanenza un punto suscettibile di divenire una base ad est di Malta. Nelle Sporadi meridionali, se fossero rimaste a regime sotto controllo italiano, detta eventualità avrebbe potuto verificarsi … Nelle condizioni del passato, sarebbe stato agevole bilanciare questi pericoli mobilitando le forze navali britanniche del Mediterraneo, ma nel presente, dovendosi per ragioni di sicurezza concentrare con tutta la flotta nel Mar del Nord, “la situazione sarebbe assai aggravata dallo stabilirsi nell’Egeo di una stazione navale ostile [come riporta il documento dell’Ammiragliato su citato n.d.r.] … Per le considerazioni sopra esposte si può affermare con sicurezza che il possesso da parte italiana di basi navali del Mare Egeo minaccerebbe la nostra posizione in Egitto, ci farebbe perdere il controllo del commercio del Mar Nero e del Levante e in caso di guerra esporrebbe le nostre rotte per l’Oriente attraverso il Canale di Suez alle operazioni dell’Italia e dei suoi alleati“». Cfr. Gabriele M., Origini e trattative e aspetti della Convenzione Navale Italo-Franco-Britannica del 10 maggio 1915, In «Bollettino dell’Archivio Storico della Marina Militare», marzo 2008, Roma, p. 19.

42 Se da un lato l’annessione di questi territori rafforzava la posizione politico-economica italiana nel Mediterraneo, aprendo scenari commerciali interessantissimi119, dall’altro complicava i compiti della Marina, non strutturata per queste nuove incombenze.

Infatti il fronte marino, già vasto, aumentò considerevolmente accrescendo il compito della Regia Marina che ora, oltre a doversi preoccupare della difesa delle coste nazionali, doveva impegnarsi nella protezione e nel rifornimento di questi nuovi possedimenti. Scrive Donolo:

«Peraltro, le nuove conquiste territoriali facevano intravedere nuovi impegni navali gravosi, per sostenere i quali sarebbero state necessarie una dimensione ed una potenza più adeguate di quelle di cui disponeva la Regia Marina, soprattutto se si fosse dovuto immaginare uno scontro futuro con francesi ed inglesi»120.

Per cui le grandi capacità operative ed organizzative dimostrate dalla Marina italiana durante la guerra italo-turca, che fecero tanta impressione nell’opinione pubblica mondiale, tanto da far rientrare l’Italia nel novero delle grandi potenze121 ed attrarre a sé importanti partner commerciali come gli Stati Uniti, ora divenivano elementi d’imbarazzo a causa della necessità italiana di dotarsi di un apparato navale più moderno e corrispondente alle nuove necessità122. A ciò bisognerà poi aggiungere una delle preoccupazioni “regina“ della nostra marina: il dominio dell’Adriatico, da sempre vero cruccio della forza navale italiana.

119

Scrive Cernuschi: «Gli americani erano i partner ideali per la imprese italiane. Sufficientemente lontani da non causare problemi immediati e ricchi sia in termini di capitali sia di tecnologie. A loro volta gli statunitensi erano in cerca di una contropartita mediterranea abbastanza evoluta da tornare loro utile, ma anche di taglia tale da non avanzare pretese eccessive. Dopo aver puntato, all’inizio, sull’Austria-Ungheria gli americani decisero nel 1912, dopo la prova di efficienza evidenziata nel corso del recentissimo conflitto tra l’Italia e Turchia, di spostare la sede delle proprie maggiori imprese in Europa, a partire dalla Standard Oil Company, da Trieste a Venezia salvo passare, subito dopo, a Genova» in Navi e quattrini – L’economia e la Marina Militare

italiana fino al XXI secolo, in edibus, Vicenza, 2013, p. 148.

120

Cfr. Donolo L., Storia della Dottrina, cit., p. 250.

121

Scrive ilCernigoi:«Il pericolo fu subito grande. L’italia che era uscita dalla guerra di Libia era una potenza che faceva timore … La Marina italiana in quella guerra aveva lasciato interdetti molti osservatori per le sue qualità belliche. Quella che fino ad alcuni anni prima della guerra italo-turca era considerata una potenza navale secondaria aveva fatto passi da gigante, e i giudizi su di essa erano notevolmente cambiati. Soprattutto dopo l’azione dei Dardanelli e i blocchi della costa turca», Cernigoi A., Cooperazione fra eserciti e flotte nella prima

guerra mondiale, in «Bollettino dell’Archivio Storico della Marina Militare», dicembre 2009, p. 86.

122

Si veda Rapalino P., Dalle Alpi all’alto mare – il ruolo della Marina Militare italiana nella tutela degli interessi

nazionali (1861-2013), in edibus, Vicenza, 2014. p. 112. Dove, nella stessa pagina, possiamo leggere inoltre «Ma

i tempi stavano cambiando e lo strumento navale italiano, inteso come insieme di uomini e mezzi, stava invecchiando: non sarebbe stato più capace di ripetere gli stessi risultati raggiunti contro l’Impero Ottomano nei futuri conflitti mondiali, dove anche le potenze marittima di più antica tradizione come la Gran Bretagna e la Francia, incontrarono una serie di difficoltà a tenersi al passo con i tempi. Proprio nei confronti della Turchia, soltanto tre anni dopo, le grandi potenze subirono uno dei più grandi scacchi della storia militare con il disastro di Gallipoli».

43 Tale “imbarazzo” era dovuto non solo alla “quantità” del naviglio ma anche alla “qualità” dello stesso, dato che buona parte di questo già destinato alla demolizione fu richiamato in servizio a causa della guerra con la Sublime Porta.

Questo mutamento di situazione fu talmente preoccupante da spingere l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon de Revel, nell’aprile del 1913, a scrivere un promemoria, dove indicava con lucidità e chiarezza le diversità tra politica estera nazionale e le reali condizioni ed esigenze della Marina. Il promemoria concludeva con la giusta osservazione secondo la quale occorreva o cambiare la Marina adeguandola alla politica o cambiare la politica adeguandola alla Marina123:

«… la nostra posizione marittima nel concerto della Triplice alleanza pecca gravemente per due ragioni: o per una grande lacuna nell’apprestamento navale nostro o per un grande malinteso. La prima non si colma che rafforzando d’urgenza la flotta, la seconda non si rimedia se non cambiando la politica … Sorge … spontanea la domanda se … sia la politica nostra che non è in armonia con il nostro apparecchio militare marittimo, o se sia quest’ultimo discorde dalla politica nostra, ed incapace perciò di assumersi tutti quegli obblighi vitali e supremi di cui il Paese, nella sua inconscia fiducia, ama immaginare investita la propria potentissima Marina … ( quindi ) o cambiare la Marina, mettendola in relazione con la politica; o cambiare la politica, mettendola in relazione della Marina»124.

La natura difensiva della Triplice Alleanza fece in modo da consentire all’Italia di dichiarare la propria neutralità.

A tale proposito è fondamentale ricordare come la neutralità italiana salvò Parigi dalla catastrofe militare. Infatti, il non intervento in guerra dell’Italia non solo non aprì un nuovo fronte terrestre con la Francia, ma consentì, di fatto, la libertà di movimento della marina francese nel Mediterraneo, che, contrastata solo da due incrociatori tedeschi, fu in grado di trasportare l’Armata d’Africa dalle coste del Marocco al territorio nazionale, arrestando così l’avanzata tedesca sulla Marna125.

«La comunicazione della neutralità italiana, il 3 agosto, fu accolta “con manifesta emozione“ dalla Presidenza del governo francese; il Presidente della Repubblica Viviani “ringraziò commosso … [ed] espresse a nome della Francia sensi viva riconoscenza“, aggiungendo che “non sarà mai

123 Pellegrini E., Giuseppe Sirianni Ministro della Marina (1874-1955), USMM, Roma, 2004, p. 33; DonoloL.,

Storia della Dottrina, cit., p. 248; cfr. Gabriele M.,Le Convenzioni Navali della Triplice, USMM, Roma, 1969, pp.

285-413.

124 Cfr. G

IORGERINI G., Da Matapan al Golfo Persico, cit., p. 69.

125

Cfr. Rapalino P., Dalle Alpi all’alto mare cit., p. 128 e si veda anche H. Lore, La guerra sul mare 1914-1918, Provveditorato Generale dello Stato, Roma, 1930, p. 5.

44 dimenticato atteggiamento preso dalla Nazione sorella nel momento che il Paese sta attraversando“»126.

I benefici navali della non belligeranza italiana furono ben maggiori. Con esso, infatti, la Royal Navy poté disporre liberamente del naviglio assegnato alla Mediterranean Fleet senza esporre a grossi rischi le linee commerciali e di comunicazione nel Mare Nostrum vista l’impossibilità della Imperial- Regia Marina austriaca di scontrarsi da sola contro la flotta francese di stanza a Malta127. In pratica il non intervento della Regia Marina lasciava la Marina Nationale padrona del Mediterraneo, ma non dell’Adriatico, mentre consentiva contemporaneamente alla Royal Navy di concentrare il miglior naviglio disponibile nel Mar del Nord per effettuare quel blocco a distanza sulla flotta tedesca che porterà al collasso economico ed industriale della Germania guglielmina128.

Non trascurabile fu anche la pressione esercitata dalla Marina che riteneva decisamente difficile garantire i trasporti e le comunicazioni nel Mediterraneo dovendosi confrontare contro due delle più formidabili marine del mondo, quella inglese e quella francese, che per di più possedevano eccezionali basi navali che garantivano loro il pieno controllo del Mediterraneo orientale ed occidentale129. Inoltre i rapporti tra la Marina italiana e quella austriaca non erano certo improntati sulla reciproca fiducia e sul reciproco rispetto130.

126 Cfr. Gabriele M., Le Convenzioni Navali della Triplice, cit.,, p. 25.

127 È interessante riportare ciò che scrive Gabriele: «il 18 marzo … Winston Churchill, Primo Lord

dell’Ammiragliato, aveva tenuto un discorso in Parlamento nel quale aveva affermato che la superiorità navale nel Mar del Nord era vitale per la difesa del territorio nazionale. Per averne la certezza dinnanzi alla crescente minaccia navale tedesca la Royal Navy doveva concentrarvi le sue forze migliori, richiamandole da altre dislocazioni e questo significava la riduzione della Squadra del Mediterraneo e il trasferimento della sua base principale d’appoggio da Malta a Gibilterra. È difficile esagerare l’impatto di una tale decisione in Gran Bretagna, dinanzi alla prospettiva che per difendere la madrepatria la Marina abbandonasse una politica secolare del Mediterraneo che era stata puntello della potenza e della sicurezza inglese». Cfr. ibidem, p. 17. In

DDI, 5, II, doc. 31.

128 Il blocco navale operato dagli inglesi dette i frutti sperati: in breve tempo la penuria di fertilizzanti causò la

drastica diminuzione dei raccolti e l’industria tedesca si vide costretta nel ’17 a produrre un terzo in meno della produzione dell’anteguerra a causa della mancanza di materie prime. Si veda GabrieleM., Il Potere Marittimo

nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico Marina Militare»,

Roma, Supplemento settembre 1995, p. 40.

129

«Allo scoppio della Grande Guerra, se l’Italia si fosse schierata al fianco di Austria e Germania avrebbe effettuato un vero e proprio suicidio: una eventuale vittoria contro la Triplice avrebbe comportato un deciso rafforzamento dell’Austria sul mare, tale da estromettere irrimediabilmente l’Italia dall’Adriatico. Anche se l’Austria fosse stata sconfitta e l’Italia fosse restata neutrale, le potenze della Triplice non avrebbero certamente “regalato“ il dominio dell’Adriatico all’Italia. L’Italia doveva assolutamente rischiare il tutto per tutto, doveva entrare in guerra contro l’Austria-Ungheria nella speranza di batterla. Solo in questo caso avrebbe avuto le carte in regola per “pretendere“ che gli fosse riconosciuto il dominio dell’Adriatico». Cfr. Turrini A., Origini della Grande Guerra, cit., p. 117.

130 I rapporti tra le due Marine tripliciste ormai da anni erano caratterizzati da sentimenti di rivalità e sospetto.

Sin dalla fine del 1800 l’Impero austro-ungarico dette forte impulso sia alla marina militare che a quella mercantile. Ma le caratteristiche tecniche della nuova flotta austriaca indicavano con chiarezza l’intento politico di Vienna. Le nuove navi di linea austriache, avevano un’autonomia e una velocità inferiore a quelle italiane mantenendo però una buona protezione e buone artiglierie. Quindi navi più piccole e meno veloci ma molto ben protette e con buoni cannoni poco adatte per concorrere con la flotta italiana alla guerra nel

45 Un ruolo di grande importanza sarebbe stato svolto dal servizio aeronautico al quale sarebbe toccato non solo il compito dell’esplorazione aerea, ma anche, una volta dotato degli strumenti necessari, di svolgere compiti offensivi131.

A questo riguardo è importante sottolineare come la Regia Marina italiana, se pur con mezzi molto limitati, fu la prima al mondo a condurre studi sul lancio di siluri. L’idrovolante in questione era il Pateras-Pescara-Giudoni, progettato dal marchese Raul Pateras-Pescara e costruito dall’ufficiale Guidoni nell’Arsenale di Venezia, su incarico della Marina. Tale rudimentale idrovolante aveva un’apertura alare di 22 metri e montava due motori francesi della Gnôme da 200 cavalli. Così il 26 febbraio del 1914 Guidoni portò in volo “l’idrosiluratore“ e lanciò un simulacro di siluro dal peso di 375 Kg132. Ricorderà lo stesso Guidoni nelle sue memorie:

«Fu questo il primo lancio mai tentato ed eseguito, ed ebbi ad accorgermene quando, giunto negli Stati Uniti, mi vidi promosso all’onore di essere il primo idrosiluratore del mondo, come, con l’entusiasmo così facile degli americani, mi si chiamò sulle riviste e sui giornali»133.

Tornando al promemoria di Revel, questo si fondava sulla profonda convinzione che la guerra futura avrebbe visto il largo impiego dei nuovi mezzi siluranti, di mine e della aereonautica che si stava sviluppando velocemente in tutte le più importanti marine del mondo, ridimensionando, di fatto, il ruolo delle corazzate, una volta ritenute le vere regine degli oceani. In questa direzione egli sviluppò, con grande intensità, la sua opera di Capo di Stato Maggiore sin dai primissimi giorni del 1913 del suo nuovo incarico. Infatti si adoperò non poco al fine di portare la flotta sommergibilistica italiana da 12 a 36 battelli134, bloccando addirittura qualche tempo dopo la costruzione delle nuove corazzate monocalibro italiane della classe Caracciolo135, per destinare quei preziosissimi fondi alla costruzione Mediterraneo contro la Marina francese, ma perfette per dominare l’Adriatico dal versante orientale. Quanto detto non sfuggì allo Stato Maggiore della Marina italiana che già nel 1908 sintetizzò le proprie preoccupazioni in un promemoria redatto per la Commissione Suprema dove, con grande lungimiranza, si anticipava la linea strategica che avrebbe adottato l’Austria in un conflitto contro l’Italia. Essa utilizzando le particolarità difensive della propria costa avrebbe tenuto la flotta da battaglia in porto pronta ad uscire mentre avrebbe assegnato alla flotta di naviglio sottile e silurante il compito di inibire i trasporti ed i rifornimenti tramite rapide azioni. Per questi motivi il documento suggeriva: «In base a si fatti principi sembra che si possa ritenere che una flotta operante al largo sia equipollente ad una flotta che si trovi in acque sicure, quando la prima abbia una potenza doppia di quella della seconda». Cfr., TurriniA., Origini della Grande Guerra, cit., pp. 115-116.

131 FerranteE., La Grande Guerra in Adriatico, USMM, Roma, 1987, p.31. 132

Sull’argomento si veda De Risio C., L’Avizione di Marina, Roma, USMM, 1995, pp. 27-29.

133

Cfr. Galuppini G., La Forza Aerea della Regia Marina, Roma, USMM, 2010, p. 32.

134 GiorgeriniG., Da Matapan al Golfo Persico, cit., p. 71.

135 Delle quattro corazzate di cui Revel interruppe la costruzione ossia la Colombo, Colonna, Morosini e

Caracciolo solo di quest’ultima, a guerra ormai finita, ne fu terminato lo scafo. Nonostante non fosse

completata come nave da battaglia, lo scafo giocò ancora un ruolo, partecipando sia pur indirettamente, al feroce scontro tra chi voleva le navi portaerei nella marina e chi riteneva questo tipo di naviglio inutile. Infatti gli ingegneri dell’Ansaldo trasformarono il progetto della Caracciolo nave da battaglia in nave portaerei come fecero gli americani con la Lexington e la Saratoga. Si veda di Rastelli A., La portaerei italiana, cento anni di

46 di mine, di cacciatorpediniere e naviglio silurante di cui la flotta italiana era poco provvista. Per ciò che concerne l’uso e l’impiego delle mine marittime, il Capo di Stato Maggiore, resosi conto della loro capacità di sbarrare le rotte del mare, ne chiese la disponibilità di almeno 5000 unità. In realtà, a quel tempo, tali ordigni in nostro possesso erano all’incirca 3000. Si calcola che nel corso del conflitto ne siano state adoperate oltre 12.000.136

È importante ricordare che la guerra russo-giapponese si esaurì con la battaglia risolutoria di Tsushima137 la quale, in pratica, aveva confermato, in buona parte, le teorie mahaniane. Se è pur vero che alcune considerazioni generali, fatte da Mahan, sui fattori che influenzano il potere marittimo di una nazione sono tutt’oggi valide (come: la posizione geografica; la conformazione fisica; l’estensione del territorio; l’entità e il carattere della popolazione ed infine le caratteristiche del governo)138 è anche vero che molte delle sue teorie sull’impiego e sulla costruzione di una flotta per l’esercizio del Sea Power erano inevitabilmente legate alla tecnologia del tempo e alla monodimensionalità del mare.

Una “monodimensionalità”, destinata a scomparire rapidamente o, per meglio dire, ad essere trasformata in “tridimensionalità” dall’uso e dall’impiego del sommergibile e del mezzo aereo, che di fatto trasformarono il “nuovo” spazio marino in una realtà a tre dimensioni: sottomarino, di superficie ed aereo. Di qui anche il principio, per il quale si prediligeva la costruzione di sole navi di linea139 a scapito di altro naviglio, dimostrava la sua totale inadeguatezza non solo ai tempi, ma anche nei confronti dei nuovi sistemi d’arma. Lezione questa che la Royal Navy imparerà a sue spese nei primi mesi di guerra, quando il 22 settembre una squadra navale composta da tre incrociatori corazzati l’Aboukir, Cressey e Houge, senza scorta antisommergibile, in pattugliamento nel Mar del Nord fu colata a picco dal solo sommergibile tedesco U9140.

Anche la Marine Nationale pagherà a caro prezzo l’impreparazione alla nuova guerra in mare e all’offesa subacquea. L’operazione della marina francese del 16 agosto del ’14, al largo delle Bocche di Cattaro, comportò l’affondamento del vecchio incrociatore protetto austriaco Zenta, mentre il cacciatorpediniere Ulan riusciva a riparare in porto, dopo quasi un’ora di tiro “disordinato e confuso“, ma tale vittoria costò non poco alla forza navale francese. Infatti, il giorno dopo, la nave da battaglia Justice speronò la gemella Republique, i cacciatorpedinieri Mangini e Renaudin accusarono

dibattiti e progetti, Milano, Mursia, 2001 pp. 49-51. Sempre sull’argomento Bagnasco E., Una portaerei

mancata, la "Francesco Caracciolo", in «Rivista Marittima», maggio 1991.